Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2011-03-21, n. 201101712
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N. 01712/2011REG.PROV.COLL.
N. 07623/2008 REG.RIC.
N. 08000/2008 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7623 del 2008, proposto dalla s.r.l. Ca' Vico, in persona del legale rappresentante por tempore, e dal signor F M, in proprio, entrambi rappresentati e difesi dagli avvocati A M T, M E V e F Z, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. M E V in Roma, via Lima, 15;
contro
La Regione Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
la Provincia di Padova, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Sergio Dal Pra’ e Luigi M, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luigi M in Roma, via Federico Confalonieri, 5;
il Comune di San Martino di Lupari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Alberto B e Fabio L, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Fabio L in Roma, via del Viminale, 43;
il Presidente della Regione Veneto, il Presidente della Provincia di Padova, il Dirigente del Servizio Cave della Provincia di Padova, la Commissione Tecnica Provinciale attività estrattive della provincia di Padova, l’Arpav - Dipartimento Provinciale di Padova, i signori Pisani Giovanni Battista, Zorzato Pietro, Rigo Giuseppe, responsabile del settore edilizia privata del Comune di San Martino Di Lupari, Pegoraro Paolo Responsabile del Servizio di Polizia Municiplae del Comune di San Martino di Lupari, Baggio Giuseppe Stefano Istruttore dell’Ufficio tecnico del Comune di San Martino di Lupari, non costituitisi nel presente grado di giudizio;
'INTIMATI'
sul ricorso numero di registro generale 8000 del 2008, proposto dalla s.r.l. Tecnoasfalti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Annamaria Tassetto, M E V e F Z, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. M E V in Roma, via Lima, 15;
contro
La Regione Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
il Comune di San Martino di Lupari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Alberto B e Fabio L, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Fabio L in Roma, via del Viminale, 43;
il Presidente della Regione Veneto, il Presidente della Provincia di Padova, il Dirigente del Servizio Cave della Provincia di Padova, la Commissione Tecnica Provinciale attività estrattive della provincia di Padova, l’Arpav - Dipartimento Provinciale di Padova, i signori Pisani Giovanni Battista, Zorzato Pietro, Rigo Giuseppe, responsabile del settore edilizia privata del Comune di San Martino Di Lupari, Pegoraro Paolo Responsabile del Servizio di Polizia Municiplae del Comune di San Martino di Lupari, Baggio Giuseppe Stefano Istruttore dell’Ufficio tecnico del Comune di San Martino di Lupari, non costituitisi nel presente grado di giudizio;
Entrambi per la riforma della sentenza del T.a.r. Veneto - Venezia: Sezione seconda, n. 4029/2007;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 gennaio 2011 il Cons. R G e uditi per le parti gli avvocati V, Z, D P, M, B, P, per delega dell'avvocato L, e l'avvocato dello Stato P;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Vengono in decisione gli appelli proposto dalle società Ca’ Vico s.r.l. e Tecnoasfalti s.r.l. e dal signor F M anche in proprio, per ottenere la riforma della sentenza del T.a.r. Veneto, Sezione II, 18 dicembre 2007, n. 4029.
La sentenza di primo grado ha respinto, dopo averne disposto la riunione, dieci ricorsi proposti dalla società Ca’ Vico e dal signor F M nei confronti di una serie di provvedimenti adottati dalle Amministrazioni indicate in epigrafe relativamente alla cava di ghiaia denominata “Campagnalta”, situata nel Comune di San Martino.
Avverso tale sentenza ha proposto appello anche la s.r.l. Tecnoasfalti, che ha acquistato dalla s.r.l. Ca’ Vico una parte della cava “Campagnalta”.
Alla pubblica udienza del 18 gennaio 2011, gli appelli sono stati trattenuti per la decisione.
2. Occorre anzitutto disporre la riunione degli appelli stante l’evidente connessione soggettiva ed oggettiva, trattandosi di appelli avverso la medesima sentenza.
3. Gli appelli risultano infondati e vanno respinti.
4. Prima di esaminare i motivi di gravame, occorre procedere ad una sintetica ricostruzione delle tappe essenziali della complessa vicenda oggetto del presente giudizio.
Con la delibera n. 1313 del 13 marzo 1979, la s.n.c. EMI di Stoppa Francesco e C. è stata autorizzata dalla Regine Veneto a coltivare la cava di ghiaia denominata “Campagnalta” sita nel Comune di San Martino di Lupari;con la delibera n. 342 del 22 gennaio 1980, la Regione ha autorizzato il Consorzio Estrattori Materiali Inerti del Cittadellese (C.E.M.I.C.) all’esercizio di attività estrattiva in un’area limitrofa.
