Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-09-01, n. 202106158

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-09-01, n. 202106158
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202106158
Data del deposito : 1 settembre 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 01/09/2021

N. 06158/2021REG.PROV.COLL.

N. 04774/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4774 del 2013, proposto dal sig. P G, rappresentato e difeso dagli avv.ti E G e S G ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via di Monte Fiore n. 22;

contro

Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
Comune di Alleghe, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima) del 12 dicembre 2012, n. 1549, resa tra le parti


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Veneto;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 marzo 2021, tenuta ai sensi dell’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con legge 24 aprile 2020, n. 27, richiamato dall’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con legge 18 dicembre 2020, n. 176, il Cons. Francesco Guarracino e udito l’avv. E G per la parte appellante;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il sig. Gaetano Pozzato ha appellato la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (sezione prima) del 12 dicembre 2012, n. 1549, con la quale il primo giudice ha respinto il ricorso proposto dall’odierno appellante avverso la deliberazione del Consiglio comunale di Alleghe dell’8 gennaio 1999, n. 2, e quella della Giunta regionale del Veneto del 21 luglio 2000, n. 2369, di adozione e, rispettivamente, di approvazione, con modifiche di ufficio, della variante generale al piano regolatore generale del Comune di Alleghe, lamentando che il Comune, in sede di adozione, e la Regione, in sede di approvazione, avevano riclassificato l’area di sua proprietà, già ricompresa in zona C/3 turistico-alberghiera, in parte come zona agricola E/3.1 e in parte come zona a verde privato paesaggistico e chiedendo, con l’annullamento degli atti impugnati, la condanna delle amministrazioni intimate al risarcimento del danno.

La Regione Veneto ha resistito all’appello.

Le parti hanno prodotto memorie difensive e alla pubblica udienza del 16 marzo 2021 la causa è stata discussa e quindi trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. - Il T.A.R. ha giudicato inammissibile, per difetto di interesse, la censura con cui il ricorrente aveva sostenuto che le modificazioni alla variante introdotte d’ufficio dalla Regione in sede di approvazione (la prescrizione di una fascia di rispetto inedificabile a margine della zona residenziale C1/2, in corrispondenza di “una scarpata morfologica e di erosione”, e la riclassificazione come E/3.1, per ragioni ambientali e paesaggistiche, di una zona che il Comune aveva previsto edificabile mediante P.E.E.P.) sarebbero state viziate perché esorbitanti dalle previsioni tassative di cui all’art. 45 della legge regionale veneta del 27 giugno 1985, n. 61.

Ha osservato, infatti, che risultava documentata, oltre che pacificamente ammessa dallo stesso ricorrente, la circostanza che l’area di proprietà di quest’ultimo non solo non era interessata dalle predette modifiche, ma nemmeno adiacente, soggiungendo che il ricorrente non aveva dimostrato, e neppure dedotto, in che modo le contestate scelte pianificatorie potessero aver inciso sul godimento e/o sul valore della sua proprietà;
ha aggiunto che un eventuale annullamento delle censurate modifiche avrebbe comportato l’annullamento non già dell’intero strumento urbanistico, ma unicamente delle parti a cui si riferivano e rispetto alle quali egli era estraneo, sicché il ricorrente non ne avrebbe tratto vantaggio alcuno, rimanendo immutata la disciplina urbanistica della sua area.

1.1 - Con il primo motivo di appello, l’appellante censura questo primo capo di sentenza invocando in senso contrario la giurisprudenza secondo cui anche in materia di piani urbanistici non è escluso che i cittadini residenti nel Comune interessato possano impugnare anche parti del piano non riguardanti direttamente le loro proprietà, laddove dimostrino che le scelte pianificatorie incidono sul godimento e sul valore di esse.

Nel caso di specie, il suo interesse a far valere censure relative alle scelte pianificatore relative a plaghe esterne all’area di sua proprietà starebbe nel fatto che la trasformazione in senso agricolo di molti dei terreni contermini, un tempo suscettibili di valorizzazione costruttiva ed ora inedificabili, avrebbe aggravato il deprezzamento del suo fondo, posto che proprio attraverso l’urbanizzazione che sarebbe conseguita allo sfruttamento delle limitrofe aree stralciate doveva darsi luogo ad una infrastrutturazione della plaga della quale avrebbe beneficiato anche la sua proprietà fondiaria.

