Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2020-12-11, n. 202007951

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2020-12-11, n. 202007951
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202007951
Data del deposito : 11 dicembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 11/12/2020

N. 07951/2020REG.PROV.COLL.

N. 09735/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 9735 del 2015, proposto da
Rinascita del Tranviere Società Cooperativa Edilizia a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato P G, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Lagrange n. 1;

contro

Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato U G, con domicilio eletto presso la sede dell’Avvocatura capitolina in Roma, via del Tempio di Giove n. 21;

nei confronti

Regione Lazio, in persona del Presidente pro tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato Elisa Caprio, elettivamente domiciliata presso la sede dell’Avvocatura regionale in Roma, via Marcantonio Colonna n. 27;
Vitullo Fabrizio, Di Iorio Daniela, D'Avolio Pietro, Sarcone Maria Luisa, Mariucci Catia, Ragaglini Simonetta, De Giovanni Antonella e Rosa Pietro, rappresentati e difesi dall'avvocato Vincenzo Perticaro, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Giuseppe Mazzini n.146;
Bucci Gabriele, Gualandri Claudio, Biasi Ilaria, Gabrieli Patrizia, Moscatelli Mauro e Bucci Alessandro, non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 5875/2015, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale e della Regione Lazio, nonché di Vitullo Fabrizio, Di Iorio Daniela, D'Avolio Pietro, Sarcone Maria Luisa, Mariucci Catia, Ragaglini Simonetta, De Giovanni Antonella e Rosa Pietro;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza Relatore nell'udienza tenuta da remoto, ai sensi dell’art. 25 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 del 12 novembre 2020 il Cons. V P e data la presenza dell'avvocato Caprio;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Risulta dagli atti che il Comune di Roma (oggi Roma Capitale), in virtù di Convenzione del 18 gennaio 2006, stipulata ai sensi dell’art. 35 della l. n. 865 del 1971, concedeva alla Rinascita del Tranviere Società Cooperativa Edilizia a r.l. il diritto di superficie per la durata di anni 99 su un’area edificabile facente parte del comparto C del Piano di Zona “C25 Borghesiana - Pantano”.

Su detta area era prevista, nell’ambito del Piano di Zona, la realizzazione di una cubatura residenziale di mc.14.395 effettivi e di una cubatura non residenziale di mc. 1000.

La concessione del diritto di superficie veniva accordata per la realizzazione di un programma costruttivo di edilizia economica e popolare (52 alloggi), fruente di finanziamento agevolato della Regione Lazio, ex lege n. 179 del 1992, per la costruzione di alloggi da concedere in locazione

permanente.

In particolare, la cooperativa avrebbe ottenuto, per la realizzazione dell’intervento di edilizia agevolata su cui si verte, il finanziamento di euro 1.598.974,77.

Gli alloggi venivano interamente realizzati e concessi in locazione, con canone corrispondente al

4,30% del prezzo di cessione.

Peraltro, con nota prot. n. 83175 del 12 ottobre 2012, l’Ufficio ERP di Roma Capitale comunicava alla Rinascita del Tranviere, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, l’avvio di un procedimento di verifica delle procedure di calcolo del prezzo di cessione e del canone di locazione degli alloggi ERP, palesando che l’attività di verifica si rendeva necessaria per la constatata mancata detrazione del contributo regionale dal prezzo massimo di cessione utilizzato per la determinazione del canone di locazione.

A riscontro di ciò, in data 15 maggio 2013 la Cooperativa trasmetteva all’ufficio procedente una serie di documenti ritenuti pertinenti (in particolare, il piano economico finanziario con i dati dell’intervento, ivi incluso il contributo regionale) ed una nota di osservazioni e diffida.

Con provvedimento prot. n. 35863 del 12 marzo 2014, il Dipartimento programmazione e attuazione urbanistica di Roma Capitale disponeva tuttavia la chiusura del procedimento di autotutela rideterminando il prezzo di cessione ed il conseguente canone di locazione degli alloggi assegnati, rilevando inoltre che, in mancanza delle lettere di richiesta e/o accettazione delle stesse da parte dei soci/affittuari/fruitori finali, non era neppure possibile riconoscere – a al fine – le migliorie afferenti ai singoli alloggi.

Con ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio la Cooperativa Rinascita del Tramviere impugnava l’atto conclusivo del procedimento (salvo per la parte attinente al mancato riconoscimento delle migliorie) deducendo cinque distinti motivi di censura.

