Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2016-01-29, n. 201600357

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2016-01-29, n. 201600357
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201600357
Data del deposito : 29 gennaio 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 02520/2015 REG.RIC.

N. 00357/2016REG.PROV.COLL.

N. 02520/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2520 del 2015, proposto dalla società Era s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato N P, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, largo Colli Albani, 14

contro

Comune di Roma (Roma Capitale), in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato G P, domiciliato in Roma, Via del Tempio di Giove, n. 21

per la riforma della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione I-quater, n. 2274/2015


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2015 il Cons. Claudio Contessa e udito l’avvocato Perri per l’appellante;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue


FATTO

Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. del Lazio e recante il n. 1561/2010 la Società ERA s.r.l., odierna appellante, ha chiesto l’annullamento della determinazione dirigenziale in data 4 dicembre 2009 con cui è stata disposta la demolizione e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi in ragione delle opere e degli interventi edilizi abusivi, realizzati in Roma, via Appia Nuova, n. 1259 in area destinata a parchi pubblici ed impianti sportivi con vincolo archeologico e paesaggistico.

I lavori contestati hanno avuto ad oggetto, in particolare, il livellamento dell’area posta a una quota maggiore rispetto alla strada poderale con un incremento della quota del terreno sino a 1, 30 metri circa, con ulteriore livellamento di altra porzione del terreno con materiale inerte (pietrisco di lava).

Con il ricorso di primo grado la società ERA s.r.l. ha riferito che il terreno anzidetto risulta essere stato occupato in passato dai cantieri aperti per la realizzazione di opere di ampliamento stradale e di essere stato acquistato dall’attuale proprietà (odierna appellante) solo nell’anno 2001.

Ha precisato al riguardo che nel 1999 tale terreno è stato destinato a “zona di cantieri” con la realizzazione di un piazzale destinato anche al passaggio di automezzi finalizzati alla movimentazione di materiale inerte e che nessun intervento edilizio odiernamente sanzionato è stato realizzato dall’attuale proprietaria dell’area la quale si è limitata esclusivamente ad interventi di pulitura della stessa.

Con la sentenza in epigrafe il T.A.R. del Lazio ha respinto il ricorso ritenendolo infondato.

La sentenza in questione è stata impugnata in appello dalla società ERA s.r.l. la quale ne ha chiesto la riforma articolando plurimi motivi.

Con il primo motivo l’appellante chiede la riforma della sentenza in epigrafe per non avere i primi Giudici rilevato i difetti di istruttoria e l’errata e/o omessa valutazione della documentazione presentata: circostanze – queste – che avrebbero comportato una non adeguata ponderazione del complesso delle circostanze rilevanti ai fini del decidere.

In particolare, nel corso dell’istruttoria gli Organi del Comune avrebbero mancato di rilevare che i contestati interventi di livellamento del terreno non erano stati realizzati dall’odierna appellante, bensì dalla società Condotte d’Acqua nel corso dei lavori finalizzati alla realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma.

Ed ancora, il provvedimento dirigenziale del 4 dicembre 2009, impugnato in primo grado, sarebbe illegittimo:

- in quanto ha ingiunto all’appellante di realizzare interventi di ripristino su un’area (il fg. 982, p.lla 5) appartenente ad altra società e in quanto, in ogni caso, tali interventi rappresenterebbero “ un’opera necessaria ed indispensabile finalizzata a rendere il terreno uniforme con quello interessato dalla grossa tubazione, in ogni caso su un terreno che non è di proprietà dell’appellante ”;

- in quanto il Comune avrebbe anticipato nel corso della fase procedimentale l’adozione di una sanzione pecuniaria, salvo poi irrogare una sanzione ripristinatoria.

- in quanto il Comune avrebbe erroneamente rappresentato che sull’area esistesse un vincolo di carattere archeologico.

