Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-01-14, n. 202100448

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-01-14, n. 202100448
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202100448
Data del deposito : 14 gennaio 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 14/01/2021

N. 00448/2021REG.PROV.COLL.

N. 08209/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8209 del 2012, proposto da
M B, L M, R L e C B, rappresentati e difesi dall'avvocato U R, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 308

contro

Provincia di Bologna, in persona del Presidente pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati C B e E G, con domicilio eletto presso lo studio Adriano Giuffre' in Roma, via dei Gracchi, 39

nei confronti

E P, non costituito in giudizio

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna (Sezione Seconda) n. 231/2012


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Bologna;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2020 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (conv. in L. 24 aprile 2020, n. 27), richiamato dall’art. 25 D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 gli avvocati delle parti costituite in appello.


FATTO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26 marzo 2012, n. 231 ha respinto il ricorso, proposto dall’attuale parte appellante, per l’annullamento del regolamento del corpo di Polizia provinciale di Bologna, approvato con delibera consigliare n. 107 in data 1° ottobre 2002, nella parte in cui amplia a tutto il territorio provinciale il divieto di praticare l'attività venatoria art. 8, comma 1, lett. A).

Secondo il TAR, sinteticamente:

- l’art. 29 del regolamento chiaramente si riferisce all’ambito territoriale di competenza dell’ente, per evidenziare che, al di fuori di questo, l’incompetenza dei funzionari e degli organi dell’ente è assoluta, com’è ovvio trattandosi di incompetenza territoriale, e come è implicito nell’uso del termine “attribuzioni”, con la conseguenza che gli agenti possono essere assegnatari ed esercitare le loro funzioni solo in tale ambito;

- pertanto, l’art. 29 non reca alcuno spunto interpretativo dell’art. 27, che invece fa generico riferimento all’ambito territoriale in cui l’agente esercita la sua funzione per individuare la zona di divieto per incompatibilità soggettiva;

- ancorché la norma fosse suscettibile di una interpretazione restrittiva, nel senso cioè di un divieto limitato alla zona di assegnazione del singolo operatore (in tal senso milita, osservano i ricorrenti, il riferimento alle guardie forestali), certamente essa non precluderebbe la imposizione di un divieto più ampio da parte dell’ente locale, che sarebbe comunque legittimo ove rispettoso dei principi di ragionevolezza, in quanto espressione di discrezionalità amministrativa tendente alla migliore organizzazione del servizio di vigilanza venatoria, ed esplicantesi nell’ambito del rapporto di supremazia speciale nei confronti dei dipendenti agenti;

- una incompatibilità per conflitto di interesse è ravvisabile soltanto in ipotesi di cumulo nello stesso operatore, e nella stessa zona di assegnazione, della posizione di controllore e controllato;

- non sembra affatto irragionevole, sulla base di comune esperienza, rinvenire una palese inopportunità, anche di fronte ai terzi, di un esercizio reciproco della vigilanza tra colleghi nelle zone di rispettiva e diversa assegnazione;

- tale inopportunità, evidentemente, giustifica, nelle discrezionali valutazioni della Provincia di Bologna, l’estensione del divieto a tutto l’ambito provinciale, senza esporsi a censure di illogicità;

- quindi, non vi è contrasto con gli art. 27 e 29 della legge statale (n. 157-1992), e perciò non viene in considerazione il principio di gerarchia delle fonti;

- sussiste una giustificazione non illogica alla estensione del divieto, che non abbisogna di esplicita motivazione, essendo previsto in sede regolamentare;

- la disparità di trattamento con altre Province è solo apoditticamente e genericamente affermata, e sarebbe comunque irrilevante essendo coperta dalla autonoma potestà auto organizzativa di ciascun ente locale, a fronte della posizione di subordinazione speciale degli agenti;

- il richiamo generico al Codice di comportamento dei dipendenti (art. 8 del Regolamento) è norma di chiusura che si aggiunge agli specifici divieti (tra cui quello esaminato) di seguito indicati, ed è quindi perfettamente pertinente al contesto normativo considerato;

- la violazione degli art. 3 e 97 della Costituzione è dedotta senza indicazione delle norme primarie censurate.

L’appellante contestava la sentenza del TAR, eccependone l’erroneità e riproponendo, nella sostanza, le censure formulate nel ricorso di primo grado.

Con l’appello in esame chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado.

Si costituiva la Provincia appellata chiedendo la reiezione dell’appello.

All’udienza pubblica del 15 dicembre 2020 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Si deve preliminarmente rilevare che l’Ente appellato si è trasformato da Provincia in Città metropolitana a seguito della L. n. 56-2014, con la quale in Emilia-Romagna è stata data attuazione con L.R. n. 13-2015.

Tuttavia, il Corpo di Polizia continua ad essere incardinato presso la Città metropolitana di Bologna, con mansioni sostanzialmente invariate per quanto attiene la vigilanza in materia faunistico-venatoria ex art. 16, comma 3, e art. 19, comma 7-bis, L.R. n. 8-1994, modificati dalla L.R. n. 1-2016.

2. Sempre in via preliminare, si deve osservare che due degli appellanti hanno cessato il proprio servizio presso la Città metropolitana di Bologna a seguito di pensionamento, come da certificati prodotti dalla medesima in data 4.11.2020: il sig. L M, dal 31 agosto 2015 e il sig. C B dal 30 settembre 2015.

Soltanto gli appellati sigg.ri M B e R L continuano a prestare servizio nel medesimo Corpo di Polizia.