Si costituivano in giudizio sia Roma Capitale, sia i sigg.ri Vitullo Fabrizio, Di Iorio Daniela, D'Avolio Pietro, Sarcone Maria Luisa, Mariucci Catia, Ragaglini Simonetta, De Giovanni Antonella, Rosa Pietro, Bucci Gabriele, Gualandri Claudio, Biasi Ilaria, Gabrieli Patrizia, Moscatelli Mauro e Bucci Alessandro, questi ultimi nella dichiarata qualità di affittuari degli alloggi realizzati, chiedendo la reiezione del gravame.

Con sentenza 22 aprile 2015, n. 5875, il giudice adito respingeva il ricorso, sul presupposto che il

Contributo pubblico ottenuto a suo tempo dalla Cooperativa andasse defalcato in sede di computo dei prezzi di cessione;
del resto, parametrando i canoni di locazione al prezzo di cessione degli alloggi definito al lordo del finanziamento regionale, si otterrebbe un’inammissibile duplicazione

del beneficio, il quale in tal modo sarebbe fruito sia all’atto della corresponsione del prezzo della costruzione, sia al momento della riscossione dei canoni.

Avverso tale decisione la Cooperativa Rinascita del Tramviere interponeva appello, deducendo i seguenti motivi di impugnazione:

1) Violazione e falsa applicazione della normativa che disciplina la materia, nonché dei provvedimenti e degli atti di essa attuativi;
in particolare violazione degli artt. 6 e 8 della legge n. 179/1992;
del D.M. LL.PP. del 5.08.1994 (Determinazione dei limiti massimi di costo per gli interventi di edilizia residenziale sovvenzionata ed agevolata) e del D.M. LL.PP. del 5.08.1994 (Criteri e modalità per la definizione del valore dei contributi in materia di edilizia agevolata), della deliberazione della Giunta Regionale del Lazio n. 2036 del 3.10.2000;
della deliberazione della Giunta Regionale del Lazio n. 710 del 4.8.2005;
della Convenzione urbanistica sottoscritta in data 18.01.2006 (atto a rogito del Notaio Ungari Trasatti (rep. 37984/19ó33) e del relativo atto

d'obbligo del 18.01.2006 (atto a rogito del Notaio Ungari Trasatti rep. 379E2/19631);
della

delibera del Consiglio Comunale n. 173 del 25'07.2005. Violazione dell'art. 18 del D.P.R. n.

380/2001. Erroneità, contraddittorietà, illogicità ed insufficienza della motivazione della sentenza appellata. Errore nei presupposti di fatto. Errore su un punto decisivo della controversia .

2) Erroneità della sentenza appellata per violazione, per erronea interpretazione ed applicazione dell’intera disciplina normativa, regolamentare e convenzionale che regola la materia e degli atti di essa attuativi;
in particolare reiterata violazione degli artt.6 e 8 della legge n.179/1992;
del D.M. LL.PP. del 5.08.1994, della deliberazione della Giunta Regionale del Lazio n. 2036 del 3.10.2000;
della deliberazione della Giunta Regionale del Lazio n. 710 del 4.8.2005;
della Convenzione urbanistica sottoscritta in data 18.01.2006 e del relativo atto d’obbligo del 18.01.2006;
della delibera del Consiglio Comunale n, 173 del 25.07.2005. Travisamento degli elementi di fatto. Eccesso di potere per contraddittorietà, travisamento dei fatti, insufficienza ed illogicità della motivazione
.

3) Erroneità detta sentenza appellata per violazione e falsa applicazione degli artt.3 e art. 21 nonies legge n. 241/1990. Violazione dei principi generali di buon andamento, correttezza e buona fede nell'attività della P.A. di cui all'art. 97 Cost, ed all'art, 1 della legge n. 241/1990: violazione del principio della tutela del legittimo affidamento del privato nell'attività amministrativa della Pubblica Amministrazione. Carenza ed illogicità della motivazione della sentenza appellata: eccesso di potere del provvedimento impugnato. Errore e travisamento dei presupposti di fatto. Carenza dell'interesse pubblico all'autotutela. Carenza ed illogicità della motivazione contenuta nel provvedimento .

4) Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 quinquies della Legge n. 24l/1990 - Insufficienza della motivazione con violazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990 .

5) Errore nei presupposti di fatto e su un punto decisivo della controversia: illegittimità del provvedimento amministrativo per incompetenza dell'Organo che lo ha adottato .

La Regione Lazio si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto del gravame, in quanto infondato.

Analogamente faceva Roma Capitale, con nota di forma del 30 novembre 2015.