Con il secondo motivo la società appellante lamenta che il Comune di Roma (Roma Capitale), con deduzione sostanzialmente confermata dai primi Giudici, avrebbe omesso di considerare che la stesura di materiale inerte (pietrisco di lava) fosse finalizzata al ripristino dello stato dei luoghi, nonché ad eliminare pozzanghere ed avvallamenti creatisi in seguito alla conclusione dei lavori per l’ampliamento del G.R.A. di Roma.

Si trattava, comunque, di lavori qualificabili come di ‘ordinaria manutenzione’ ai sensi dell’articolo 6 del d.P.R. 380 del 2001, avendo ad oggetto, in particolare, interventi su impianti di scarico.

Ed ancora, il Comune appellato avrebbe erroneamente interpretato ed applicato l’articolo 33 del d.P.R. 380 del 2001 (in tema di ‘ Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità ’), avendo per un verso affermato che le opere per cui è causa fossero assentibili con D.I.A. (nel caso di specie comunque mancante) e, per altro verso, avendo ritenuto comunque di perseguire l’intervento ai sensi del richiamato articolo 33, il quale riguarda le diverse ipotesi di interventi assoggettati a permesso di costruire.

E l’errore commesso sul punto dal Comune sarebbe di grande rilievo:

- in quanto per il caso di opere assentibili con D.I.A. è prevista la sola sanzione pecuniaria, a fronte della più grave sanzione ripristinatoria prevista per le opere assoggettate al regime del permesso di costruire;

- in quanto, per il caso di interventi realizzati su aree sottoposte a vincolo, l’articolo 33, comma 3 del d.P.R. 380 del 2001 prevede l’obbligo di rimessione in pristino “ a cura e spese del responsabile dell’abuso ” (che nel caso in esame coincide con un soggetto diverso dalla società appellante).

Con il terzo motivo la società appellante lamenta che il Comune di Roma (Roma Capitale), con deduzione sostanzialmente confermata dai primi Giudici, abbia omesso di considerare che la parte di provvedimento relativa agli abusi commessi sull’area contraddistinta dal foglio 982, p.lla 5 è nella titolarità di altra società (la Elettra Sport s.r.l.), ragione per cui sotto tale aspetto sussisterebbe la carenza di legittimazione passiva in capo all’odierna appellante.

Con il quarto motivo la società appellante lamenta che il Comune di Roma (Roma Capitale), con deduzione anche in questo caso sostanzialmente confermata dai primi Giudici, avrebbe ordinato la misura ripristinatoria senza tenere in adeguata considerazione il fatto che l’area per cui è causa è adibita a parco pubblico con impianti sportivi, ragione per cui “ doveva essere irrogata solo la sanzione pecuniaria, anche alla luce del’onerosità dell’intervento e dell’effettiva utilità ” (pagina 12 del ricorso in appello).

Con il quinto motivo, infine, la società appellante lamenta che i primi Giudici avrebbero erroneamente omesso di rilevare ed apprezzare il grave difetto di motivazione che vizia il provvedimento impugnato in primo grado, il quale non da’ adeguatamente conto delle circostanze in fatto e in diritto sottese all’impartito ordine di demolizione.

Ed ancora, il T.A.R. avrebbe omesso di riconoscere il giusto rilievo al lungo tempo trascorso fra la data di commissione del presunto abuso e l’adozione del provvedimento repressivo impugnato in primo grado.

Da ultimo (ma con notazione di non minore importanza) i primi Giudici avrebbero omesso di considerare che, in base a un consolidato orientamento, l’estinzione per prescrizione del reato di costruzione abusiva non consente l’emissione dell’ordine di demolizione di cui all’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001.

Si è costituito in giudizio il Comune di Roma (Roma Capitale) il quale ha concluso nel senso della reiezione dell’appello.

Con ordinanza n. 2061/2015 (resa all’esito della camera di consiglio del 12 maggio 2015) questo Consiglio di Stato ha accolto l’istanza di sospensione cautelare degli effetti della sentenza in epigrafe, ritenendo preferibile “ aderire alla soluzione che consenta di pervenire alla decisione di merito senza procedere a modificazioni dello stato dei luoghi ”.