A seguito dell’incorporazione della EMI (nel 1992) e di C.E.M.I.C. (nel 1994) nella s.r.l. Ca’ Vico, quest’ultima ha chiesto la volturazione di tali autorizzazioni (che erano state nel frattempo prorogate), e la Giunta Regionale l’ha concessa rispettivamente con deliberazioni 17 maggio 1993, n. 2315, e 4 ottobre 1994, n. 4630.
In prossimità della loro scadenza, la s.r.l. Ca’ Vico ha presentato per entrambe istanza di ulteriore proroga, che la Regione ha concesso a condizione che venisse predisposto dalla richiedente un progetto unitario di ricomposizione ambientale nell’ambito del quale la stessa avrebbe potuto asportare il materiale non destinato a detta ricomposizione.
Con la delibera 22 novembre 1994, n. 5609, la Giunta Regionale ha approvato il menzionato progetto, ha fissato il termine di coltivazione della cava al 30 giugno 1998 (termine poi prorogato al 30 giugno 2003, con decreto dirigenziale 17 luglio 1998, n. 311) e ha dettato le prescrizioni per la ricomposizione del sito.
Nel corso gli anni, le autorità a vario titolo competenti hanno riscontrato una serie di violazioni da parte della s.r.l. Ca’ Vico (come l’escavazione abusiva con asporto di materiale in quantità superiore a quella autorizzata, l’abbandono e l’interramento di rifiuti, lo scarico di limi derivanti dal lavaggio di inerti nel lago di cava e nel terreno), con grave deturpamento dei luoghi e inquinamento dell’ambiente.
Di conseguenza nei confronti della medesima società sono stati adottati alcuni provvedimenti, impugnati in primo grado.
In particolare, con le ordinanze dirigenziali 28 agosto 2001, n. 310, e 1° ottobre 2001, n. 341, la Regione Veneto ha sospeso cautelarmente per trenta giorni qualsiasi lavoro estrattivo presso la cava. Una successiva sospensione, questa volta a tempo indeterminato, è stata disposta sempre dalla Regione Veneto con ordinanza dirigenziale 2 novembre 2001, n. 375. A tale provvedimento ha fatto seguito il decreto dirigenziale 27 marzo 2003, n. 81 che ha disposto la apposizione dei sigilli all’area di cava.
Anche il Comune di Campo San Martino, riscontrando le gravi implicazioni provocate, sotto il profilo igienico, dallo scarico delle acque reflue industriali e dall’abbandono dei rifiuti nell’area di cava ha sospeso a più riprese, nel 2001 e nel 2002, la attività estrattiva, ed ha imposto la presentazione di un programma di smaltimento.
La Provincia di Padova, da parte sua, dopo aver accertato la abusiva escavazione di materiale in uno dei mappali interessati dal progetto di ricomposizione ambientale, ha irrogato una sanzione alla società Ca’ Vico e al suo legale rappresentante, che è stata impugnata, ai sensi della legge n. 689 del 1981, innanzi al giudice ordinario.
L’accertamento di illeciti in materia ambientale, nonché del pericolo di superamento dei limiti di accertabilità della contaminazione del suolo, risultanti dalle analisi commissionate all’ARPAV, ha ulteriormente indotto la Provincia di Padova, attraverso la Commissione Tecnica Provinciale Attività di Cava, ad esprimere parere favorevole alla revoca di ogni atto autorizzatorio rilasciato alla sr.l. Ca’ Vico.
Anche la Commissione tecnica regionale attività estrattive (C.T.R.A.E.) ha espresso parere favorevole alla revoca, al fine di evitare i rischi ambientali che la continuazione dell’attività estrattiva avrebbe potuto determinare (sempre in seguito ai risultati forniti dall’ARPAV).
Conseguentemente, il Dirigente Regionale della Direzione Geologia e Ciclo dell’Acqua, con il decreto n. 227 del 18 settembre 2003, ha revocato con effetto immediato ogni autorizzazione alla coltivazione di cava, disponendo che la società Ca’ Vico fosse tenuto a realizzare tutti gli interventi necessari alla ricomposizione ambientale, secondo le direttive e i tempi stabiliti dall’Amministrazione provinciale, e demandato a quest’ultima la quantificazione del danno ambientale prodotto.