Dal pensionamento dei sig.ri Magnani e Boninsegni non può che discendere una sopravvenuta carenza di interesse all’appello da parte dei medesimi, non operando più per essi da allora alcun divieto e non avendo, pertanto, più interesse ad un’eventuale modifica del Regolamento del Corpo di Polizia nel senso indicato nel ricorso.

Il Regolamento non è, infatti, più produttivo di alcun effetto nei confronti dei medesimi.

Né sussiste, né risulta dimostrato o richiesto, un pregiudizio medio tempore eventualmente subito dai predetti appellanti per non avere potuto esercitare, in virtù della disposizione impugnata, l’attività venatoria uti cives proprio nel territorio ove svolgevano la loro funzione pubblica di vigilanza e controllo.

3. Con il primo motivo di appello si deduce l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto correttamente esercitata la discrezionalità amministrativa nella previsione di limiti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla L. n. 157-1992 alla possibilità di esercitare l’attività venatoria da parte degli appartenenti al Corpo di Polizia Provinciale per violazione degli artt. 27 e 31 della Legge medesima e con riferimento all’art. 1 della L. n. 689-1981.

Il motivo è inammissibile nella parte in cui viene asserita la violazione dell’art. 31 della L. n. 157-1992, con riferimento all’art. 1 della L. n. 689-1981, atteso che nel ricorso di primo grado non è mai stata dedotta tale censura.

Come noto, nel giudizio di appello non sono ammissibili domande nuove, né nuove eccezioni ex art. 104 c.p.a.

In ogni caso, l’eventuale sanzione prevista dall’art. 31 della L. n. 157-1992 non si applicherebbe per violazione di una norma regolamentare, bensì per la violazione di una disposizione di legge, ed in particolare della stessa legge n. 157-1992, come peraltro dalla medesima espressamente previsto.

Pertanto, non vi è alcuna violazione del principio nulla poena sine lege di cui all’art. 1 L. 689-1981.

4. Per il resto, nel merito è condivisibile la tesi del TAR secondo cui il comma 5 dell’art. 27, che vieta agli agenti con compiti di vigilanza l'esercizio venatorio nell'ambito del territorio in cui esercitano le funzioni, in correlazione col successivo art. 29, comma 1 L. n. 157/1992 ai sensi del quale gli agenti dipendenti degli enti locali con funzioni di vigilanza venatoria, esercitano tali attribuzioni “nell'ambito territoriale dell'ente di appartenenza” non comporta affatto la coincidenza del divieto con l’intero ambito territoriale dell’Ente locale di appartenenza, non potendosi affermare che la legge statale imponga di limitare il divieto alla sola specifica sotto zona assegnata a ciascun agente.

L’espressione “nell’ambito del territorio in cui esercitano le funzioni” è un’espressione generica tale da poter essere suscettibile di diverse interpretazioni purché ragionevoli e motivate da indubbie questioni di opportunità.

E’, infatti, legittima l’interpretazione datane dall’Amministrazione provinciale nell’ambito dei poteri discrezionali riconosciuti all’Amministrazione, in funzione regolatoria dell’organizzazione del proprio servizio di vigilanza venatoria da ritenersi ictu oculi non manifestamente irragionevole.

Nel bilanciamento degli opposti interessi, peraltro, risulta davvero minimo il “sacrificio” richiesto ai propri dipendenti, consistente nello sconfinare in altra Provincia per poter cacciare, rispetto ai motivi di opportunità consistenti nell’esigenza di non creare, soprattutto rispetto ai terzi, una confusione di ruoli tra controllore e controllato.

Infatti, all’Ente Locale, nell’ambito della propria autonomia regolamentare, è pur sempre consentito disciplinare in maniera più cautelativa, nell’ottica di tutela dell’ambiente, il proprio territorio, evitando il rischio di “confusione” tra controllante e controllato, che sarebbe in contrasto con i principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.

5. Il secondo motivo di appello è parimenti infondato.

Infatti, a sostegno dell’interpretazione dell’art. 27, comma 5, della predetta legge del 1992, parte appellante prospetta una sentenza della Cassazione civile del 2001 che, tuttavia, riguarda gli appartenenti alla Polizia Municipale i quali, pur esercitando anch’essi compiti di polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 57 c.p.c., non hanno compiti di vigilanza sull’attività venatoria.

Per gli appartenenti alla polizia municipale non si pone, quindi, lo stesso rischio di sovrapposizione tra la funzione di controllore e di controllato riguardo propria alla caccia.

Nel caso degli ex agenti provinciali (ora appartenenti alla polizia locale della Città metropolitana) tale rischio invece si pone, a prescindere dalla ripartizione delle zone di vigilanza assegnate a fini organizzativi a ciascun agente, il quale ben può, nel corso del rapporto di servizio con la stessa Amministrazione, essere assegnato ad altra zona o dover effettuare una sostituzione nella zona di un collega.

6. Infine, è infondato il terzo motivo di appello, poiché le doglianze relative all’eccesso di potere per illogicità e disparità di trattamento appaiono generiche e non dimostrano affatto l’eccesso di potere e la disparità di trattamento ivi dedotte.

Le nuove produzioni documentali allegate all’appello sono inammissibili ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a.

Peraltro, l’eventuale diversa regolamentazione di situazioni analoghe da parte di altri enti di pari livello istituzionale denota semplicemente la molteplicità delle scelte effettuate nell’ambito dei poteri discrezionali di organizzazione dell’Ente e non può rilevare quale ipotesi di disparità di trattamento (ipotesi che, come è evidente, presuppone l’identità del soggetto o dell’organo decidente).

7. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato, dovendosene dichiarare l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse nei confronti degli appellanti sigg. L M e C B.

Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, compensandole invece con gli appellanti sigg. L M e C B, sussistendo giusti motivi.

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