Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2019-05-08, n. 201902975

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2019-05-08, n. 201902975
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201902975
Data del deposito : 8 maggio 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 08/05/2019

N. 02975/2019REG.PROV.COLL.

N. 04424/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4424 del 2011, proposto da
Consiglio di Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Comitato di Verifica per le cause di servizio, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato P R, con domicilio eletto presso lo studio Michele Lobianco in Roma, viale Parioli, 79h;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. ABRUZZO - L'AQUILA: SEZIONE I n. 00368/2010, resa tra le parti, concernente il riconoscimento di dipendenza di infermità da causa di servizio.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 aprile 2019 il Cons. C C e uditi per le parti gli avvocati avv.to dello Stato De Luca, avv. Lo Bianco su delega dell’avv. Referza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con domanda in data 10 aprile 1999 al Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, l’appellato, magistrato amministrativo all’epoca in servizio presso la sede de L’Aquila, aveva chiesto la corresponsione dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata per infermità dipendenti da causa di servizio.

Egli si era sottoposto a visita presso la competente Commissione medico ospedaliera che, in data 25 maggio 2001, aveva riconosciuto la dipendenza da causa di servizio delle infermità “gastroduodenite erosiva” e “artrosi diffusa del rachide con protrusioni discali L3 - L4 L4 –L5”. In seguito, nella seduta in data 2 ottobre 2003, il Comitato di Verifica per le cause di Servizio (CVCS) esprimeva un giudizio con cui riconduceva a causa di servizio solo la “gastroduodenite erosiva”, escludendo la riconducibilità al servizio dell’artrosi diffusa del rachide con le indicate protrusioni discali. In particolare, il CVCS riteneva che quest’ultima infermità non potesse ritenersi dipendente da fatti di servizio, “trattandosi di infermità dovuta a fatti dismetabolico-degenerativi a livello delle articolazioni intervertebrali, in correlazione con l’usura conseguente al progredire dell'età, sull'insorgenza e decorso della quale non può aver nocivamente influito, neppure sotto il profilo concausale efficiente e determinante, il servizio prestato in ambienti chiusi, nell'ambito delle mansioni di competenza, quali che fossero le condizioni di aerazione e riscaldamento invernale e, comunque, non caratterizzato da particolari e gravose condizioni di disagio”.

2. L’appellato impugnava il suddetto giudizio, per la parte relativa a tale infermità, per difetto assoluto di motivazione, difetto di istruttoria ed eccesso di potere per manifesta irrazionalità e, nel corso del giudizio, impugnava con motivi aggiunti il verbale della riunione, in data 1 aprile 2004, del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa in cui era stata approvata la proposta di esprimere parere conforme al provvedimento del CVCS.

Il TAR adito disponeva una consulenza tecnica d’ufficio. La relazione del consulente incaricato, redatta in data 9 febbraio 2009, esaminato il caso, ha concluso come segue: “In definitiva, come precedentemente descritto, l'artrosi è una patologia a genesi multifattoriale: dove l’età, la predisposizione individuale, i fattori genetici, i fattori climatici, l'attività lavorativa e le abitudini personali (es. il mancato esercizio fisico) concorrono in diversa misura alla determinazione, nonché all'aggravamento della patologia de quo, non potendosi attribuire una prevalenza causale ad un fattore piuttosto che all’altro. Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto non è possibile escludere che la posizione seduta coattamente assunta dal Cons. Dott. R in tutti gli anni di servizio presso il TAR dell'Abruzzo, abbia concorso alla determinazione della patologia artrosica da cui lo stesso risulta affetto: e ove non ne fosse la “causa primaria”, essa ha, certamente, valore di “concausa”. A tale proposito, appare necessario ricordare che la giurisprudenza e la dottrina medico-legale sono concordi nell'affermare che la concausa va intesa come quell’antecedente che svolga un ruolo attivo specifico, significativo e ben obiettivabile nel determinismo del conseguente evento dannoso, pur sussistendo una predisposizione genetica-costituzionale del lavoratore. In conclusione, tanto basta alla serena formulazione di un convincimento medico-legale che l'attività lavorativa del periziando, assurta a ruolo di concausa efficiente e determinante, sia da porre in nesso causale con la sindrome artrosica da cui lo stesso è affetto.”