Ai fini della quantificazione del danno, la Giunta provinciale, con delibera 22 novembre 2004, ha conferito il relativo incarico all’architetto Andrea Sillani. Successivamente, sulla base della relazione predisposta dallo stesso predisposta, il Dirigente del Servizio Cave di Padova, con determinazione 11 agosto 2006, n. 2528, ha stimato il danno ambientale in un importo non inferiore ad € 38.663.266,00, mentre con la determinazione 11 agosto 2006, n. 2529, ha invitato la s.r.l. Ca’ Vico ed il suo rappresentante legale ad eseguire gli interventi di ricomposizione ambientale e messa in sicurezza del complesso estrattivo in conformità al progetto approvato con la deliberazione della Giunta Regionale 22 novembre 1994, n. 5609, nonché alle ulteriori direttive contenute nella determinazione stessa.
La s.r.l. Ca’ Vico, con dieci ricorsi, ha impugnato tutti gli atti sopra menzionati innanzi al T.a.r. Veneto, che, con la sentenza prima citata, li ha respinti.
Gli appelli che oggi passano in decisione sono diretti ad ottenere la riforma di tale sentenza e l’accoglimento dei ricorsi di primo grado.
5. Ciò premesso, si può passare all’esame delle censure delle appellanti.
6. Occorre, in primo luogo evidenziare che, come correttamente ritenuto dal Tribunale amministrativo regionale, la delibera della giunta regionale n. 5609 del 1994 può essere considerata non come mera autorizzazione alla coltivazione di cava in senso proprio, ma come un progetto di ricomposizione ambientale, con contestuale prelievo di materiale.
Tale conclusione trova conferma, oltre che nel contenuto del provvedimento, nel complesso iter procedimentale che ha portato alla sua adozione.
Giova ricordare che la zona cui si riferisce la predetta autorizzazione necessitava da tempo di un recupero ambientale, a causa delle estrazioni abusive già contestato a E.M.I. e C.E.M.I.C., per un totale di mc 216.211.
La Regione, pronunciando sulle istanze di proroga presentate separatamente dalle due responsabili, aveva pertanto sollecitato la redazione di un progetto unitario di riqualificazione ambientale con lo scopo di ripristinare un contesto alterato dalle precedenti escavazioni (v. le delibere della giunta regionale n. 2427 e 2428 del 26 maggio 1994).
L’obiettivo dichiaratamente perseguito era il “ recupero in senso naturalistico del bacino lacustre, mediante una rimodellazione delle sponde ed una riprofilatura delle scarpate ”, attraverso un progetto corredato da una planimetria dello stato di fatto “ impostata su capisaldi certi e riconoscibili, evidenziando le situazioni planoaltometriche ”.
In questo quadro, emerge chiaramente che la movimentazione del materiale ancora disponibile avrebbe dovuto essere finalizzata al ripristino, anziché pregiudicare ulteriormente lo stato dei luoghi,
Del resto, proprio per soddisfare esigenze tecniche connesse alla ricomposizione ambientale sono stati inclusi nei lavori di sistemazione ulteriori mappali precedentemente non autorizzati (nn. 120, 119 e 203 del foglio 8, unitamente al sedime di una canaletta demaniale nel tratto compreso tra il mappale 98 e 120).
Il progetto della s.r.l. Ca’ Vico, sottoposto alla Regione in data 8 settembre 1994 e definitivamente approvato con il citato atto n. 5609 del 22 novembre 1994, era, quindi, chiaramente diretto a consentire il ripristino ambientale del sito, nel rispetto delle caratteristiche naturalistiche originarie.
A sostegno di tale conclusione, risulta inoltre significativo evidenziare che la soluzione prospettata dagli appellanti, secondo cui verrebbe in rilievo una semplice autorizzazione alla coltivazione di cava, sarebbe in contrasto con l’art. 44, comma 1, della legge regionale n. 44 del 1982, il quale stabilisce che – fino all’entrata in vigore del PRAC – le autorizzazioni o concessioni per l’ampliamento delle cave in atto o per l’apertura di nuove cave destinate all’estrazione di materiale del gruppo A (sabbia e ghiaia) possono essere rilasciate esclusivamente nei Comuni elencati nell’allegato 1 della stessa legge regionale, tra cui non è incluso il comune di San Martino di Lupari nel cui territorio si colloca la cava in questione.
Si tratta di un dato importante, già valorizzato dalla sentenza di primo grado, in quanto il canone ermeneutico secondo cui tra varie interpretazioni possibili deve essere sempre privilegiata quella in base alla quale l’atto può ritenersi conforme alla legge (con conseguente esclusione dell’interpretazione che lo rende invece illegittimo) vale anche per i provvedimenti amministrativi.
