Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-11-27, n. 202310154

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-11-27, n. 202310154
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202310154
Data del deposito : 27 novembre 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/11/2023

N. 10154/2023REG.PROV.COLL.

N. 10011/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10011 del 2022, proposto da
Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

Netsize s.r.l., non costituita in giudizio;
Telecom Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati S C e A L, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Quarta-Bis) n. 12286/2022, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della società Telecom Italia s.p.a.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2023 il Cons. Giovanni Pascuzzi e udito per la parte appellata l’avvocato S C;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con ricorso del 2014 la società Telecom Italia s.p.a. ha chiesto al Tar per il Lazio l’annullamento:

- della delibera AGCOM n. 162/14/CONS, del 23 aprile 2014, recante ordinanza ingiunzione alla società Telecom Italia per la violazione dell'art. 3, comma 3, del piano nazionale di numerazione di cui all'allegato A, alla delibera n. 52/12/CIR (contestazione n. 29/13/DIT);

- di ogni ulteriore atto connesso, presupposto o conseguenziale, ivi inclusi, per quanto occorrer possa, il verbale di accertamento AGCOM n. 29/13 del 26 novembre 2013, la contestazione AGCOM N. 29/13/DIT.

2. Con il ricorso citato la società ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha ingiunto alla medesima società di pagare una sanzione pari a € 120.000,00 per violazione dell’art. 3, comma 3, del piano nazionale di numerazione contenuto nell’allegato A alla delibera 52/12/CIR in quanto, in qualità di titolare della numerazione 4882882, non ha vigilato in ordine alle modalità di attivazione del servizio a sovraprezzo denominato “MysSoftPack”, fornito sulla suddetta numerazione per il tramite della società utilizzatrice (Netsize s.r.l.), ritenute illecite.

Nell’atto impugnato si legge testualmente quanto segue: « Nel periodo marzo-luglio 2013, infatti, molteplici utenti hanno denunciato l'illegittima attivazione del servizio premium in abbonamento denominato MySoftPack. Tutti i segnalanti, in particolare, hanno riferito che, nel tentativo di scaricare da Internet software o programmi notoriamente gratuiti (es. Emule), sono stati invitati ad inserire il proprio numero mobile per completare il download, incorrendo, in tal modo, nell'inconsapevole attivazione al servizio a sovrapprezzo MySoftPack e nella necessità di inviare un SMS al n. 4882882 per la relativa disattivazione. Rispetto al fenomeno denunciato, è stato contestato alla società Telecom Italia s.p.a. la mancata vigilanza nei confronti degli utilizzatori delle numerazioni di propria titolarità, necessaria per appurare la conformità di tale utilizzo rispetto alle prescrizioni ed agli obiettivi di tutela indicati nel PNN, tra cui la tutela degli utenti nell'ambito della fruizione di servizi premium. Telecom, in qualità di titolare della numerazione in decade 4, quindi, non ha vigilato sulla società Netsize, ossia sul soggetto che, oltre ad avere in uso il n. 4882882, ha assicurato al Content Service Provider (società Fulltime, con sede in Gran Bretagna) la possibilità di erogare in Italia il proprio servizio/contenuto, in elusione delle principali disposizioni nazionali a tutela dell'utenza ».

3. A sostegno dell’impugnativa, la società Telecom proponeva i seguenti motivi di ricorso:

I. Incompetenza di AGCOM. Violazione e falsa applicazione dell’art. 27, c. 1- bis , d.lgs. 206/2005 come modificato dall’art. 1, c. 6 d.l. 21/2014.

II. In subordine. Incompetenza, sotto ulteriori profili. Violazione e falsa applicazione delle direttive 2005/29/CEE e 2002/22/CE, degli artt. 20, 21 e 22 del Codice del Consumo, del PNN di cui all’allegato A alla delibera n. 52/12/CIR. Eccesso di potere per carenza dei presupposti, contraddittorietà dei provvedimenti e per violazione del “ ne bis in idem” .

III. In ulteriore subordine. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, del PNN, nonché dell’art. 98, comma 11, del d.lgs. 259/2003. Eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, disparità di trattamento, contraddittorietà fra provvedimenti, irragionevolezza e sviamento dal fine.

4. Nel giudizio di primo grado si sono costituite l’Autorità intimata e la società controinteressata Netsize s.r.l., opponendosi all’accoglimento del ricorso.

5. Con sentenza n. 12286/2022 il Tar per il Lazio ha accolto il ricorso annullando, per l’effetto, la delibera dell'AGCOM n. 162/14/CONS del 23 aprile 2014.

5.1 Dopo aver richiamato l’art. 19, comma 3, e l’art. 27, comma 1- bis , del codice del consumo, il primo giudice ha ritenuto fondato il primo motivo di ricorso affermando che:

- in applicazione dei principi sanciti dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, sez. II, con la sentenza 13 settembre 2018, le sopra citate disposizioni vanno interpretate nel senso che la regola generale è che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza appartiene all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, mentre la competenza delle altre autorità settoriali è residuale e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili;

- il criterio di risoluzione di una possibile concorrenza di norme che disciplinano la condotta contestata è costituito non dal “criterio di specialità” - come ritenuto dal Consiglio di Stato in una prima fase applicativa (precedente all’introduzione del citato art. 27, comma 1- bis ) con le sentenze menzionate nel provvedimento impugnato a supporto della competenza dell’AGCOM (Ad. Pl., 11 maggio 2012, nn. 11, 12, 13, 15 e 16) - ma dal “criterio di incompatibilità”: mentre il primo criterio presuppone che le due discipline presentino aspetti comuni e aspetti differenti, il secondo presuppone che tra le due discipline sussista una complessiva divergenza di contenuti che non ne consenta neanche l’astratta coesistenza;