1.2 - Il motivo è infondato.

L’assunto di fondo secondo cui, qualora fosse stata conservata la destinazione edificatoria dei fondi contermini, anche la proprietà fondiaria dell’appellante, pur mantenendo destinazione agricola, avrebbe tratto beneficio dalla diversa “infrastrutturazione” della zona, soffrendo, perciò, specularmente un pregiudizio dalle contestate scelte pianificatorie riguardanti quei terreni, si riferisce a un effetto meramente riflesso di queste scelte e non è accompagnato, come è eccepito dalla difesa regionale, da dimostrazione adeguata, anzi da dimostrazione alcuna, del modo in cui si sarebbe sostanziata la lamentata compromissione, descritta in termini assiomatici e non comprovata in termini concreti e attuali.

Se è vero che la giurisprudenza riconosce la possibilità di proporre impugnativa ove la nuova destinazione di zona, pur concernendo un’area non appartenente al ricorrente, incida direttamente su interessi propri e specifici dello stesso, è vero anche che all’uopo è necessaria l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente (C.d.S., sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5674;
sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2403;
più di recente, sez. I, 3 marzo 2021, n. 317).

Conseguentemente, è stato precisato che « qualora … un soggetto sia proprietario di un immobile sito non nella zona oggetto della variante, ma in un’altra meramente limitrofa, può ammettersi l’ammissibilità della sua azione avverso la variante riferita all’area limitrofa solo qualora l’atto di pianificazione introduca delle previsioni che siano tali da ledere in modo concreto, specifico ed attuale la sfera giuridica del ricorrente » (C.d.S., sez. I, 9 giugno 2020, n. 1102);
e ciò alla luce dei condivisibili chiarimenti offerti da questo Consiglio sulle condizioni in presenza delle quali è possibile affermare la sussistenza della legittimazione e dell’interesse a impugnare gli atti generali di pianificazione urbanistica (C.d.S., sez. IV, 10 febbraio 2020, n. 1011: « l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico … In quest’ultima ipotesi … l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5674) … Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione »).

2. - Nel merito, il T.A.R. ha respinto le censure mosse alla modifica d’ufficio dell’art. 61.11 delle N.T.A., di cui la Regione aveva stralciato il secondo comma che disciplinava l’edificazione delle abitazioni rurali, ravvisandovi la legittima finalità di conformare l’art. 61.11 delle N.T.A. a quanto previsto dall’art. 3 della legge regionale veneta 5 marzo 1985, n. 24, nel senso di implicitamente consentire – finché il Comune non avesse individuato puntualmente, in un successivo atto, secondo le prescrizioni dell’art. 3 cit., il diverso indice di edificabilità per le singole sottozone tenendo conto dei parametri ivi dettati - l’edificabilità degli edifici abitativi nelle zone E/3 con le modalità e nei limiti delle prescrizioni contenute nello stesso articolo della legge regionale citata.

2.1 - L’appellante critica la sentenza di primo grado sostenendo che la Regione avrebbe proceduto allo stralcio per mere ragioni di opportunità, sulla base di un diverso apprezzamento discrezionale, in violazione degli artt. 45 e 46 della l.r. n. 61/1985, che nel fissare i limiti dell’intervento regionale in sede di approvazione degli strumenti urbanistici non avrebbero dato spazio all’istituto dell’approvazione con stralcio.

2.2 - Il motivo è infondato.

All’epoca, l’art. 45 della l.r. veneta 27 giugno 1985, n. 61, prevedeva che l’approvazione del piano regolatore avvenisse introducendo d’ufficio le modifiche necessarie, tra l’altro, per “ 6) l’osservanza di prescrizioni e i vincoli stabiliti da leggi e regolamenti ”.