Alla pubblica udienza del 15 dicembre 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dalla società proprietaria una società proprietaria di un compendio immobiliare sulla Via Appia Nuova di Roma avverso la sentenza del T.A.R. del Lazio con cui è stato respinto il ricorso avverso la determina dirigenziale che ha disposto la rimessione in pristino dell’area medesima (interessata, in particolare, da interventi di modifica delle quote di altezza del terreno)

2. L’appello è infondato.

3. Il Collegio ritiene di esaminare in via prioritaria il terzo motivo di appello con cui la società appellante lamenta che il Comune di Roma (Roma Capitale) -e in seguito i primi Giudici- abbia omesso di considerare che la parte di provvedimento relativa agli abusi commessi sull’area contraddistinta dal foglio 982, p.lla 5 è nella titolarità di altra società (la Elettra Sport s.r.l.), ragione per cui sotto tale aspetto sussisterebbe la carenza di legittimazione passiva in capo all’odierna appellante (sull’area in questione sarebbero stati realizzati gli interventi di cui al punto 2) dell’ordinanza impugnata in primo grado, consistenti nel livellamento dell’area con materiale inerte – pietrisco di lava).

3.1. Il motivo in questione, quand’anche confermato in punto di fatto, non comporterebbe di certo la caducazione del provvedimento comunale di ripristino impugnato in primo grado, ma piuttosto la sua non opponibilità in parte qua alla società appellante ( scil .: in relazione alla porzione di area di cui essa non è titolare).

Si tratta di un generale corollario del principio di conservazione degli atti (trasfuso nel brocardo “ utile per inutile non vitiatur ”) che rinviene un contraltare sistematico nelle previsioni civilistiche in tema di invalidità parziale dei contratti e degli atti unilaterali di cui all’articolo 1419 cod. civ.

4. Nel merito l’appello è infondato dovendosi certamente confermare le analoghe conclusioni cui è pervenuto il T.A.R. del Lazio, secondo cui i contestati interventi di reinterro con materiale di risulta (con conseguente rilevante alterazione del piano di campagna e delle stesse caratteristiche geomorfologiche del sito) non fossero ascrivibili alla nozione di ‘manutenzione ordinaria’, la quale si attaglia ad interventi di portata certamente inferiore e comunque risolventisi in mere opere di sistemazione del sito.

La stessa società appellante riferisce che gli interventi all’origine dei fatti di causa erano verosimilmente risalenti al periodo in cui erano state realizzate le opere per la realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma e che essi fossero funzionali alla realizzazione di un’ampia area di manovra per la movimentazione di mezzi pesanti (la quale aveva richiesto la realizzazione di ingenti opere di sbancamento e di livellamento del terreno).

4.1. Ora, rinviando al prosieguo la questione relativa al se l’appellante possa invocare quale circostanza esimente l’originaria addebitabilità dell’abuso a terzi soggetti, ciò che qui rileva è che gli interventi in questione non possono certamente essere ascritti alla nozione di ‘manutenzione ordinaria’, essendosi invece risolti in una rilevante e stabile alterazione dello stato dei luoghi, con significativa modificazione degli stessi, sino a determinare una notevole sopraelevazione rispetto alla preesistente strada poderale.

4.2. Né a conclusioni diverse può giungersi in relazione alla circostanza per cui uno degli uffici comunali (invero numerosi) che hanno redatto note in ordine alla vicenda per cui è causa abbia, con una nota informativa in data 24 aprile 2008, affermato che l’intervento in questione fosse assentibile con semplice D.I.A..