Anche i sigg.ri Vitullo Fabrizio, Di Iorio Daniela, D'Avolio Pietro, Sarcone Maria Luisa, Mariucci Catia, Ragaglini Simonetta, De Giovanni Antonella e Rosa Pietro si costituivano, parimenti chiedendo la reiezione del gravame.

Successivamente le parti ulteriormente precisavano, con apposite memorie, le rispettive tesi difensive ed all’udienza del 12 novembre 2020 la causa veniva trattenuta in decisione.

DIRITTO

Con il primo motivo di appello si contesta l’assunto, ritenuto nella sentenza di primo grado, secondo cui i beneficiari del contributo pubblico sarebbero i privati: il contributo sarebbe infatti destinato a sostenere, da un punto di vista finanziario, l’operazione di sviluppo edilizio intrapresa

dal singolo operatore economico, sia per la realizzazione degli alloggi che per la loro gestione nel lungo periodo.

Diversamente da quanto si legge nella sentenza appellata, dunque, il finanziamento pubblico avrebbe lo scopo di sostenere gli operatori economici privati che intraprendono tali progetti, assicurando il supporto finanziario indispensabile per rispettare i vincoli dell'operazione, consistenti nel destinare gli alloggi realizzati alla locazione permanente – poi trasformata in locazione per venticinque anni – in favore di conduttori muniti dei requisiti soggettivi richiesti dalla legge, con canoni calmierati.

In tal senso, precisa l’appellante, “ la sentenza appellata è anche frutto di un'evidente travisamento dei fatti. avendo il TAR omesso di considerare che i canoni di locazione applicati dalla Cooperativa appellante così come determinati sulla base delle tabelle inizialmente approvate dal Comune) sono inferiori di circa il 30% rispetto a quelli di mercato (secondo quanto comprovato dalle quotazioni ufficiali relative al mercato immobiliare in zona Borghesiana […]).

Ed infatti, sebbene la sentenza appellata affermi ripetutamente che l’obiettivo della normativa in

esame è quello di pervenire alla fissazione di canoni di locazione e orezzi di cessione "in qualche

misura calmierati" (cfr. pag. 15 sentenza appellata), il Tar ha travisato i fatti nella parte in cui non

ha rilevato che, in concreto. tale scopo è stato raggiunto dalla Cooperativa appellante, la quale ha

realizzato gli alloggi e li ha poi concessi in locazione a conduttori muniti dei requisiti soggettivi

previsti dalla legge, applicando canoni sensibilmente inferiori rispetto a quelli di mercato ”.

In secondo luogo, il primo giudice non avrebbe adeguatamente considerato che l’operata rideterminazione in ribasso dei prezzi massimi di cessione degli alloggi e dei conseguenti canoni di locazione avrebbe comportato, a posteriori, una sensibile alterazione dei parametri sulla base dei quali era stato predisposto dalla Cooperativa il piano economico-finanziario dell'operazione.

Con specifico riguardo poi al presunto omesso scomputo del finanziamento pubblico, deduce l’appellante ( sub p.to 1.2 dell’appello) che il prezzo di cessione degli alloggi ed il conseguente canone di locazione (inizialmente approvati dal Comune di Roma) erano stati determinati dall'appellante secondo i parametri previsti dalla Convenzione e dal Disciplinare generale ad essa allegato, in base ai quali lo scomputo del contributo pubblico risultava essere già stato effettuato ab origine (e, come tale, sarebbe stato regolarmente approvato dall’amministrazione).

Ciò in virtù di quanto previsto all’art. 11, lett. c) del Disciplinare , in base al quale il prezzo massimo di cessione sarebbe stato determinato anche in ragione del “ costo di costruzione per la realizzazione dell'intervento, comprensivo delle spese generali anche relative alla progettazione, nonché degli oneri di preammortamento e finanziamento relativo agli eventuali contributi pubblici erogati ”.

Coerentemente a ciò, del resto, la delibera di Consiglio Comunale n. 173 del 2005 determina il costo di costruzione in base alla percezione o meno di finanziamenti pubblici da parte dell’operatore economico, tant’è che nel secondo caso sarebbe stata riconosciuta una maggiorazione di ben 170,94 euro/mq., giustificabile solo con la presenza o meno del contributo pubblico.

Dunque, l’ulteriore scomputo del contributo ipotizzato in sentenza determinerebbe una duplice ed illegittima decurtazione del costo di costruzione (e, conseguentemente, del prezzo di cessione) già decurtato in origine in ragione della natura pubblica del finanziamento.