- applicando tali principi, nel caso in esame la competenza appartiene esclusivamente all’AGCM posto che - la pratica sanzionata - non avere la ricorrente, in qualità di titolare della numerazione 4882882, impedito al soggetto utilizzatore della suddetta numerazione di attivare un servizio a pagamento in assenza di una consapevole richiesta dell’utente - configura in astratto (ferma ogni valutazione dell’Autorità competente) l’illecito definito dall'art. 20, comma 2, del codice del consumo, in quanto costituisce una condotta contraria alla diligenza professionale - che imponeva di vigilare sul corretto uso della numerazione da parte dei terzi utilizzatori - ed idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio, indotto inconsapevolmente ad attivare un servizio in abbonamento non richiesto: tale comportamento è quindi astrattamente riconducibile al divieto generale sancito dal primo comma del medesimo art. 20 del medesimo codice;

- non sussistono profili di incompatibilità, nei termini indicati, che giustifichino la traslazione delle attribuzioni in materia all’AGCOM, non essendo ravvisabile alcun elemento di contrasto tra la disciplina settoriale di cui è contestata la violazione – contenuta nell’art. 3, comma 3, del piano nazionale di numerazione di cui all’allegato A alla delibera 52/12/CIR - e le norme generali in materia consumeristica, contenute nel titolo III della parte seconda del codice del consumo.

6. Avverso la sentenza del Tar per il Lazio n. 12286/2022 ha proposto appello AGCOM per i motivi che saranno più avanti esaminati.

7. Si è costituita in giudizio la società Telecom, rilevando l’inammissibilità, l’improponibilità e l’improcedibilità dell’appello, nonché la sua infondatezza in fatto e in diritto.

8. Alla Camera di consiglio del 12 gennaio 2023 su richiesta delle parti la trattazione dell’istanza cautelare è stata rinviata al merito.

9. All’udienza del 7 novembre 2023 l’appello è stato trattenuto per la decisione.

DIRITTO

1. Con il primo motivo di appello AGCOM lamenta: « Violazione e falsa applicazione degli artt. 19 co. 3 e 27, co.

1-bis del Codice del consumo. Obbligo di interpretazione conforme al diritto dell’Unione
».

L’appellante sostiene che:

- una corretta interpretazione dell’art. 27, co. 1- bis e dell’art. 19, comma 3 del Codice del Consumo dovrebbe condurre ad applicare la disciplina di settore che prevede obblighi di condotta attiva o omissiva in capo agli operatori salvo quando la condotta oggetto dell’obbligo corrisponde ad una pratica commerciale aggressiva, poiché integra una condotta tipizzata e descritta dal legislatore nel Codice del consumo;

- diversamente l’orientamento della giurisprudenza amministrativa sposato anche con la pronuncia qui appellata espone l’intero sistema normativo ad un sostanziale vuoto di tutela degli utenti-consumatori in fase di attuazione delle norme poste a loro garanzia nei casi, come quello in esame, di concorso apparente di norme (generale e settoriale);

- infatti, in assenza di un intervento dell’AGCM l’utente-consumatore rimarrebbe privo di qualunque tutela e, in particolare, di quella apprestata dall’Autorità di regolazione dello specifico settore nel quale la condotta illecita si verifica;

- eventualità, quest’ultima, che si è puntualmente verificata in riferimento al procedimento che ha portato all’adozione della delibera 162/14/CONS del 23 aprile 2014, con la quale l’Autorità aveva sanzionato condotte contrarie agli obblighi di trasparenza informativa, a fronte delle quali la stessa AGCM si era dichiarata incompetente, trasmettendo le segnalazioni all’Autorità;

- inoltre, l’orientamento richiamato determina altresì l’ineluttabile compromissione, se non la totale soppressione, dell’esercizio del potere di enforcement a tutela degli utenti riservato all’AGCOM, giacché è evidente che il presupposto della “incompatibilità” fra la disciplina di settore e quella generale in materia di pratiche commerciali scorrette è un’ipotesi pressoché irrealizzabile;

- il combinato disposto del considerandum 10 e della norma di cui all’art. 3, comma 4, della Direttiva PCS, letti alla luce dei recentissimi “Orientamenti sull'interpretazione e sull'applicazione della direttiva 2005/29/CE”, sanciscono in maniera chiara e incontrovertibile che in caso di contrasto o sovrapposizione fra disciplina generale e disciplina settoriale prevalga quest’ultima, mentre la disciplina generale si applica, invece, per le ipotesi non contemplate dalla disciplina settoriale;

- in altri termini, il rapporto tra le discipline (concorso apparente di norme o anche contrasto fra le medesime) si risolve in considerazione della prevalenza della disciplina di settore, per cui in presenza di fattispecie individuate ex ante dalla norma primaria (obblighi/doveri individuati dal Codice delle comunicazioni elettroniche), volte a tutelare l’interesse facente capo a una determinata categoria di soggetti (utenti finali di servizi di comunicazioni elettroniche) si applicherà tale plesso normativo;
a titolo di esempio: obbligo di trasparenza informativa, obbligo di garantire il diritto di recesso, obbligo di garantire la portabilità del numero;

- invece, in presenza di fattispecie tipizzate individuate dal Codice del consumo (costruiti in termini di divieto di realizzare pratiche commerciali scorrette, id est ingannevoli e/o aggressive), volte a tutelare gli interessi della generale categoria dei consumatori – soggetti caratterizzati dalla debolezza contrattuale derivante dallo squilibrio informativo nei rapporti con il professionista − si applicherà quest’ultimo plesso normativo.