Ora, l’art. 3 (Criteri per l’edificazione in zona agricola) della l.r. veneta 5 marzo 1985, n. 24, già subordinava l’edificazione di case di abitazione nelle zone agricole a una serie di condizioni, tra queste prescrivendo, al punto 3 del primo comma, che il fondo rustico possedesse una superficie minima, con correlativo indice di densità edilizia, differenziata in rapporto alla qualità delle singole colture (60 ha per i terreni a bosco ceduo, canneto e pascolo cespugliato, 30 ha con la cubatura massima di 20 mc/ha per i terreni a castagneto da frutto e pioppeto specializzato, etc.)

Per il successivo comma 6 del medesimo articolo, “le aree ricadenti in zona agricola con qualità di coltura non prevista nel precedente punto 3) sono inedificabili, salvo per quanto riguarda le opere previste al quarto comma” (vale a dire, gli impianti tecnologici di uso o interesse collettivo, i rifugi alpini aperti al pubblico, le malghe, nonché le abitazioni funzionali alla loro conduzione).

Da qui la necessità di garantire l’osservanza di questi limiti e di queste condizioni nel piano approvando, anche mediante le necessarie modifiche di ufficio in sede di approvazione in sede sovracomunale.

Pertanto la sentenza appellata risulta immune dalle critiche che le sono state rivolte col motivo in esame.

3. - Va respinto il motivo di appello sul capo della sentenza di primo grado col quale è stata rigettata la censura per cui le modifiche regionali sarebbero state di tale entità da richiedere che il piano fosse ripubblicato.

Secondo il T.A.R., “ Attesa la coerenza delle modifiche introdotte d’ufficio dalla Regione con la filosofia - il perseguimento della tutela dei valori ambientali e paesaggistici - che ha ispirato il Comune nell’adottare la variante (cfr. la relazione comunale alla variante, nonché il parere 19.4.2000 n. 163 della CTR), nessun onere di ripubblicazione della variante potevano comportare le predette modifiche: premesso, invero, che la giurisprudenza è costante nel ritenere necessaria la ripubblicazione del piano allorché, in un qualunque momento della procedura che porta alla sua approvazione (ed in particolare quando ciò avvenga a seguito dell’accoglimento delle osservazioni presentate), vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso, e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che hanno presieduto alla sua impostazione (cfr. TAR Veneto, 26.4.2011 n. 693), nel caso di specie nessuna modifica sostanziale è stata introdotta nella variante in itinere che abbia inciso sulle sue caratteristiche essenziali ”.

L’appellante contesta questa conclusione sostenendo, per un verso, che essa sarebbe condizionata dalla valutazione di inammissibilità delle censure, di cui sopra si è detto, concernenti le modifiche del piano regolatore su aree diverse dalla sua proprietà e, per altro verso, che, anche limitando l’attenzione alla proprietà sub judice , l’approvazione regionale avrebbe trasmutato le stesse caratteristiche della pianificazione agricola con variazioni di portata così grave e pesante che non potevano che comportare una necessaria e rinnovata interlocuzione partecipativa con la comunità locale.

Sul primo punto, in senso contrario, è tuttavia sufficiente osservare che l’inammissibilità di quelle censure ha già trovato conferma nelle considerazioni sopra svolte al punto 1.2.

Quanto al secondo punto, l’assunto dell’appellante è apoditticamente svolto prescindendo dagli argomenti illustrati dal T.A.R. nella motivazione sopra richiamata e senza esporre le concrete ragioni per cui le modifiche apportate alla variante sarebbero state essenziali e avrebbero stravolto i criteri che hanno presieduto alla sua impostazione, nonostante che, come obiettato dalla difesa di controparte, l’intervento regionale non aveva precluso la possibilità di costruire abitazioni rurali nelle zone agricole.

4. - Il T.A.R. ha reputato, altresì, priva di fondamento la censura sul preteso carattere sostanzialmente espropriativo del vincolo a verde paesaggistico privato imposto, in sovrapposizione alla classificazione in zona agricola E/3, sulla proprietà del ricorrente.