7. Non meritano accoglimento neanche le censure con cui si contesta la quota da cui calcolare le escavazioni, al fine di valutarne l’eventuale abusività.
La Provincia di Padova, competente a vigilare sull’attività di scavo e ad irrogare le conseguenti sanzioni amministrative, ha calcolato i quantitativi estratti a decorrere dal piano di campagna così come risultante dalle curve altimetriche: m. 45,73 sul livello del mare.
Le infrazioni accertate ammonterebbero così a mc 694.671, comprensivi di mc 10.637 scavati nei mappali ex 86 e 159 e mc 216.211, già contestati e E.M.I. e C.E.M.I.C.
Le appellanti deducono, invece, che la quota da cui calcolare l’escavazione è quella corrispondente al caposaldo di riferimento collocato a 47,50 mt slm.
Oggetto di disputa è il ruolo da riconoscere a tale caposaldo.
Secondo le Amministrazioni appellate, infatti, il caposaldo oltre a non essere presente nelle originarie tavole progettuali, risulterebbe incompatibile con le curve altimetriche e rivestirebbe carattere fittizio.
La s.r.l. Ca’ Vico al contrario sostiene che il caposaldo è sempre esistito e che tutti i progetti di coltivazione autorizzati in relazione alla cava di cui si controverte hanno fatto riferimento ad esso.
A tal proposito, il Collegio rileva, anzitutto, che la questione relativa alla presenza del caposaldo non risulta decisiva in quanto, come correttamente osserva la Provincia di Padova nella sua memoria, la scelta di considerare o meno il caposaldo incide sull’entità dell’abuso, ma non sulla sua esistenza, nel senso che il quantitativo di materiale escavato in difformità e in eccesso rispetto a quello autorizzato è talmente elevato che, anche utilizzando come punto di riferimento la quota di caposaldo (posto a 47,50 mt s.l.m.), anziché la quota del pano di campagna (situato a mt 46,0 s.l.m.) permane l’escavazione abusiva, che, fra l’altro, è solo una delle numerose violazioni contestate che hanno determinato l’adozione del provvedimento di revoca).
La permanenza dell’abuso è confermata dalla stessa sentenza della Corte di Appello di Venezia (prodotta in giudizio dalla s.r.l. Ca’ Vico), la quale, in sede di ricorso avverso la sanzione pecuniaria irrogata dalla Provincia di Padova, pur ritenendo di dover considerare il caposaldo, non ha annullato la sanzione, ma l’ha soltanto ridotta nell’importo, sul presupposto che comunque la violazione permanesse.
Comunque, anche a prescindere da questo dato dirimente, il Collegio ritiene che sia corretto calcolare la quantità di materiale scavato senza considerare il caposaldo (partendo, quindi, dalla quota di 46,00 mt s.l.m.).
La scelta dell’Amministrazione, infatti, risulta tecnicamente attendibile e sorretta da adeguata motivazione e si sottrae, pertanto, alle censure mosse dalla ricorrente.
Giova precisare, sotto tale profilo, che l’esatta individuazione dell’ammontare di materiale abusivamente estratto in una situazione ambientale compromessa e alterata, quale è quella in esame, risulta estremamente difficile. L’individuazione di tale presupposto di fatto (l’entità dell’escavazione) rappresenta, ad avviso del Collegio, un’operazione che appartiene alla categorie delle valutazioni tecnico-discrezionali, in quanto avviene mediante parametri e criteri che hanno un margine di fisiologica opinabilità ed elasticità.
Conformemente ai principi che regolano il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni connotate da discrezionalità tecnica, il Giudice deve pertanto accertare non se quella cui è giunta l’Amministrazione sia l’unica soluzione possibile (perché il carattere elastico ed opinabile dei parametri utilizzati implica che non esiste un unico risultato esatto), ma se quella soluzione sia, pur nella sua fisiologica opinabilità, tecnicamente attendibile.
Nel caso di specie, le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a ritenere il caposaldo non compatibile con la rappresentazione delle curve altimetriche utilizzate indicate nel progetto di ricomposizione originario risultano certamente attendibili e sono sorrette, anche sotto il profilo tecnico, da numerosi riscontri tecnici (tra cui, per citare solo i più significativi, la relazione della ditta AGEPI s.a.s. di data 5 dicembre 2002, nonché la nota della Provincia di Padova n. 6272/2003 di data 23 gennaio 2003, che elenca ben 14 accertamenti da cui emerge l’esistenza di escavazioni abusive).
Né, per sostenere l’erroneità di tale valutazione, può essere utilmente invocata la sentenza della Corte di Appello di Venezia (pronunciata in sede di ricorso avverso la sanzione Amministrativa) che ha fatto riferimento al caposaldo per accertare l’esistenza dell’abuso.