In via subordinata, AGCOM chiede venga rimessa una questione interpretativa ex art. 267 TFUE, al fine di chiarire: « se il Considerando 10 della Direttiva PCS e l’art. 3, comma 4, della 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, nonché i richiamati Orientamenti della Commissione europea, ostino a che una normativa interna, quali quella in rilievo nel caso di specie (artt 19. Co. 3 e 27, co. 1 bis del Codice del Consumo), venga interpretata nel senso che la disciplina settoriale prevalga solo in caso di contrasto, e non anche in caso di concorso, tra la disciplina settoriale medesima e quella generale in tema di pratiche commerciali scorrette ».

1.1 Il motivo è fondato.

Nel provvedimento impugnato si legge testualmente:

« Il procedimento in esame, tuttavia, è stato avviato sulla base di una pluralità di segnalazioni trasmesse all'AGCOM dall'Autorità Antitrust, in esecuzione di una serie in pronunce del giudice amministrativo.

In particolare, l'orientamento interpretativo inaugurato dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nn. 12/2012, 13/2012, 16/2012) è stato ulteriormente confermato dal giudice di prima istanza nelle pronunce successivamente intervenute, che ha annullato, per incompetenza, i provvedimenti sanzionatori adottati dall'AGCM per pratiche commerciali scorrette nei settori regolati (TAR Lazio, Roma, sez. I, 18 luglio 2013, nn. 7273 e 7275 e 22 luglio 2013, nn. 7442 e 7464). In esecuzione di dette sentenze, quindi, 1'AGCM ha trasmesso all'AGCOM tutte le segnalazioni pervenute dal 1 marzo 2013 che, in virtù dei criteri interpretativi enunciati dal G.A., potevano ricadere nell'ambito di applicazione della disciplina di settore. Le denunce confluite nel procedimento de quo, pertanto, sono state acquisite per competenza dall'Autorità, che le ha gestite ed esaminate conformemente alle indicazioni legislative e giurisprudenziali vigenti in quel momento. Le condotte denunciate dagli utenti, infatti, sono state verificate "limitatamente agli aspetti regolati", in applicazione delle sole norme di settore. Ciò è avvenuto anche in relazione al fenomeno delle attivazioni non richieste del servizio MySoftPack ».

Non può, dunque, ignorarsi che sulla questione è intervenuta l’Adunanza Plenaria n. 11 dell’11 maggio 2012, che si è pronunziata sulla questione di principio attinente alla delimitazione di competenza tra AGCOM e Antitrust nella materia, anche alla luce del principio di buon andamento dell’Amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, dopo aver effettuato un attento esame del rapporto tra la normativa generale in materia di tutela del consumatore e la disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche, per giungere alla conclusione che l’AGCOM esercita in via primaria anche funzioni a tutela dell’utenza.

Difatti, l’Adunanza è partita dall’assunto condivisibile che “Una volta acclarato tale assetto normativo, finalizzato ad individuare la disciplina da applicare in concreto, potrà essere agevolmente individuata l’Autorità chiamata ad intervenire nella fattispecie in esame, quale Autorità preposta alla tutela del corpo normativo di cui si è individuata l’applicazione”.

Ed ha innanzitutto evidenziato come il Codice delle comunicazioni elettroniche faccia espresso riferimento alla tutela del consumatore (art. 4, comma 3, lett. f), art. 13, comma 4, lett. a, art. 70, art. 71);
come la delibera n. 664/06/Cons di AGCOM, avente portata regolatoria, in attuazione delle disposizioni indicate, abbia declinato compiutamente gli obblighi di comportamento gravanti sugli operatori di settore nella contrattazione a distanza, espressamente richiamando, nelle premesse, anche gli artt. 50 e segg. del Codice del consumo;
come, infine, per esigenze di completezza vadano rammentati i coerenti principi ricavabili dalle leggi nn. 481 del 1995 e 249 del 1997.

Dall’analisi condotta, l’Adunanza Plenaria ha evidenziato che “emerge ictu oculi che l’intenzione del legislatore (sia nazionale che comunitario, trattandosi in gran parte di norme di diretta derivazione comunitaria) è quella di ricomprendere a pieno titolo nella disciplina in esame anche la tutela del consumatore/utente, nell’ambito di una regolamentazione che dai principi scende fino al dettaglio dello specifico comportamento. D’altronde, se così non fosse, non dovrebbe neppure ammettersi la competenza di AgGom ad intervenire con atti regolatori o linee di indirizzo a tutela dei consumatori (oltre che ad autorganizzarsi con la istituzione di un’apposita direzione denominata “Tutela dei consumatori”) e dovrebbe negarsi la legittimità della stessa delibera n. 664/06/Cons, aspetto questo che non risulta in alcun modo contestato da Antitrust né dagli operatori di settore”.

Ed, ancora, ha sottolineato che “Non può, quindi, convenirsi con la tesi sostenuta da Antitrust, che cioè la disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche avrebbe finalità di sola tutela della concorrenza e di garanzia del pluralismo informativo, poiché queste ultime finalità non possono non affiancarsi alla tutela del consumatore, come sopra evidenziato. Anzitutto, appare ben difficile sezionare chirurgicamente la disciplina in esame, al fine di enucleare singoli interessi oggetto di tutela, poiché tale modus operandi contrasta con l’inevitabile unitarietà degli interessi operanti nelle singole fattispecie concrete. Ma soprattutto tale distinzione – ove in ipotesi possibile – non trova riscontro nel dato normativo, come si è fin qui constatato”.