Giova alla chiarezza riportare per esteso la motivazione del rigetto:

Quanto all’asserita illegittimità della delibera comunale di adozione del piano sia per aver l’Amministrazione asseritamente sottoposto l’intera zona E/3.1 (in verità, nella memoria 7.11.2012, pag. 5 si afferma, in contraddizione con quanto precisato in ricorso, pag. 10 che la sottoposizione non sarebbe totale) a vincolo di verde privato paesaggistico, impedendo così, di fatto, lo sfruttamento edificatorio a fini abitativi della famiglia rurale, sia perché il predetto vincolo, di carattere espropriativo, sarebbe privo della previsione di un indennizzo e dell’indicazione della durata, va osservato, preliminarmente, che l’area di proprietà del ricorrente risulta classificata in parte come zona agricola, e in parte come zona a verde privato paesaggistico, senza alcuna sovrapposizione. O, relativamente all’edificabilità della zona agricola già s’è detto sopra: relativamente al verde privato, invece, deve evidenziarsi che esso non ha valenza espropriativa, rientrando nell’ambito della normale conformazione della proprietà privata, espressione del potere di pianificazione e di salvaguardia dei valori urbanistici esistenti. La giurisprudenza ha infatti precisato che si è al cospetto di vincoli conformativi allorché le prescrizioni mirino ad una zonizzazione dell’intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione assolta dalla intera zona in cui questi ricadono e delle sue caratteristiche intrinseche (cfr., per tutte, CdS, IV, 9.6.2008 n. 2837).

Conseguentemente, non essendo un vincolo preordinato all’esproprio, esso non va subordinato ad un indennizzo o ad un limite di durata. Tali destinazioni, infatti non introducono l’inedificabilità assoluta dell’area, né, tanto meno, svuotano di contenuto - azzerandolo economicamente in termini di valore di scambio - il diritto dominicale.

Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione solo quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dalla amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula convenzioni: in tali circostanze, la completezza della motivazione costituisce infatti lo strumento dal quale deve emergere la avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa tutelata (CdS, IV, 14.5.2007 n.2411).

O, nella specie non si configura alcuna legittima aspettativa in capo alla parte ricorrente atteso che rispetto alle previsioni e del piano regolatore previgente e della variante oggetto della presente impugnativa non è ravvisabile altro che una generica aspettativa ad una reformatio in melius, non meritevole di particolare tutela, né idonea a configurare obblighi di puntuale motivazione.

Va infine sottolineato che qualora nelle scelte di pianificazione – che inevitabilmente valorizzano alcune aree mortificando le prospettive di utilizzazione e il valore di scambio di altre – non siano ravvisabili contrasti con l’impostazione tecnico-urbanistica dello strumento urbanistico o non si evidenzi la contrarietà ai principi della logica, è da escludere che possano ritenersi inficiate le opzioni urbanistiche privilegiate dall’Amministrazione (TAR Veneto, I, 18.4.2011 n. 639) ”.

4.1 - L’appellante non contesta direttamente l’affermazione del T.A.R. per cui il vincolo a verde privato paesaggistico non avrebbe natura espropriativa, sostenendo, piuttosto, che la previsione sarebbe affetta da irrazionalità e ingiustizia manifesta, avendo “ibernato” l’uso del terreno.

Ciò in quanto l’art. 53 delle N.T.A. consentirebbe solo il mantenimento delle colture orticole e agricole in atto, tanto che persino la variazione della tipologia di prodotto orticolo sarebbe possibile soltanto in caso di stretto bisogno e previa autorizzazione, con una limitazione delle colture praticabili che, per l’indirizzo giurisprudenziale invocato dall’appellante (T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 21 marzo 2005, n. 178), non sarebbe consentito introdurre al di fuori di specifiche previsioni di legge.

Inoltre, prosegue l’appellante, non sarebbe vero che non nutrisse alcuna legittima aspettativa a una diversa destinazione urbanistica, avendo, al contrario, per lunghi anni tentato, invano, di edificare una struttura ricettiva in loco che era stata persino giudicata favorevolmente nel 1990 (con parere del 5 marzo 1990, agli atti).