Tale sentenza, infatti, non fa stato nel giudizio amministrativo, sia perché non tutte le parti di questo giudizio lo sono state nel giudizio civile che ha portato a quella pronuncia, sia perché si basa su un accertamento che è avvenuto applicando regole, anche probatorie, differenti rispetto a quelle tipiche del giudizio amministrativo. Gli accertamenti contenuti nella sentenza del giudice civile rappresentano, quindi, un dato istruttorio senz’altro significativo e autorevole, ma non tale da inficiare la complessiva attendibilità della valutazione tecnica su cui si basa il provvedimento impugnato.
8. Sono infondate anche le censure con le quali si contesta l’accertamento di scarichi abusivi di reflui industriali, a cui si ricollegano le censure relative all’impugnativa della sospensione dell’autorizzazione allo scarico delle acque e del diniego di concessione in sanatoria delle vasche di decantazione.
Dagli atti di causa risulta che la ditta ha attivato uno scarico non autorizzato di acque reflue industriali, originarie dalle attività di estrazione e lavorazione degli inerti, e riversate nel laghetto di cava a mezzo di una tubazione sporgente.
Come ha rilevato il T.a.r., le cui statuizione sul punto meritano piena condivisione, ciò emerge in segnatamente: a) dalle relazioni ARPAV- Dipartimento Provinciale di Padova- DPA/08550/T3602/A2 del 4.11.1999;n. 84/99/gpz/GPZ/ARPAV del 22.10.1999;b) dalla nota del medesimo ARPAV del 4 ottobre 2001;c) dalla relazione di sopralluogo del Comune di San Martino di Lupari del 27 luglio 1999 da cui sono emerse palesi irregolarità nello scarico di acque reflue, tra cui vasche di decantazione rivestite da materiale difettoso e quindi non impermeabili, oltre alla mancanza di un registro di carico e scarico delle stesse acque reflue stoccate nelle vasche;d) dalla successiva relazione datata 30 luglio 1999 che ha ulteriormente precisato che il fossato in cui confluiscono le acque reflue era privo di ogni protezione impermeabile risultando “un vero e proprio scarico sul terreno”, che non era noto lo scarico terminale di dette acque, che nella parte ovest del bacino di cava risultavano depositati materiali inerti, limi e materiale proveniente da demolizioni.
Lo scarico di acque reflue industriali nel laghetto di cava senza autorizzazione è stato tra l’altro oggetto della vicenda penale a carico del legale rappresentate della s.r.l. Ca’ Vico, conclusasi con un patteggiamento di cui alla sentenza n. 21 del 2003 depositata il 31 marzo 2003 del Tribunale ordinario di Padova – Sezione di Cittadella. Tale sentenza, per quanto non faccia stato nel presente giudizio, è comunque un ulteriore elemento che può essere preso in considerazione al fine di ritenere, insieme a tutti gli altri elementi sopra ricordati, raggiunta la prova della presenza di scarichi abusivi.
A fronte di un quadro indiziario così articolato, non può avere alcun rilievo la circostanza che la Provincia di Padova, in data 23 marzo 2000, abbia autorizzato la ditta Ca’ Vico allo scarico delle acque. Detta autorizzazione, sospesa con provvedimento n. 728/DEP/ 2001, è successiva alle ispezioni comunali sopra citate e non vale a sanare le violazioni precedentemente riscontrate.
Essa comunque non consentiva lo scarico nel terreno con le modalità riscontrate. In particolare, il provvedimento della Provincia di Padova del 23 marzo 2000 non autorizzava affatto ad aprire lo scarico, ma solo ad eseguire i lavori previsti dal progetto. Infatti, l’autorizzazione prescriveva: “ l’avvio del sistema di sedimentazione e l’attivazione dello scarico è subordinato alla presentazione, alla Provincia e all’Arpav dipartimento provinciale di Padova del certificato di regolare esecuzione delle opere rilasciato del Direttore dei lavori ”.
Per aprire lo scarico, quindi, era necessario che la ditta producesse, come invece non ha mai fatto, il certificato di regolare esecuzione delle opere che permettevano di depurare il suo scarico
In particolare, dagli atti emerge che la società Ca’ Vico ha attivato due scarichi sul suolo senza autorizzazione: uno proveniente dai servizi igienici (scarico civile) ed uno proveniente dall’impianto di trattamento e lavaggio delle ghiaie (scarico industriale).