Passando, poi, ad esaminare le disposizioni contenute nel Codice del Consumo, il Supremo Consesso ha precisato che esso “detta una disciplina articolata proprio al fine di tutelare le esigenze e le aspettative del consumatore/utente in tutti i campi del commercio, senza prendere in considerazione le specificità di singoli settori quale, relativamente alla fattispecie in esame, quello delle comunicazioni elettroniche. A tal fine sovviene l’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, ai sensi del quale, in caso di contrasto, prevalgono le norme che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette. In sostanza, la norma in esame si iscrive nell’ambito del principio di specialità (principio immanente e di portata generale sul piano sanzionatorio nel nostro ordinamento, come si evince dall’art. 15 del cod. pen. e dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981), ai sensi del quale non si può fare contemporanea applicazione di due differenti disposizioni normative che disciplinano la stessa fattispecie, ove una delle due disposizioni presenti tutti gli elementi dell’altra e aggiunga un ulteriore elemento di specificità (o per aggiunta o per qualificazione). In altre parole, le due norme astrattamente applicabili potrebbero essere raffigurate come cerchi concentrici, di cui quello più grande è quello caratterizzato dalla specificità. Né all’applicazione del principio di specialità può opporsi che debba esistere una situazione di contrasto tra i due plessi normativi: difatti, ad una lettura più meditata, occorre ritenere che tale presupposto consista in una difformità di disciplina tale da rendere illogica la sovrapposizione delle due regole.

Ed invero, al riguardo può concretamente soccorrere quanto previsto dal considerando 10 della direttiva 2005/29/CE (testo normativo recepito nel nostro ordinamento nel d.lgs. n. 206 del 2005,

ossia nel Codice del Consumo), secondo cui la disciplina di carattere generale si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali;
in pratica, essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una legislazione di settore. Alla luce di questa impostazione occorre leggere, pertanto, quanto previsto all’art. 3, comma 4, della medesima direttiva, trasfuso nell’art. 19, comma 3, del Codice del Consumo, secondo cui prevale la disciplina specifica in caso di contrasto con quella generale: il presupposto dell’applicabilità della norma di settore non può essere individuato solo in una situazione di vera e propria antinomia normativa tra disciplina generale e speciale, poiché tale interpretazione in pratica vanificherebbe la portata del principio affermato nel considerando 10, confinandolo a situazioni eccezionali di incompatibilità tra discipline concorrenti.

Occorre, invece, leggere il termine conflict (o conflit), usato nella direttiva nelle versioni in inglese (e francese) e tradotto nel testo italiano come contrasto, come diversità di disciplina, poiché la voluntas legis appare essere quella di evitare una sovrapposizione di discipline di diversa fonte e portata, a favore della disciplina che più presenti elementi di specificità rispetto alla fattispecie concreta. In altre parole, la disciplina generale va considerata quale livello minimo essenziale di tutela, cui la disciplina speciale offre elementi aggiuntivi e di specificazione”.

Di tal ché, con una prima argomentazione conclusiva, l’Adunanza si determinava nel senso dell’applicabilità alla fattispecie in esame della normativa di settore, in ragione della sua specificità rispetto alla disciplina generale;
e, con una seconda, stabiliva l’intera riconduzione della ripetuta fattispecie nell’ambito della normativa di settore, avendone altresì verificato l’esaustività e la completezza in relazione al comportamento contestato all’operatore economico, così escludendo un campo residuo di intervento di Antitrust.

Ed invero, il comportamento nella specie contestato appariva interamente ed esaustivamente disciplinato dalle norme di settore ed in particolare dall’art. 1 del d.l. n. 7 del 2007, convertito con modificazione.

Né a giudizio del Supremo Consesso poteva assumersi che la suddetta disciplina non coprisse tutte le possibili fattispecie di pratica commerciale scorretta, dovendosi invece negare il configurarsi di un rischio di lacune o deficit nella tutela del consumatore da parte dell’autorità di settore, tenuto conto, sia delle clausole generali contemplate nella disciplina di settore (“clausole che già di per sé consentono comunque di ritenere che non esistano aree non coperte dalla disciplina regolatoria”), sia, principalmente, della natura di rinvio dinamico “ad ogni altra disposizione di tutela del consumatore” del comma 6, dell’art. 70, del Codice delle Comunicazioni, che “garantisce la chiusura del sistema ed esclude a priori il rischio più volte paventato da Antitrust di possibili lacune della tutela stessa”.

Va rilevato che nel protocollo di intesa fra le due Autorità del 23 dicembre 2016 il rapporto fra le due discipline è definito in termini di complementarietà e non di incompatibilità.

L’art. 3 del protocollo statuisce a partire ai commi 2,3 e 4 :

2. Ai sensi dell’art. 27, comma 1-bis, del Codice del Consumo, resta ferma la competenza dell’AGCOM ad interpretare la regolamentazione settoriale vigente, ad applicare la normativa settoriale a tutela dei consumatori introdotta dal Quadro europeo delle reti e servizi di comunicazioni elettroniche e recepita nell’ordinamento interno dal Codice delle Comunicazioni elettroniche e sanzionare eventuali violazioni.

3. Come indicato nelle Linee Guida della Commissione europea [SWD (2016) 163 (cfr. pagg. 15-17)], in caso di conflitto o sovrapposizione tra le disposizioni generali in tema di pratiche commerciali sleali e quelle contenute nella normativa settoriale di derivazione europea, prevalgono le disposizioni della specifica legislazione di settore, con riferimento all’aspetto specifico della pratica commerciale da questa disciplinato. Ciò è il caso, ad esempio, della disciplina relativa alle informazioni contrattuali (art. 70 CCE), del diritto di recesso in caso di modifica delle condizioni contrattuali (art. 70, comma 4 CCE), della trasparenza informativa (art. 71 CCE), della portabilità del numero (art. 80 CCE), nonché del Regolamento (UE) 2015/2120, nella misura in cui recano disposizioni che hanno lo status di diritto dell’Unione e disciplinano un aspetto specifico delle pratiche commerciali.