4.2 - Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

4.2.1 - Nella sua prima parte introduce formalmente una censura nuova, la quale non concerne la destinazione a verde paesaggistico (sulla quale nessuna osservazione critica è stata mossa alle motivazioni del primo giudice, a parte quella sulla tutela dell’affidamento di cui si tratterà appresso), ma la specifica disciplina sugli usi colturali del territorio dettata nell’art. 53 delle N.T.A.

La questione dell’eventuale novità della censura riferita ai vincoli colturali imposti dall’atto impugnato è stata sottoposta d’ufficio alle parti, ai sensi dell’art. 73, comma 3 c.p.a., in udienza pubblica.

In quella sede la difesa dell’appellante ha richiamato il contenuto della censura a pagina 12 del ricorso di primo grado, asserendo di averne successivamente sviluppato in memoria il contenuto.

Ora, nel ricorso di primo grado la deliberazione comunale di adozione della variante era stata censurata, a parte che per l’asserita illegittima formazione della volontà amministrativa (pag. 14 s.), per aver impedito lo sfruttamento edificatorio del fondo del ricorrente (cfr., in modo chiaro ed espresso, l’introduzione ai due motivi di ricorso in argomento, pag. 10), muovendo a essa, a mezzo dei motivi di impugnazione ivi esposti, rispettivamente, alle pagine 10-12 e alle pagine 12-14, un duplice rilievo, l’uno attinente al fatto di aver illegittimamente compresso ogni facoltà edificatoria per un’area che, in quanto classificata E.3, per la legge regionale sarebbe stata utilizzabile anche per scopi residenziali, l’altro basato sulla violazione dei vincoli convenzionali connessa all’imposizione, senza indennizzo, di prescrizioni inibenti, sine die , qualsiasi ulteriore utilizzazione del suolo a fini edilizi.

In particolare, il motivo di impugnazione proposto alle pagine 10-12 del ricorso di primo grado (“ Violazione di legge in relazione all’art. 11 L.R. 5 marzo 1985, n. 24 e agli artt. 9, 24, 31 L. R. 27 giugno 1985, n. 61. Violazione dei principi generali in materia di pianificazione delle zone rurali (art. 1 L.R. n. 24/85). Eccesso di potere per difetto di motivazione e travisamento. Irrazionalità manifesta ”) riguardava la violazione del dovere dell’autorità pianificatrice di rispettare in modo assoluto la vocazione obiettiva delle aree, nel senso che, una volta che la proprietà Pozzato era stata inserita tra quelle classificate E.3, che per l’art. 11, comma 1, della l.r. n. 24/1985 sarebbero state utilizzabili al contempo per scopi agricoli-produttivi e per scopi residenziali, sarebbe stato irragionevole, contraddittorio e illogico dettare per essa un regime urbanistico perfettamente rispondente, invece, alle caratteristiche di una sottozona E1, caratterizzata da una produzione agricola tipica o specializzata e in cui non è consentita la costruzione di nuove abitazioni (art. 11 cit.): ragion per cui, in definitiva, la censura riguardava, per adoperare le parole adoperate dello stesso ricorrente nella memoria di replica in primo grado, “ l’illogicità di vedere pianificate zone E3, per le quali si reputa ex lege connaturale l’utilizzo anche residenziale dei fondi, quali sottozone di esclusiva destinazione colturale senza alcuna diversa facoltà costruttiva ”.

Il successivo motivo di impugnazione di cui alle pagine 13-15 (“ Violazione della L. 4 agosto 1955, n. 848 di ratifica della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo e del Cittadino (con particolare riferimento al Protocollo sulla tutela del diritto di proprietà). Mancata previsione della durata del vincolo previsto sull’area del ricorrente e mancata previsione delle modalità di pagamento dell’indennità di ristoro (artt. 41 e 42 Cost.). Violazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte agli oneri pubblici. Falsa applicazione dell’art. 7, n. 5, L. n. 1150/42 e dell’art. 28 L.R. n. 61/85. Eccesso di potere per carenza di istruttoria e di motivazione ”), come detto, concerneva il preteso contenuto sostanzialmente espropriativo del vincolo stabilito sull’area del ricorrente.