Pertanto, la relazione peritale ha ritenuto che entrambe le infermità fossero state contratte “in servizio e per causa di servizio” e che potessero essere ascritte alla VI categoria della Tabella A di cui al DPR 834/81e allaL662/92. La stessa relazione ha affermato che le suddette infermità “non rendono il periziando “inabile assoluto o permanente” allo svolgimento della propria attività lavorativa, pertanto, non sussistono i requisiti biologici e medico legali per la concessione del beneficio della pensione privilegiata”.

Il Giudice di prime cure ha quindi accolto il ricorso “sulla base delle risultanze emerse dalla disposta consulenza tecnica d’ufficio, che il collegio recepisce ed alla quale rinvia per i contenuti di dettaglio” e ha previsto la corresponsione al ricorrente a titolo di equo indennizzo della somma di € 9.206,14, disponendo la compensazione delle spese con addebito alle Amministrazioni resistenti (in solido) degli onorari spettanti al consulente tecnico d'ufficio.

3. Avverso la sentenza ha presentato appello l’Avvocatura generale dello Stato, con istanza di sospensione degli effetti. Con nota in data 7 settembre 2011, la stessa Avvocatura generale dello Stato ha dichiarato di rinunciare a tale istanza in quanto, in sede di udienza fissata per la trattazione dell'istanza medesima, la parte appellata depositava documentazione attestante l'avvenuta corresponsione, da parte dell'Amministrazione, della somma prevista a titolo di indennizzo dalla sentenza di primo grado. Questo Consiglio ha dato atto dell’intervenuta rinuncia (27 settembre 2011, n. 4126, ord.).

A motivo dell’appello l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che la consulenza tecnica d’ufficio non aveva evidenziato la natura della patologia osteoarticolare come concausa efficiente e determinante, preponderante e necessaria. Ciò in quanto la relazione peritale avrebbe posto in luce la genesi multifattoriale della patologia, “per cui più fattori concorrono nel determinismo di tale affezione". Tra tali fattori era stato considerato anche il clima freddo e umido della sede di servizio de L’Aquila;
ma l’appellante rileva che il magistrato aveva la dispensa dall’obbligo di residenza nella città e, “quindi, la sua permanenza nella sede si poteva ritenere che sia stata limitata allo stretto necessario per poter partecipare all'udienza che, com'è noto, si svolgeva due volte al mese”. Poiché la relazione peritale afferma che “non è possibile escludere che la posizione seduta abbia concorso alla determinazione della patologia” con “valore di concausa”, la tesi dell’appellante è che sia stata fornita una valutazione meramente possibilistica del nesso causale, senza che sia stato formulato quel giudizio di qualificata probabilità che costante giurisprudenza richiede per poter configurare una concausa efficiente e determinante.

L’appellato si è costituito con memoria in data 28 maggio 2011, contestando la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato laddove giunge a ritenere che la concausa efficiente debba essere causa principale ed esclusiva della genesi della malattia e chiedendo il rigetto dell’appello. L’appellato ha ribadito le proprie argomentazioni per il rigetto dell’appello con memoria in data 8 marzo 2019.

4. L’appello è fondato.

Occorre in primo luogo rilevare che la sentenza impugnata ha accolto il ricorso “sulla base delle risultanze della disposta consulenza tecnica d’ufficio che il collegio recepisce e alla quale rinvia per i contenuti di dettaglio”.