Sotto altro profilo (punto 1.3 dell’appello) non sarebbe pertinente il richiamo operato dal primo giudice al precedente del T.a.r. Lazio n. n.6800 del 2014, per diversità di presupposti: là infatti l’operatore economico avrebbe beneficiato di un finanziamento pari al 79% del costo di costruzione, mentre nel caso attualmente in esame la Cooperativa avrebbe solamente ottenuto un finanziamento pari a circa il 17% del medesimo costo.

Neppure convincerebbe il richiamo fatto in sentenza all’art. 1339 Cod. civ., non essendo state individuate le clausole della Convenzione che risulterebbero colpite da nullità ex art. 1419 Cod. civ. e di conseguenza sostituite dalla disciplina imperativa, così come non sarebbe stata neppure individuata la norma che rivestirebbe carattere imperativo, idonea ad integrate la Convenzione sottoscritta tra il Comune e la Cooperativa appellante.

Il motivo non può essere accolto, dovendo trovare conferma il principio già esposto – da ultimo – nel precedente di Cons. Stato, V, 23 settembre 2019, n. 6331, riferito a vicenda analoga a quella su cui attualmente si verte, per cui “ Ha condivisibilmente rilevato il primo giudice che, sebbene la convenzione del 2007 intercorsa con il Comune di Roma non prevedeva espressamente l’obbligo di scomputare l’entità del finanziamento dal costo di costruzione, le norme di cui alla legge n. 179 del 1992, integrative, per la loro portata inderogabile, del testo convenzionale, considerano nel computo del prezzo di cessione i soli costi effettivi, e non anche la quota parte proveniente dal finanziamento pubblico, atteso che, diversamente, si determinerebbe un’inammissibile duplicazione del beneficio, fruito all’atto della corresponsione del prezzo della concessione, e poi al momento della riscossione dei canoni.

Ed invero, come questo Consiglio ha già avuto occasione di porre in evidenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, V, 5 giugno 2018, n. 3380), si desume, in sede di interpretazione degli artt. 6 e 7 della legge n. 179 del 1992 (irrilevante risultando il richiamo, contenuto nella sentenza di prime cure, alla legge n. 94 del 1982, peraltro a scopo rafforzativo di un autonomo assunto motivazionale), che i beneficiari dei contributi per cui è causa non siano da individuare nei soggetti realizzatori degli interventi di edilizia agevolata, bensì negli inquilini, in veste di fruitori finali. In particolare, l’art. 6 della suindicata legge n. 179, al comma 2, specifica che i valori dei contributi sono stabiliti in funzione del reddito dei beneficiari, circostanza idonea a connettere i presupposti per la fruizione del contributo allo stato soggettivo riferibile all’inquilino dell’immobile;
analogamente il comma 10 dello stesso art. 6, come pure l’art. 7, comma 1, depongono nel senso di individuare i beneficiari finali dei contributi nelle persone fisiche degli inquilini degli immobili.

Va ulteriormente considerato che, risultando il canone di locazione da praticare agli inquilini una percentuale del prezzo di vendita degli alloggi, il quale, a sua volta, è calcolato sulla base del costo di costruzione per la realizzazione dell’intervento, consentendo all’impresa il contributo pubblico di ottenere un abbattimento dei costi di costruzione, di tale abbattimento non può non tenersi conto ai fini della determinazione del canone da praticare agli inquilini.

Se l’erogazione del finanziamento pubblico è volta a rendere sostenibili i costi di realizzazione degli immobili di E.R.P., non vi è ragione per escludere che di tale contributo alla sostenibilità dei costi si tenga conto ai fini della determinazione del canone locativo (il quale è fissato in una quota parte del prezzo possibile di cessione, fissato a propria volta in relazione al costo di realizzazione). In questa prospettiva non assume alcun rilievo la prospettata distinzione tra le ipotesi di locazione permanente e quelle di locazione a termine, in quanto il riferimento al prezzo di vendita (a sua volta basato sul costo di costruzione per la realizzazione dell’edificio) risulta comunque finalizzato alla determinazione di un adeguato valore locativo, compatibile con entrambe le tipologie di locazione ”.