4. L’applicazione del Codice del Consumo non è esclusa di per sé semplicemente perché un’altra disposizione comunitaria regola aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette. In particolare, il Codice del Consumo è suscettibile di assumere rilevanza al fine di valutare specifici aspetti della pratica commerciale non coperti dalle disposizioni di settore come, a titolo esemplificativo, condotte aggressive da parte del professionista.

È ben vero che a tale assetto sono seguite ulteriori evoluzioni giurisprudenziali delle quali il Collegio è ben consapevole.

All’esito delle suddette pronunce del 2012 si è avuta la conseguente apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia da parte della Commissione Europea, ed, a partire da essa è individuabile una seconda fase, coincidente con una rilevante modifica normativa e con un’ulteriore pronuncia nomofilattica del Consiglio di Stato.

Invero, l’introduzione nel corpus dell’art. 27 Cod. Consumo del comma 1 bis ad opera del D.Lgs. n. 21 del 2014 ha comportato che “anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3 dello stesso decreto, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente;
resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta;
le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze.” In ragione dell’apertura della procedura di infrazione e del consequenziale intervento normativo teso ad ovviarvi, si è resa necessaria un’ulteriore sentenza dell’Adunanza Plenaria (n. 3 del 2016), che ha segnato il passaggio dal criterio della “specialità per settori” a quello della “specialità per fattispecie”. Impiegando ancora una volta concetti squisitamente penalistici, tale pronuncia ha fatto ricorso al criterio di assorbimento o consunzione, avversato dai seguaci della prevalente impostazione monista ma sostenuto dalle tesi di stampo “pluralistico”: i fautori delle stesse, invero, ritengono di poter risolvere i casi di concorso apparente servendosi di ulteriori criteri oltre a quello di specialità, criteri che, ancorché non codificati, rispondono a logiche di equità e di giustizia sostanziale. Ricordando il meccanismo operativo del principio, id est l’assorbimento della fattispecie che esprime il minor disvalore nell’alveo della fattispecie maggiormente “ricomprensiva” secondo una logica di progressione criminosa, la Plenaria del 2016 ha ritenuto di poter risolvere il caso concreto sottopostole, (consistente in una pratica commerciale aggressiva attuata tramite la violazione di obblighi informativi da parte di un operatore di telefonia mobile), applicando il criterio della “specialità per fattispecie”, risolvendo, dunque, il conflitto in favore dell’operatività della normativa sulle pratiche commerciali scorrette;
difatti, nell’ottica del Supremo Consesso, “la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall’Autorità garante per le comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall’Autorità Antitrust”, sicché si realizza una progressione criminosa tale da determinare l’assorbimento di una fattispecie concreta nell’altra. Se, quindi, la Plenaria del 2012 interpreta la locuzione “aspetti specifici” in chiave settoriale, la Plenaria del 2016 ragiona in termini di fattispecie concreta.

Si giunge così alla terza fase, con una pronuncia della Corte di Giustizia del 2018 (sentenza n. 54), nella quale il Giudice sovranazionale osserva come il termine “contrasto” rimandi ad una situazione di vera e propria incompatibilità normativa: il contrasto sussiste qualora disposizioni aliene alla direttiva 2005/29 disciplinino “aspetti specifici” delle pratiche commerciali scorrette, imponendo ai professionisti degli obblighi contrastanti con la predetta direttiva. Solo a tali condizioni, perciò, si potranno prefigurare margini operativi per le Autorità di settore: al di fuori dell’incompatibilità, il loro intervento è precluso da quello dell’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato.

È sulla scia delle riflessioni del Giudice europeo che si inserisce, allora, la sentenza del Consiglio di Stato n. 7296 del 2019, con la quale si propende per il definitivo abbandono dei criteri di specialità e di assorbimento, reputati poco consoni a dirimere il problema del riparto di competenze tra Autorità indipendenti nel campo delle pratiche commerciali scorrette, mal adattandosi alle regole di condotta che vengono in rilievo in subiecta materia.

Anche alla luce di tale criterio di incompatibilità (o complementarietà) la concreta fattispecie sottoposta al giudizio della Sezione conduce alla competenza dell’AGCOM in quanto in concreto l’Agcm non ha ritenuto di essere competente.

È chiaro infatti che se vi è incompatibilità prevale la disciplina di settore e manca il rischio di una sovrapposizione di procedimenti da parte delle Autorità indipendenti. Ed invero, in questo caso non ci si trova dinanzi a pratiche commerciali scorrette, bensì di fronte a una disciplina che si pone in chiara antitesi rispetto a quella generale: ciò giustifica l’intervento dell’Autorità di settore.

Viceversa, laddove non vi è incompatibilità ma complementarietà delle due discipline ( come nella maggior parte dei casi di rapporto fra codice del consumo e disciplina delle comunicazioni ), significa che, di norma, prioritariamente, vengono in rilievo pratiche commerciali scorrette, suscettibili di essere sanzionate solo ed esclusivamente dall’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato in via generale poiché :

mai l’Autorità di settore è competente ad applicare la generale disciplina consumeristica ma solo le fattispecie di settore e

mai può duplicare la sanzione ove sia già intervenuta la sanzione consumeristica che assorbe quella di settore.

Ragion per cui, se per ipotesi l’Autorità di settore dovesse comminare una sanzione per una condotta che è stata già censurata dall’Antitrust, tale sanzione sarebbe senza dubbio illegittima, dacché l’Autorità di settore non era competente ad intervenire.