Si osserva al riguardo:

- che l’affermazione in questione risulta semplicemente infondata dal punto di vista tecnico-giuridico, atteso che tutte le risultanze in atti depongono nel diverso senso per cui gli interventi in questione comportassero una stabile modificazione delle aree e restassero quindi assoggettate al regime del permesso di costruire;

- che la medesima affermazione risulta altresì contraddittoria in quanto l’estensore della nota in parola, dopo aver richiamato (lo si ripete, in modo non corretto) il regime abilitativo della D.I.A., richiama altresì – e in modo non pertinente – l’articolo 33 del d.P.R. 380 del 2001 (il quale disciplina la diversa ipotesi di interventi di ristrutturazione edilizia realizzati in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da esso);

- che, in ogni caso, il contenuto della richiamata nota in data 24 aprile 2008 non ha sortito un effetto sostanziale sugli esiti della vicenda (sì da potersi invocare un difetto di istruttoria i cui effetti si sarebbero effettivamente tradotti in modo viziante sul provvedimento conclusivo). Ed infatti, la congruenza del complessivo operato dell’amministrazione va scrutinata in primis in relazione ai rapporti fra la comunicazione di avvio del procedimento in data 27 maggio 2008 e il provvedimento finale in data 4 dicembre 2009. Ebbene, impostati in questo modo i termini della questione, emerge l’assenza dei lamentati profili di incongruità atteso che la comunicazione di avvio, dopo aver correttamente descritto gli interventi abusivi, aveva anticipato l’adozione dei conseguenti “ atti repressivi secondo normativa ”.

4.3. Osserva ancora il Collegio che, una volta confermata l’abusività dell’intervento e la correttezza dell’ordine di rimessione in pristino, non possono essere condivise le deduzioni della società appellante la quale sottolinea la propria estraneità alla condotta generatrice dell’abuso stesso, ascrivendone la realizzazione all’operato della società Condotte d’Acqua (la quale aveva realizzato in quell’area lavorazioni connesse alla realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma).

Al riguardo il Collegio osserva in primis che la circostanza per cui l’abuso sia stato in concreto realizzato da un diverso soggetto (oltretutto diverso anche dal precedente proprietario: un soggetto che, nella tesi dell’appellante, sarebbe identificabile nell’esecutore di alcune lavorazioni interessanti l’area nel suo complesso) risulta insistentemente affermata dalla società appellante, ma in assenza di un qualunque effettivo riscontro probatorio.

Si osserva al riguardo che, al fine di conseguire gli effetti sostanzialmente esimenti ai quali mira la società appellante, sarebbe gravato su quest’ultima l’onere di allegare puntuali e univoci elementi atti a dimostrare in modo del tutto plausibile l’estraneità alla condotta realizzativa degli abusi per cui è causa.

Al contrario, l’appellante si è qui limitata a ribadire (in modo tanto insistito quanto privo di puntuali elementi a riscontro) che la condotta fosse semplicemente da attribuire ad altro soggetto.

4.4. Ma anche a voler tacere della valenza in sé dirimente che le osservazioni appena svolte sortiscono ai fini della definizione della controversia, vi è un ulteriore elemento che induce a respingere in parte qua le tesi dell’appellante.

Ci si riferisce al consolidato – e qui condiviso – orientamento secondo cui in materia di abusi commessi da persona diversa dal proprietario, costituisce principio consolidato che la posizione del proprietario possa ritenersi neutra rispetto alle sanzioni (previste dal d.P.R. n. 380 del 2001), quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell'opera abusiva o che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (sul punto,da ultimo: Cons. Stato, VI, 4 maggio 2015, n. 2211).

Ebbene, anche a voler ammettere (il che, come si è detto, è tutt’altro che pacifico) che l’appellante fosse estranea all’originaria condotta realizzativa dell’abuso, il punto è che la stessa:

- non solo disponeva, sin dal momento dell’acquisto del compendio, di tutti gli strumenti per conoscere del perpetrato abuso (ed è pacifico in atti che ne fosse a conoscenza, anche perché essa si è peritata in più occasioni di spiegarne la presunta genesi)

- ma non ha in alcun modo agito al fine di distinguere la propria posizione da colui che avrebbe commesso l’abuso, impegnandosi piuttosto in ogni sede (procedimentale prima e processuale poi) per negare la stessa sussistenza dell’abuso.

Anche per questa ragione l’appello in epigrafe deve essere respinto.