Il Comune, pertanto, intimò alla ditta di sospendere gli scarichi non autorizzati e di avviare le procedure per ottenere le autorizzazioni necessarie.
La s.r.l. Ca’ Vico comunicò che non esistevano scarichi industriali, in quanto l’impianto di lavaggio utilizzava un ciclo produttivo chiuso nel quale i reflui di lavorazione venivano disposti in vasche di decantazione, che erano state realizzate dalla società EMI s.n.c. precedente concessionaria della cava. Secondo la medesima società, si trattava di vasche a tutela stagna che non davano luogo ad alcuno scarico, sicché non vi era la necessità di avere alcuna autorizzazione amministrativa.
Al contrario, dai sopralluoghi eseguiti dai tecnici comunali emerse che la vasca di decantazione era solo una fossa scavata nel terreno priva di adeguata impermealizzazione.
Con ordinanza n. 51 del 2 agosto 2009, il Comune impose a Ca’ Vico di sospendere l’attività di lavorazione
Il T.a.r. Veneto, innanzi al quale la s.r.l. Ca’ Vico impugnò tale provvedimento, dispose fosse effettuato un accertamento in contraddittorio per verificare se la vasca fosse o meno a tenuta stagna. Da tale accertamento (eseguito in data 8 febbraio 2000) emerse che la vasca di decantazione non risultava essere a tenuta stagna e non garantiva la completa assenza di scarichi idrici nel sottosuolo (relazione Arpav del 22 febbraio 2000). La stessa relazione dell’Arpav appena citata precisa che la s.r.l. Ca’ Vico avrebbe potuto “ottenere il completo soddisfacimento dei propri interessi non appena sarà in grado di documentare che l’impianto di cui trattasi è assolutamente esente da perdite o da scarichi di acque reflue”.
La s.r.l. Ca’ Vico presentò allora l’istanza di autorizzazione alla Provincia di Padova, la quale, in data 23 marzo 2000, rilasciò l’autorizzazione preventiva allo scarico, ma subordinò l’attivazione dello scarico – che per essere immesso nel suolo doveva essere depurato attraverso il passaggio in vasche di decantazione – alla presentazione di un certificato di regolare esecuzione delle opere finalizzate alla depurazione.
La società presentò, quindi, la richiesta di sanatoria ai sensi dell’art. 97 della legge n. 61 del 1985, dichiarando che le vasche erano state realizzate dalla precedente concessionaria della cava ed erano in essere dal 12 agosto1988.
Tale dichiarazione, che contrastava con i precedenti accertamenti eseguiti dagli uffici comunali e dall’Arpav, ha condotta al diniego di sanatoria oggetto del presente giudizio.
9. Anche in merito a tale provvedimento, la sentenza di primo grado va confermata.
La società nella domanda di sanatoria ha indicato una data di realizzazione delle strutture che contrasta con gli accertamenti fatti dal Comune. Le opere di cui la società ha chiesto la sanatoria sono certamente diverse rispetto a quelle realizzate nella ditta EMI nel 1988. Il divieto di sanatoria è quindi certamente legittimo, in quanto non risulta comprovato il momento di edificazione di dette vasche, necessario ai fini dell’accertamento della cosiddetta doppia conformità, prevista dall’art. 97 della legge regionale n. 61 del 1985.
Ne discende anche la legittimità del provvedimento di sospensione dell’autorizzazione allo scarico, visto che tale sospensione si fonda proprio sul mancato rilascio della concessione edilizia per le vasche di decantazione.
10. Non risultano fondate neppure le censure con cui si contesta l’accertamento relativo alla concentrazione di sostanze chimiche nocive dannose in percentuali superiori ai valori medi.
Le considerazioni svolte dagli appellanti, secondo cui le concentrazioni di sostanze nocive (in particolare di arsenico) sarebbero endemiche non possono essere accolte in considerazione del fatto che il terreno di San Martino di Lupari presenta un livello medio di arsenico di 12,1 mg/kg, mentre la concentrazione rilevata nel terreno in questione è risultata doppia rispetto a quella rilevata nel territorio comunale.
In particolare, i referti relativi alle analisi eseguite sul fondale del lago di cava hanno evidenziato che accanto a zone dove l’arsenico si presenta in concentrazione di 9, 11 o 15 mg/Kg ve ne sono altre, che sono poi quelle più prossime alla zona interessata dall’ordinanza oggetto del presente giudizio, dove il valore dell’arsenico arriva a 30 mg/Kg.