In merito alla disposizione della consulenza va ricordato, prima di tutto, l’orientamento consolidato di questo Consiglio per cui “la possibilità di procedere ad una consulenza tecnica d’ufficio non può estendersi sino a determinare e legittimare una sostituzione del giudice alle valutazioni compiute dall'amministrazione tramite il proprio Comitato di Verifica per cui il giudice può disporla solo per verificare specifici e concreti aspetti che rimangono in dubbio e che un'ulteriore perizia sia in grado di chiarire efficacemente, nonostante il tempo trascorso”(cfr. Cons. St. Sez. III, 1 agosto 2018, n. 4774 e 29 dicembre 2017, n. 6175;
Sez. VI, 13 gennaio 2004, n. 1204;
sez. IV, 8 gennaio 2013, n. 31).

Nella fattispecie si constata, invece, l’ampiezza del quesito sottoposto al consulente tecnico, non articolato per specifici aspetti. Il consulente, infatti, è stato incaricato di rispondere al quesito se le infermità del ricorrente fossero dipendenti da causa di servizio e, in caso affermativo, di accertare se le infermità suddette avessero determinato una menomazione dell’integrità fisica ascrivibile ad una delle categorie di cui alle tabelle A e B annesse al DPR n. 834 del 1981 e alla legge n. 662 del 1996, ai fini della concessione dell'equo indennizzo e della pensione privilegiata, indicandone il grado di inabilità.

Venendo alla disamina della relazione peritale, se è vero che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio invocata dall’appellato, il giudizio tecnico-legale espresso dal consulente tecnico è insindacabile se non per contraddittorietà e per macroscopici vizi logici (Cons. Stato, sez. VI, 23 settembre 2009, n. 5664), nella relazione in questione, però, non possono non rilevarsi alcuni snodi contraddittori, in particolare tra la parte motiva e le conclusioni.

Infatti, la relazione peritale, più di una volta, afferma il carattere multifattoriale della patologia “artrosi diffusa del rachide con protrusioni discali L3 - L4 –L5”. Dapprima essa ascrive tale carattere della patologia all’orientamento scientifico più accreditato, elencando sei fattori tra cui quello ambientale in merito al quale sottolinea che “in generale ogni attività lavorativa può predisporre all'artrosi quando si permane in posture coatte”;
poi, la relazione considera sia gli effetti sulla colonna vertebrale dell’assunzione giornaliera della posizione seduta per molte ore, sia “l'esposizione continua alle basse temperature ed umidità all’esterno con improvvise variazioni delle correnti d'aria” del ricorrente in quanto assegnato alla sede de L’Aquila con ufficio privo di adeguato riscaldamento.

Ciò posto, la relazione ribadisce che “In definitiva, come precedentemente descritto, l'artrosi è una patologia a genesi multifattoriale: dove l'età, la predisposizione individuale, i fattori genetici, i fattori climatici, l'attività lavorativa e le abitudini personali (es. il mancato esercizio fisico) concorrono in diversa misura alla determinazione, nonché all'aggravamento della patologia de quo, non potendosi attribuire una prevalenza causale ad un fattore piuttosto che all'altro”.

Nonostante quest’ultima affermazione, la relazione - pur limitandosi ad esprimere una valutazione di mera possibilità – giunge a dichiarare che “non è possibile escludere che la posizione seduta coattamente assunta dal Cons. Dott. R in tutti gli anni di servizio presso il TAR dell'Abruzzo, abbia concorso alla determinazione della patologia artrosica da cui lo stesso risulta affetto: e ove non ne fosse la "causa primaria", essa ha, certamente, valore di "concausa".

In merito a questo punto, va notato che la formulazione di tale giudizio di possibilità segue, senza alcuna spiegazione, l’affermazione che non si può “attribuire una prevalenza causale ad un fattore piuttosto che all’altro”. Va anche notato che tali fattori, pur elencati più di una volta, non vengono fatti oggetto di valutazione nella relazione peritale con riferimento alla fattispecie concreta.