5. Neppure può trovare accoglimento il motivo di ricorso con cui si è osservato che l’amministrazione avrebbe erroneamente ritenuto che l’immobile in questione fosse assoggettato a vincolo archeologico, in tal modo ritenendo (e in modo parimenti erroneo) che fosse applicabile la più rigida disciplina di cui .all’articolo 33, comma 3 del d.P.R. 380 del 2001.

5.1. Al riguardo il Collegio si limita ad osservare che l’affermazione secondo cui l’area fosse soggetta a vincolo (a prescindere dalla sua esattezza) rappresenta – per così dire – una circostanza ‘neutra’ ai fini della disposta rimessione in pristino, la quale avrebbe pur sempre rappresentato la prima ed immediata conseguenza del realizzato abuso, indipendentemente dalla sussistenza del vincolo in questione.

In definitiva, quand’anche non fosse esatto il presupposto della sussistenza di un vincolo archeologico sull’area (il che è tutt’altro che pacifico), ciò non determinerebbe comunque alcun effetto concreto in punto di legittimità del disposto ordine di rimessione in pristino.

Del resto, dall’esame del provvedimento in data 4 dicembre 2009 impugnato in primo grado emerge che la sussistenza di un vincolo archeologico sull’area sia stata semplicemente rappresentata nelle premesse della determinazione dirigenziale, ma nella parte motiva e dispositiva del provvedimento la circostanza in parola non viene in alcun modo ripresa.

6. Ancora, non può trovare accoglimento il quarto motivo di ricorso, con il quale si è lamentata la mancata considerazione del fatto che la disposta rimessione in pristino rappresentasse una scelta incongrua ed immotivata in ragione della destinazione dell’area a ‘Parco pubblico’ e ad ‘Impianti sportivi’.

Il motivo in questione non può in alcun modo trovare accoglimento in base all’assorbente rilievo per cui l’appellante non ha allegato alcun elemento atto a ritenere che la permanenza in loco dei realizzati interventi di livellamento e sopraelevazione fosse funzionale a una più adeguata fruizione del parco pubblico e degli impianti sportivi che caratterizzano l’area.

7. Si osserva, poi, che non può in alcun modo essere condiviso l’argomento secondo cui l’illegittimità del disposto ordine di rimessione in pristino emergerebbe ex se in ragione del rilevante lasso di tempo trascorso fra la realizzazione dell’abuso e l’adozione del provvedimento impugnato in primo grado.

7.1. In primo luogo va rilevato sul punto che l’appellante non ha allegato alcun elemento concreto atto a collocare in modo puntuale nel tempo il realizzato abuso (che, nell’indimostrata tesi dell’appellante, risalirebbe al periodo 1999-2000). Già sotto tale aspetto viene meno un presupposto fattuale determinante al fine di affermare che l’ordine di rimozione degli effetti dell’abuso fosse stato impartito dopo un tempo eccessivamente lungo rispetto al momento della realizzazione dell’abuso medesimo.

7.2. Ma anche a voler tacere del carattere dirimente ai fini del decidere di quanto appena osservato, la tesi dell’appellante risulta comunque in contrasto con i consolidati orientamenti giurisprudenziali relativi al tempus della legittima adozione dei provvedimenti repressivi di abusi edilizi.

E’ stato condivisibilmente affermato al riguardo che l’illecito edilizio ha carattere permanente;
esso si protrae e conserva nel tempo la sua natura, ragione per cui l'interesse pubblico alla repressione dell'abuso è in re ipsa . L’interesse del privato al mantenimento dell'opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico edilizia e al corretto governo del territorio (Cons. Stato, VI, 2 febbraio 2015, n. 474).

E’ stato altresì affermato che la repressione degli abusi edilizi costituisce espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire (e in modo del tutto legittimo) in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell’abuso. Non sussiste quindi alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato contra legem (in tal senso: Cons. Stato, VI, 5 gennaio 2015, n. 13).

7.3. Anche sotto tali profili l’appello è infondato.

8. Per la ragioni sin qui esposte l’appello in epigrafe deve essere respinto.

Il Collegio ritiene che sussistano giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese fra le parti

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