E’ quindi certamente attendibile la conclusione cui giunge il provvedimento impugnato, secondo cui questi livelli di concentrazione di arsenico, sensibilmente superiori ai valori medi, sono dovuti al fatto che vi è stato interrato rifiuto inerte proveniente da altri siti, nei quali il livello di arsenico era più altro di quello presente naturalmente sul terreno della cava.
In senso contrario non può essere invocata la relazione del dottor B, prodotta dalla s.r.l. Ca’ Vico per dimostrare che l’arsenico sarebbe endemico nel territorio di San Martino di Lupari.
I campioni prelevati dal perito dell’appellante non sono significativi perché non sono stati prelevati in contraddittorio e perché i terreni nei pressi della cava sono stati oggetto di ripetuti scavi abusivi e successivo interramento, sicché non possono certo costituire un parametro dal quale dedurre il livello medio di arsenico presente nel terreno.
11. Ugualmente deve ritenersi provata la circostanza che nella cava Campagnella sia stato introdotto ad opera della ricorrente limo proveniente da altri siti.
Significativa, a tal proposito, è la circostanza, già valorizzata dal T.a.r., secondo cui, considerato che l’autorizzazione di cava consentiva l’estrazione di ghiaia fino ad una profondità di circa trenta metri e che dalla documentazioni in atti risulta invece che ad una profondità di trenta metri nel laghetto non vi è gaia, ma uno strato di limo dello spessore di 5/6 metri, appare ragionevole dedurre che è stato estratto un ulteriore strato di ghiaia dello spessore di altrettanti metri, per l’intero fondo del laghetto, ed al posto del materiale estratto è stato posto limo proveniente da altri siti.
La responsabilità di Ca’ Vico in merito all’abbandono nella cava di materiale di risulta proveniente dall’esterno emerge ulteriormente dagli accertamenti che avevano portato il Comune ad emanare l’ordinanza sindacale n. 51 del 2 agosto 1999 (ordinanza impugnata innanzi al T.a.r. Veneto con il ricorso n. 2139/99, ora estinto per rinuncia).
Già in quell’occasione, i tecnici dell’Arpav, nel corso di un sopralluogo, rilevarono “evidenti tracce di recente movimento di terra, con in superficie la presenza di limo misto a inerti frantumati, di probabile provenienza esterna al bacino di cava”. Analoga circostanza era stata segnalata dai tecnici comunali a seguito di un sopralluogo nel luglio del 1999 nel quale si precisava che era stata eseguita una operazione di sbancamento con asporto di materiale vegetale non autorizzato e si notavano cumuli di materiali costituiti da terreno misto a inerti, limi e in alcuni casi provenienti da demolizioni.
L’ordinanza oggetto del presente ricorso non è che la conseguenza del provvedimento del 1999, che già accertò in capo alla s.r.l. Ca’Vico l’esecuzione di lavori di sbancamento non autorizzati sul terreno a sud ovest della, nonché il deposito di materiali non autorizzati.
12. Sono infondati anche i motivi di appello diretti a censurare la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto legittima l’ordinanza regionale n. 81 del 23 marzo 2003, che ha posto i sigilli alla cava, dopo che alcuni operai incaricati dalla s.r.l. Ca’ Vico erano stati sorpresi a rimuovere rifiuti ed a smaltirli in violazione sia dell’ordinanza regionale n. 375 del 2001 (che vietava alla società di eseguire qualsiasi attività sul sito e financo di utilizzarlo), sia dell’ordinanza del Comune n. 3 del 14 gennaio 2002, che imponeva alla ditta di presentare un programma di smaltimento di rifiuti.
Al riguardo è sufficiente osservare che l’ordinanza regionale vigente al momento del sopralluogo vietava qualsiasi manomissione del sito e che il Comune di San Martino aveva espressamente diffidato sin dal 30 agosto 2002 la s.r.l. Ca’ vico dall’iniziare la rimozione dei rifiuti senza aver prima presentato un programma di smaltimento.
Né possono nutrirsi dubbi sul fatto che gli operai presenti ad eseguire i lavori di pulizia e rimozione fossero incaricati dalla società: basti solo considerare la circostanza che gli operatori avevano il libero accesso agli uffici presenti nell’area della cava ove hanno condotto gli ufficiali redattori del verbale e dove hanno esibiti i registri di carico e scarico della ditta.
La violazione delle regole del contraddittorio procedimentale e, in particolare, il vizio di omessa comunicazione del procedimento deve escludersi in considerazione delle ragioni di urgenza che certamente hanno connotato il provvedimento impugnato.
12. Infondati sono anche i motivi diretti a contestare la delibera del commissario ad acta , architetto Giovanni Battista Piani del 27 settembre 2003, con la quale è stata negata l’approvazione dei paino di recupero presentato dalla società.