Diverso è il caso tuttavia in cui l’Antitrust abbia ritenuto di non aver spazio di intervento con la disciplina generale consumeristica, lasciando la competenza all’intervento complementare dell’AGCOM ( effettuato sulla base dell’art. 3 del PNN piano di numerazione nazionale All. A delibera 52 /12 CIR ) sia pure in assenza di incompatibilità che veda la prevalenza astratta della disciplina di settore (ed altresì in assenza di una impugnazione della determinazione di declinatoria di competenza da parte di Agcm).

In questo caso vale la disposizione dell’art. 27 comma 1-bis del d.lgs. n. 206 del 2005 nella parte in cui recita:

“Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”.

Nel caso di specie infatti è stata AGCM a trasmettere ad AGCOM le denunce chiedendole di intervenire su di esse. Non si pone, pertanto, il problema del possibile conflitto di competenza perché AGCM aveva declinato la propria competenza, circostanza che escludeva anche la possibilità che potesse sorgere in astratto una violazione del principio del “ ne bis in idem ” ( vera ragione d’essere di tutte le regole di riparto prima ricordate quale oggetto di progressivo affinamento ).

I principi del rapporto tra discipline (generale o di settore) vale quando vi sia il rischio che ogni Autorità affermi la propria competenza, ma non nel caso, come quello di cui si discute, in cui una Autorità afferma esplicitamente di non avere competenza rimettendo le denunce ad altra Autorità ritenuta competente.

Quando l’Autorità avente competenza generale ha già valutato di non essere competente ed esiste una normativa speciale il problema del concorso di norme in concreto non si pone e non può quindi essere sollevato dalla parte privata ( salvo che sia impugnato l’atto di declinatoria di competenza dell’Autorità avente competenza generale cosa non avvenuta nella specie ).

Ne risulta un sistema per cui – nel concorso di norme – in caso di complementarietà delle discipline consumeristiche e di settore, prevale la disciplina Antitrust unica competente ( ciò significa in via esclusiva ) a sanzionare sulla base del codice del consumo ( escludendosi per tal verso la competenza AGCOM in materia di pratiche commerciali scorrette ) sempre che si ritenga sussistente una pratica commerciale scorretta a carico del soggetto sanzionato.

In questo caso la sanzione consumeristica assorbe quella di settore.

La competenza, ove sussistente ed esercitata, assorbe quella di settore che non sia incompatibile ( arg. art. 19 del codice del consumo ed art. 27 cit.).

Nel caso di disciplina di settore incompatibile con quella generale consumeristica prevale la disciplina di settore ( lo stabilisce l’art . 19 comma 3 del codice del consumo ) : “in caso di contrasto ( da intendersi come incompatibilità ), le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”.

In ogni altro caso ( come quello in esame in cui vi sia complementarietà con mera specialità della disciplina di settore ) “resta ferma” la disciplina di settore a fronte di competenza Agcm non esercitata o non esercitabile in ragione del caso concreto ossia ogniqualvolta non vi sia rischio di bis in idem ( ivi compreso il caso in cui l’Antitrust – ritenuto in una prima fase astrattamente competente ad agire in principalità abbia – erroneamente o no – declinato la propria competenza e tale atto non sia stato impugnato in giudizio o tale astratta riconducibilità alla pratica commerciale scorretta non sussista).

Trattandosi al più di violazione di uno specifico dovere di vigilanza da parte di Telecom in relazione alla numerazione l’Antitrust ha ritenuto non ricorrente la fattispecie generale. Ne consegue la competenza di AGCOM sul piano residuale come prima illustrato.

L’accoglimento del motivo di appello assorbe la richiesta formulata in subordine dall’appellante di rimessione della questione interpretativa pregiudiziale.

2. Occorre ora analizzare i motivi ritenuti assorbiti in primo grado per l’eventualità che l’appello di AGCOM venga accolto.

3. Con il secondo motivo di ricorso assorbito in primo grado e riproposto in appello Telecom aveva eccepito: « In subordine. Incompetenza, sotto ulteriori profili. Violazione e falsa applicazione delle direttive 2005/29/CEE e 2002/22/CE, degli artt. 20, 21 e 22 del Codice del Consumo, del PNN di cui all'allegato A alla delibera n. 52/12/CIR. Eccesso di potere per carenza dei presupposti, contraddittorietà dei provvedimenti e per violazione del principio del ne bis in idem ».

Si sosteneva che, anche nell’ipotesi le modifiche apportate dal d.lgs. n. 21/2014 fossero ritenute non applicabili al caso di specie, i provvedimenti adottati dall'AGCOM sarebbero in ogni caso illegittimi per contrasto con l'ordinamento dell'Unione Europea che impone, proprio al fine di evitare sovrapposizioni fra disposizioni sanzionatorie volte a reprimere le medesime condotte, di dare sempre prevalenza alle disposizioni generali in materia di tutela del consumatore rispetto a eventuali disposizioni speciali di settore.

3.1 Il motivo è infondato alla luce di quanto affermato in precedenza.

Nella specie non si pone un problema di prevalenza o di contrasto tra discipline perché AGCM aveva declinato la propria competenza.

Per la stessa ragione non si pone un problema di possibile violazione del principio del “ ne bis in idem ”.

4. Con il terzo motivo di ricorso assorbito in primo grado e riproposto in appello Telecom aveva eccepito: « In ulteriore subordine. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 co. 3 del PNN, nonché dell’art. 98, co. 1,1 del d.lgs. n. 259/2003. Eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, disparità di trattamento, contraddittorietà fra provvedimenti, irragionevolezza e sviamento dal fine ».