Con il secondo motivo di appello viene inoltre dedotta l’illegittimità del provvedimento amministrativo impugnato, sia nella parte in cui aveva ridotto il prezzo massimo di cessione, sia in quella nella quale era stato rideterminato il canone di locazione. In particolare, ai sensi dell’art. I par. 8 dell’« Atto d’obbligo per la locazione permanente di alloggi di edilizia agevolata » sottoscritto dalla Cooperativa appellante in data 18 gennaio 2006, che disciplina la locazione dei predetti alloggi, disponeva che “ [...] il canone annuo dì locazione è determinato nella misura percentuale sottoscritta dall'operatore nella domanda di partecipazione al bando dì cui alla deliberazione della Giunta Regionale n. 2036 del 3 ottobre 2000, con il quale il programma è stato ammesso a finanziamento, in rapporto con il piano finanziario dì cui all’art. 8, comma 3 della legge 17 febbraio 1992 n. 179, e non superiore al 4,5%, del prezzo convenzionale [...] ”.

Ne conseguirebbe che la determinazione del canone di locazione doveva essere effettuata in misura

percentuale rispetto al prezzo di cessione degli alloggi, come stabilito in convenzione, da ciò

derivando che tale prezzo non avrebbe potuto essere ridotto ex post dall’amministrazione.

La riduzione del prezzo di cessione disposta dall’amministrazione con il provvedimento impugnato, avrebbe determinato, di riflesso, un'ulteriore (ed illegittima) riduzione del canone di locazione rispetto a quanto ab origine correttamente quantificato: “ poiché il prezzo massimo di cessione degli alloggi era stato determinato a priori in misura ridotta, trattandosi di un intervento di edilizia agevolata, ne consegue che anche nella determinazione del canone di locazione, stabilito in misura percentuale rispetto al prezzo massimo di cessione, deve intendersi già detratto l’importo del finanziamento pubblico ”;
non vi sarebbero quindi ragioni giuridiche valide per dover ridurre anche il canone di locazione degli alloggi.

Né il provvedimento impugnato potrebbe dirsi adeguatamente motivato per il fatto – evidenziato dal primo giudice – di avere tra l’altro recepito le conclusioni raggiunte dal Gruppo di Lavoro istituito con determinazione del Direttore del Dipartimento programmazione e attuazione urbanistica n. 478 del 18 luglio 2012.

Il suddetto Gruppo di Lavoro, in realtà, da un lato avrebbe preso a riferimento dati del tutto eterogenei rispetto alla questione attualmente dibattuta, senza neppure valutare la circostanza che nella convenzione stipulata tra la Cooperativa appellante e l’amministrazione era stato previsto un prezzo massimo di cessione degli alloggi, determinato ab origine in misura ridotta per gli interventi che beneficiano di finanziamento pubblico;
dall’altro non avrebbe neppure affermato, in realtà, che tale prezzo (già ridotto) avrebbe dovuto essere ulteriormente decurtato.

Il motivo non è fondato, se non anche inammissibile per carenza di interesse, in quanto il par. 11 della sentenza, sul quale si appunta la censura in esame, è posto “a sostegno” argomentativo della decisione assunta, non ne costituisce dunque il nucleo tematico della motivazione, con la conseguenza che l’ipotetica (eventualmente parziale) inconferenza degli argomenti sviluppati non avrebbe alcuna ricaduta sulla statuizione decisoria.

Con il terzo motivo di gravame – sul presupposto che il provvedimento originariamente impugnato potesse qualificarsi come atto di annullamento, in via di autotutela, di un precedente provvedimento amministrativo – viene eccepita la violazione dell’art.2l- nonies della l. n. 241 del 1990 (nel testo all'epoca vigente), laddove il primo giudice avrebbe frettolosamente respinto tale censura, senza però puntualmente verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti di legge per il valido esercizio del relativo potere.

In particolare, non sussisterebbe il requisito della originaria illegittimità dell'atto, contrariamente a quanto ritenuto in sentenza circa l’evidenza, sin dall’origine, della necessità di decurtare il contributo pubblico dal prezzo di cessione degli alloggi, per le ragioni già esposte in precedenza;
neppure sarebbe stato ravvisabile (e, men che mai, concretamente individuato) un interesse pubblico alla rettifica delle tabelle recanti i prezzi massimi di cessione.

Non sarebbe stato inoltre rispettato il principio del termine ragionevole entro il quale esercitare il potere di annullamento, laddove la spiegazione adottata in sentenza (“ la delicatezza delle posizioni da tutelare in via prioritaria ha giustificato l’intervento riparatore anche a distanza di notevole tempo dal provvedimento rettificato ”) non spiegherebbe in realtà nulla circa la natura degli interessi in conflitto e le ragioni del loro concreto bilanciamento.