Non solo, ma la stessa relazione peritale prosegue - elidendo ogni ulteriore passaggio tecnico scientifico che possa consentire di avanzare da un giudizio di mera possibilità, ipotetico e generico, verso un giudizio di probabilità, escludendo il ruolo efficiente e determinante di altre concause - giungendo ad attribuire alla concausa della posizione seduta “un ruolo attivo specifico, significativo e ben obiettivabile nel determinismo del conseguente evento dannoso, pur sussistendo una predisposizione genetica-costituzionale del lavoratore”.

Senza evidenziare alcun profilo del rapporto lavorativo legato alle modalità quantitative e qualitative di svolgimento della prestazione lavorativa, salvo il riferimento al clima al quale però non viene poi attribuito uno specifico ruolo, la relazione contraddittoriamente conclude che “l'attività lavorativa del periziando, assurta a ruolo di concausa efficiente e determinante, sia da porre in nesso causale con la sindrome artrosica da cui lo stesso è affetto”, in assenza di indicazione delle ragioni per cui la suddetta attività sia assurta a tale ruolo.

Il carattere apodittico del passaggio della relazione, dalla formulazione di un giudizio di possibile concausalità in ambito multifattoriale all’affermazione della natura efficiente e determinate della concausa costituita dall’attività lavorativa, mostra una inspiegabile cesura dell’iter logico seguito, che rende contraddittoria la relazione stessa. Tale cesura mina la credibilità logica e razionale dell’affermazione della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia. Non può sfuggirsi, infatti, al requisito dell'effettiva e comprovata “riconducibilità ad attività lavorativa delle cause produttive di infermità o lesione, in relazione a fatti di servizio ed al rapporto causale tra i fatti e l'infermità o lesione” dato che la legge (art. 11, primo comma, d.P.R. 29 ottobre 2001, n. 461), non ritiene sufficiente, a tale fine, la mera “possibile” valenza patogenetica del servizio prestato, ma, di contro, impone la puntuale verifica, connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale, della valenza del servizio prestato quale fattore eziologicamente assorbente o, quanto meno, preponderante nella genesi della patologia (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 ottobre 2017 n. 4619, sez. III, 7 marzo 2017, n. 1076).

Dunque, non può essere condivisa la scorciatoia logica esposta nella memoria di parte appellata, secondo la quale l’affermazione “non è possibile escludere”, significherebbe che “deve essere affermato”, dato che un tale processo argomentativo comporterebbe un illogico salto dall’affermazione di un’ipotetica possibilità all’affermazione di un determinismo certo.

La giurisprudenza di questo Consiglio ha chiarito che, nell'ambito del pubblico impiego, una normale attività di servizio non può essere considerata concausa dell'insorgere di un'infermità a carico del dipendente, in assenza di comprovate situazioni di particolarità ed eccezionalità, tali da far presumere che, sull'insorgenza o aggravamento dell'infermità, si siano casualmente innestati, individuati, qualificati e rilevanti elementi riconducibili al servizio (Cons. Stato sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 618). Perciò, nella nozione di concausa efficiente e determinante di servizio possono farsi rientrare soltanto fatti ed eventi eccedenti le ordinarie condizioni di lavoro, gravosi per intensità e durata, che vanno necessariamente documentati, con esclusione, quindi, delle circostanze e condizioni del tutto generiche, quali inevitabili disagi, fatiche e momenti di stress, che costituiscono fattore di rischio ordinario in relazione alla singola tipologia di prestazione lavorativa (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 4619/2017, cit.).

E’ quindi fondata la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato per cui con la relazione peritale, su cui la sentenza impugnata ha basato l’accoglimento del ricorso, è stata fornita solo una valutazione meramente possibilistica del nesso causale, senza che sia stato formulato un motivato giudizio di qualificata probabilità necessario per poter configurare una concausa efficiente e determinante.

Pertanto, l’appello va accolto, con conseguente rigetto del ricorso di primo grado, unitamente ai motivi aggiunti.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

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