Solo nella memoria di replica dell’8 novembre 2012 il ricorrente, a fronte del fatto che l’art. 53 N.T.A. ammetteva il solo mantenimento delle colture orticole ed agricole in atto, deduceva che lo strumento urbanistico non può legittimamente imporre determinati usi colturali del territorio al di fuori di specifiche previsioni di legge, prospettando così un ulteriore profilo di illegittimità della deliberazione consiliare che, costituendo un c.d. motivo intruso, si comprende non sia stato neppure preso in considerazione dal primo giudice.

La formale introduzione in giudizio di quel motivo mediante l’atto notificato di appello costituisce, perciò, violazione del divieto dei motivi nuovi sancito dall’art. 104 c.p.a.

4.2.2 - Quanto alla seconda parte del motivo di appello in esame, è chiaro che l’aspettativa vantata dal ricorrente fosse di mero fatto, poiché fino a quel momento tutti i suoi tentativi di edificare erano risultati, per sua stessa ammissione, del tutto vani.

5. - Infine, il T.A.R. ha respinto la censura per cui la delibera consiliare sarebbe stata viziata dalla mancata astensione di un consigliere interessato alla deliberazione, affermando, in senso a essa contrario, che “ non è sufficiente a far sorgere l’obbligo di astensione posto dall’articolo 290 del RD 4.2.1915 n. 148 e dall’articolo 279 del TU 3.3.1934 n. 383 la semplice allegazione dell’esistenza di interessi confliggenti con l’atto, occorrendo, altresì, la prova, concreta e specifica, che l’atto generale sia stato emanato anche in considerazione di tali personali e particolari interessi: senza sottacere che nel caso di specie pare che il consigliere […]- la cui madre e la famiglia della moglie possedevano beni catalogati C/3, ora divenuti agricoli - ne abbia tratto uno svantaggio, non già un beneficio ”.

5.1 - L’appellante contesta sul punto la sentenza di primo grado sostenendo che l’obbligo di astensione varrebbe, invece, in tutti i casi in cui l’amministratore rivesta una posizione suscettibile di determinare, anche in astratto, un conflitto di interesse, indipendentemente dai vantaggi o dagli svantaggi che in concreto ne possano a lui derivare.

5.2 - Il motivo di appello è infondato.

La deliberazione consiliare impugnata in primo grado risaliva all’8 gennaio 1999, prima che l’art. 19 della legge 3 agosto 1999, n. 265, poi abrogato e sostituito dall’art. 78 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, intervenisse espressamente a sancire l’obbligo degli amministratori degli enti locali di astenersi dal prendere parte alla discussione e alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado facendo tuttavia eccezione per i provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussistesse una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore (o di parenti o affini fino al quarto grado).

All’epoca, la norma applicabile era ancora quella dell’art. 279 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, e già dell’art. 290 del r.d. 4 febbraio 1915, n. 148, che sanciva in generale l’obbligo degli amministratori locali di astenersi dal prendere parte alle deliberazioni pure quando si trattasse di interesse proprio, o d’interesse, liti o contabilità dei loro parenti o affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi.

L’interpretazione che ne ha offerto il T.A.R. trova conforto nell’orientamento giurisprudenziale prevalente, sia di questo Consiglio, sia del giudice penale di legittimità (C.d.S., sez. IV, 11 giugno 1996, n. 795;
C.d.S., sez. IV, 28 ottobre 1986, n. 682;
Cass. pen., sez. VI, 26 ottobre 2004, n. 44620;
Cass. pen., sez. VI, 15 febbraio 2000, n. 11600).

Inoltre, per la giurisprudenza di questo Consiglio (sez. IV, 12 gennaio 2011, n. 133, che richiama sez. V, 12 giugno 2009, n. 3744) quelle situazioni di conflitto di interesse non viziano l’intero piano, ma solo le parti concernenti i suoli interessati dall’obbligo di astensione violato, col corollario che possono essere fatte valere solo da chi si dimostri titolare di uno specifico e qualificato interesse ancorato a situazioni di collegamento con detti suoli.

6. - Per queste ragioni, in conclusione, l’appello deve essere respinto.

7. - Le spese del grado del giudizio possono essere compensate in relazione alla peculiarità della vicenda.

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