L’appellante insiste infine sulla presunta carenza di motivazione del provvedimento, posto che l’amministrazione procedente “ non ha compiuto alcuna valutazione comparativa tra l’interesse pubblico, che non è stato in alcun modo identificato, e gli interessi del destinatario dell'atto che, nel tempo, ha maturato un legittimo affidamento circa la conservazione di una situazione ampiamente consolidata ”, anche alla luce dei numerosi atti amministrativi adottati nel corso del tempo “ nell'implicito ed inequivoco presupposto del prezzo massimo di cessione determinato nella misura già scontata del finanziamento pubblico ”.

Neppure questo motivo è suscettibile di accoglimento, alla luce degli argomenti già esaminati in ordine alle precedenti doglianze, che portano a configurare la doverosità (vincolata) del provvedimento adottato.

Invero, prendendo le mosse dalla considerazione che la tabella di calcolo approvata dall’amministrazione è stata fornita dalla stessa società appellante, che ha malamente interpretato un quadro normativo orientato ad escludere il finanziamento pubblico dal prezzo massimo di cessione, non può che affermarsi la doverosità del provvedimento in autotutela di rideterminazione del prezzo di cessione.

Del resto, la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che l’autotutela può esercitarsi anche oltre il termine ragionevole (oggi, enucleato nei diciotto mesi) entro il quale può essere disposto l’annullamento d’ufficio a mente dell’art. 21- nonies della legge n. 241 del 1990, tra l’altro, nel caso in cui l’acclarata erroneità dei presupposti del provvedimento di primo grado attributivo di vantaggi economici non sia imputabile all’amministrazione, ma alla colpa della parte;
in tale evenienza non potrà che farsi applicazione del generale canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la correlazione tra gli opposti interessi in giuoco (in termini Cons. Stato, VI, 4 febbraio 2019, n. 849;
V, 27 giugno 2018, n. 3940). E peraltro la “tempestività” del provvedimento in autotutela va valutata in relazione al momento in cui tale potere può essere esercitato, profilo per il quale rileva non soltanto la conoscenza dell’illegittimità, ma anche il carattere “permanente” dei rapporti locatizi di cui si discute.

Nella fattispecie controversa sono ravvisabili i presupposti cui la norma condiziona l’esercizio del potere di autotutela (con l’effetto di rimozione del provvedimento), e cioè l’illegittimità dell’atto sul quale si interviene (essendo la misura del canone inizialmente assentita in contrasto con le previsioni della legge n. 179 del 1992), un interesse pubblico non riconducibile al mero ripristino della legalità ed una comparazione di tale interesse con quello privato al mantenimento dell’efficacia dell’atto.

Con il quarto motivo di appello viene poi dedotta – in subordine – l’assenza dei presupposti per procedersi alla revoca ( ex art. 21- quinquies della l. n. 241 del 1990) delle tabelle dei prezzi massimi di cessione originariamente adottate, stante in primo luogo l’assenza di mutamenti della situazione di fatto, tali da giustificare la revoca del precedente provvedimento.

Il motivo va disatteso, come già fatto dal primo giudice, non essendosi in presenza di un provvedimento di revoca, bensì di una rettifica integrativa conseguente la rilevata illegittimità dell’atto inizialmente adottato.

Infine, con il quinto motivo di appello si contesta l’incompetenza dell’organo che ha adottato il provvedimento impugnato ad incidere sulla convenzione stipulata ínter partes , nonché sui criteri a monte determinati dal Consiglio Comunale con delibera n. 173 del 2005, poiché a ciò avrebbe tutt’al più dovuto provvedere il medesimo Consiglio.

Neppure questo motivo è fondato, dovendosi confermare quanto al riguardo evidenziato dal primo giudice, per cui non vi è, in realtà, alcun contrasto tra la Convenzione, lo schema di disciplinare adottato in via generale dal Consiglio comunale (nel 2005) e la determinazione infine assunta da Roma Capitale, costituente oggetto di contestazione: quest’ultima, infatti, non avrebbe fatto altro che applicare “ norme e principi normativi di carattere inderogabile ed imperativo, aventi efficacia

automaticamente integrativa delle disposizioni pattizie e regolamentari citate (e peraltro dalla convenzione e dal relativo schema le norme dello specifico programma di finanziamento sono anche richiamate e recepite ai fini dell’automatica applicazione […] ”.

Alla luce dei rilievi che precedono, l’appello va dunque respinto.

La complessità della controversia integra le ragioni eccezionali che per legge consentono la compensazione tra tutte le parti delle spese di giudizio.

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