Telecom sostiene che:

- il provvedimento impugnato sarebbe comunque illegittimo per l’assoluta inconfigurabilità nel caso di specie di qualsiasi profilo di responsabilità in capo a Telecom rispetto ai fenomeni fraudolenti che hanno caratterizzato il servizio MySoftPack;

- nella fornitura di servizi premium su numerazioni in decade 4, Telecom svolge un ruolo di mero Serving Provider (“SP”), ovvero di soggetto che consente al Content Service Provider (“CSP”), titolare esclusivo dei contenuti del servizio a sovrapprezzo che viene distribuito, la commercializzazione del servizio stesso;

- i compiti attribuiti a Telecom dal quadro normativo e regolamentare vigente, e, nello specifico, dall’art. 3 del PNN, si limitano, quindi, a quelli di mera vigilanza, “a monte”, in fase di autorizzazione, e “a valle”, in fase di commercializzazione, sulla corretta gestione del servizio da parte del soggetto titolare dei diritti d’uso della numerazione sulla quale viene erogato il servizio a sovrapprezzo;

- tali compiti sono stati pienamente soddisfatti dall’odierna ricorrente in relazione al servizio MySoftPack;

- già in fase autorizzatoria, Telecom ha espletato tutte le verifiche di compatibilità del servizio con il quadro regolatorio;

- tali verifiche, dato il ruolo di SP svolto da Telecom, sono state basate sulle informazioni presenti nella “scheda servizio” fornita da Netsize e hanno condotto l’odierna ricorrente a riscontrare la piena conformità del servizio MySoftPack alle prescrizioni dettate tanto dalla Delibera 52/12/CIR quanto dalle Linee Guida per i servizi a valore aggiunto;

- il processo di verifica si è concluso con un’autorizzazione alla commercializzazione del servizio esclusivamente via SMS;

- le stesse segnalazioni citate dall'Autorità sono la prova oggettiva della correttezza dell'attività di verifica svolta da Telecom;
infatti, delle 137 denunce che hanno dato origine al procedimento, la gran parte (circa 127) riguardano un canale mai autorizzato, ovvero il web, mentre un numero molto esiguo (circa 10) sono riferibili ad attivazioni avvenute con il canale SMS, cioè quello autorizzato;

- proprio il fatto che l’autorizzazione al servizio MySoftPack sia stata fornita solo per la commercializzazione via SMS dimostra chiaramente che, nella successiva fase di gestione, Telecom non avrebbe avuto alcun modo di riscontrare eventuali criticità sul servizio stesso in danno della clientela, perché i controlli attivabili non avrebbero potuto che riguardare il solo canale autorizzato, senza in alcun caso coinvolgere il web, dove è avvenuta la quasi totalità di attivazioni non richieste;

- le presunte attivazioni non richieste del servizio MySoftPack sono riferibili a un fenomeno fraudolento perpetrato ai danni dei consumatori e all'insaputa di Telecom, che ne è venuta a conoscenza, solo a seguito della richiesta di informazioni di AGCM, senza che le possa essere imputato alcun difetto di vigilanza;

- ciò è dimostrabile anche attraverso un altro dato di fatto: le procedure di attivazione dei servizi a valore aggiunto prevedono che a ogni attivazione di un nuovo cliente, nel flusso di richiesta verso i sistemi di Telecom, il CSP sia tenuto a riportare il canale di attivazione del servizio. Da parte di Telecom, ogni richiesta è verificata per confermare che il canale sia conforme a quanto previsto nella scheda servizio configurata nei sistemi;

- rispetto a MySoftPack, Netsize non solo ha omesso di definire correttamente le modalità di attivazione nel momento del lancio commerciale del servizio, ma successivamente ha anche dovuto “valorizzare” in modo non anomalo le richieste di attivazione per i singoli clienti;

- sempre riguardo all'insussistenza di qualsiasi culpa in vigilando imputabile a Telecom, va, altresì, considerato che il numero di reclami rilevati dal servizio clienti di Telecom nel periodo marzo-luglio 2013 sul servizio MySoftPack non è stato tale da evidenziare l'insorgenza di un fenomeno di particolare gravità che giustificasse un'attività straordinaria di controllo verso il CSP, nè tantomeno azioni a difesa della clientela;

- nel periodo in questione Telecom ha ricevuto circa 125 reclami/segnalazioni (25 al mese) su un totale di circa 18 mila attivazioni del servizio MySoftPack dalla commercializzazione alla chiusura dello medesimo (luglio 2013);

- tale rapporto corrisponde a un tasso di reclamo mensile pari allo 0,1%, che non può di per sé essere considerato fonte di allarme o di criticità tale da giustificare particolari ed eccezionali azioni a difesa della clientela;

- non è in alcun modo configurabile a carico di Telecom un comportamento negligente, avendo essa sia approntato procedure di controllo che sono state rigorosamente seguite nel caso di specie, sia verificato costantemente con la propria controparte contrattuale - alla quale Telecom aveva oltretutto uno specifico obbligo di controllo nei rapporti contrattuali con quest'ultima - la regolarità del servizio;

- posto che Telecom non aveva alcuna possibilità di controllare canali di attivazione diversi dagli SMS contrattualmente previsti, non avendo oltretutto alcun rapporto con il CSP, non si comprende quale comportamento alternativo lecito potesse attendersi tale da giustificare la sanzione irrogata;

- se tali elementi di per sé giustificherebbero l'annullamento dei provvedimenti impugnati, l'illegittimità di essi è ulteriormente aggravata dalla circostanza che AGCOM ha adottato un criterio di responsabilità sostanzialmente oggettiva nei confronti di Telecom, mentre ha archiviato il procedimento sanzionatorio parallelo aperto nei confronti di Netsize dando adeguato rilievo alla circostanza che essa – unico soggetto ad avere rapporti con il CSP Fulltime Limited – si trovava nell'impossibilità di effettuare qualsiasi verifica;

- tale inspiegabile disparità di trattamento e contraddittorietà di parametri di valutazione non possono che condurre ad un integrale annullamento della sanzione irrogata.