Innanzitutto, il provvedimento impugnato si fonda su molteplici ragioni, ciascuna delle quali ha una sua autonomia, sicché l’appello, contestando soltanto alcuni dei motivi che sorreggono il diniego si rivela, già solo per questo, inammissibile per difetto di interesse. L’accoglimento delle censure prospettate non travolgerebbe il provvedimento che rimarrebbe comunque fondato su presupposti non contestati.
Ciò premesso, l’appello risulta comunque infondato, in quanto la decisione di subordinare l’approvazione del piano di recupero alla previa ricomposizione ambientale si fonda sull’art. 23 della legge regionale n. 44 del1982, che prescrive la ricomposizione ambientale, come ribadito, del resto, nel caso di specie dal dirigente regionale del 18 settembre 2003, n. 227.
13. Infondati sono anche i motivi diretti contro il provvedimento di revoca dell’autorizzazione alla coltivazione di cava.
Ciò alla luce delle seguenti considerazioni:
l’atto è stato correttamente adottato dal dirigente, conformemente a quanto si ricava dal principio generale di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 165 del 2001, secondo cui tutti gli atti di natura propriamente amministrativa, già attribuiti dalla legge agli organi politici, rientrano tra le competenze dei dirigenti. Nel caso di specie, tale conclusione è espressamente confermata dall’art. 4 della legge regionale n. 1 del 1997, che ha disciplinato l’assetto della dirigenza secondo i principi fondamentali espressi dalla disciplina statale, prevedendo all’art. 4 che la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, spetta ai dirigenti.
Nel caso di specie sussistevano i presupposti della revoca, in quanto questa può essere disposta non solo quando l’alterazione della situazione geologica o idreologica sia dovuta a fattori naturali, ma anche quando sia imputabile, come lo è nel caso di specie, a gravi inadempienze del titolare dell’autorizzazione alla coltivazione della cava, che rendano inopportuna la prosecuzione dell’attività di cava, senza quindi che vi sia alcuna strumentalizzazione dell’istituto a finalità sanzionatorie.
Non risulta alcuna violazione dell’art. 10 legge n. 241/1990, in quanto, anche a prescindere dalla genericità della censura, le osservazioni del ricorrente trovano specifica confutazione nella motivazione del provvedimento.
14. Parimenti infondato è l’appello nella parte in cui contesta la delibera 2 novembre 2004, n. 608, con cui la Giunta Provinciale ha incaricato un professionista esterno di effettuare la quantificazione del danno ambientale e la nota 15 dicembre 2004, n. 128286 con cui il dirigente del Settore Ambiente ha comunicato alla s.r.l. Ca’ Vico l’avvio del procedimento volto ad effettuare tale quantificazione.
Sotto tale profilo, il Collegio non può che rilevare l’inammissibilità per difetto di interesse del ricorso di primo grado e, dunque, dei correlati motivi di appello. La quantificazione contestata non ha, infatti, alcun immeditato effetto lesivo;essa deve ritenersi un atto meramente interno strumentale all’esercizio dell’azione risarcitoria in sede giudiziale ai sensi dell’allora vigente art. 18 della legge n. 349 del 1986, applicabile alla fattispecie in esame in quanto gli eventi che hanno prodotto il danno sono antecedenti all’entrata in vigore della parte sesta del ‘codice dell’ambiente’ approvato col d.lg. n. 152 del 2006.
In base all’art. 18 appena richiamato, infatti, gli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo non potevano procedere in via amministrativa per ottenere il ristoro del danno ambientale, ma dovevano avvalersi dei rimedi giurisdizionali proponendo apposita azione innanzi al giudice ordinario.
Ciò comporta che l’attività posa in essere dalla Provincia di Padova al fine di determinare l’ammontare del danno ambientale prodotto dalla escavazione abusiva della s.r.l. Ca’ Vico non hanno rivestto un carattere lesivo, poiché si tratta di una attività che non è prodromica all’adozione di un provvedimento autoritativo volto ad ottenere il risarcimento del danno in questione, ma solo di un atto interno eventualmente finalizzato all’esercizio dell’azione civile di danno.
In definitiva, le considerazioni svolte confermano la legittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado. Ne discende il rigetto dei ricorsi, ivi comprese le domande risarcitorie proposte dalla società Ca’ Vico, con assorbimento di ogni ulteriore censura.
15. Le spese del presente grado del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in € 15.000,00 (quindicimila/00), oltre agli accessori di legge se dovuti, per ciascuna delle parti appellate.