4.1 Il motivo è infondato.

La Sezione, in fattispecie analoghe, ha affermato la responsabilità del Service Provider titolare di numerazione qualificandola come culpa in vigilando e non come responsabilità oggettiva.

In particolare, Cons. Stato, sez. VI, 26/04/2022, n. 3151 ha statuito quanto segue: « L'Autorità ha fatto legittima applicazione delle disposizioni regolatorie che impongono a carico dei titolari delle numerazioni l'onere di diligenza relativo alla predisposizione di tutte le cautele necessarie ad evitare che le numerazioni possano essere utilizzate con modalità difformi dalle previsioni normative. La delibera n. 26/08/CIR prevede che: "[i] soggetti titolari di diritti d'uso di numerazione sono responsabili del corretto utilizzo della numerazione loro assegnata in conformità con le prescrizioni del presente piano (enfasi aggiunta). Tali operatori sono pertanto tenuti a garantire, con il costante impiego della massima diligenza possibile, la conformità dei servizi offerti alle prescrizioni del presente provvedimento e ad ogni altra normativa pertinente alle numerazioni di cui sono titolari dei diritti d'uso" (art. 3 comma 3);
aggiungendo che "in ogni caso, è fatto divieto, oltre che ai soggetti assegnatari di numerazione, anche ai soggetti che offrono servizi su numerazioni messe a disposizione dagli operatori ed agli utenti finali di utilizzare le numerazioni in maniera difforme da quanto definito nel presente piano di numerazione, sia con riferimento ai servizi svolti sulle numerazioni sia per quanto riguarda la struttura stessa della numerazione [...]" (art. 3, comma 4).

Dalle disposizioni richiamate l'Autorità ha correttamente tratto un'ipotesi di responsabilità per culpa in vigilando (e non di tipo oggettivo per fatto altrui) dell'assegnatario. Da tali obblighi pubblicistici di vigilanza e sorveglianza non è possibile spogliarsi invocando semplicemente le clausole dei contratti di cessione in uso dei numeri di Eutelia ai centri servizi, in cui questi ultimi si assumevano la responsabilità del corretto utilizzo della numerazione ».

Nella sentenza richiamata, il Consiglio di Stato ha ravvisato in capo all’operatore titolare della numerazione un omesso obbligo di vigilanza sul corretto utilizzo della medesima da parte dei soggetti autorizzati al suo utilizzo.

Nel caso scrutinato in questa sede viene in rilievo l’Allegato A alla delibera n. 52/12/CIR (Piano di numerazione nel settore delle telecomunicazioni e disciplina attuativa), richiamato espressamente nell’atto impugnato che recita (art. 3, comma 3): « I soggetti titolari di diritti d’uso di numerazione sono responsabili del corretto utilizzo della numerazione loro assegnata in conformità con le prescrizioni del presente piano. Tali soggetti sono pertanto tenuti a garantire, con il costante impiego della massima diligenza possibile, la conformità dei servizi offerti alle prescrizioni del presente provvedimento e ad ogni altra normativa pertinente alle numerazioni di cui sono titolari dei diritti d’uso, fatta salva la responsabilità che le norme in materia di pubblicità e televendite attribuiscono ad altri soggetti. I titolari dei diritti di uso informano i soggetti che offrono i servizi su numerazioni da loro messe a disposizione sulle norme da rispettare per il corretto utilizzo delle stesse numerazioni. Nelle previsioni contrattuali tra titolare dei diritti d’uso e fornitore di servizio deve essere prevista, tra l’altro, la chiusura immediata dell’offerta di servizio a seguito di violazione accertata da parte dei competenti organi ».

La società Telecom non poteva limitarsi, a monte, all’approvazione preventiva di una scheda sui contenuti potenzialmente trasmissibili, ma doveva spingersi a valle, esercitando un controllo sui contenuti effettivamente trasmessi.

Correttamente l’atto impugnato rileva che « La violazione contestata, invero, oltre ad aver riscontrato un fondamento normativo (articolo 3, comma 3, del PNN), è stata avvalorata anche dalle condizioni negoziali vigenti al momento della commissione del fatto. Nell'accordo sottoscritto tra Telecom Italia ed Ericsson Telecomunicazioni S.p.A. (poi divenuta IPX Italia e oggi Netsize), infatti, è espressamente contemplato in capo a Telecom un potere di controllo attivo e diretto sui contenuti ed i servizi offerti sulle proprie numerazioni (cfr, art. 8.1);
la stessa, peraltro, fa salvo il proprio potere di inibire, temporaneamente e/o definitamente ed in qualsiasi momento, l'accesso degli utenti ad uno o più contenuti/servizi nel caso in cui venga riscontrato un uso improprio delle numerazioni o la violazione, anche reiterata, dei principi indicati dall'accordo (inclusi i documenti a tutela dei consumatori) e dalla normativa vigente. Telecom, quindi, sia sul piano normativo che contrattuale, era tenuta a compiere le necessarie attività tecniche per consentire la fruibilità dei servizi premium da parte di tutti gli utenti, nonché a rispettare gli oneri di vigilanza sugli utilizzatori delle proprie numerazioni (in specie, in decade 4)
».

Condivisibili sono le ragioni poste a base dell’atto impugnato. Compresa la considerazione che la complessità delle attività di monitoring descritte dall'operatore, non può ridursi, come avvenuto nel caso in esame, nella sola preliminare approvazione della scheda di servizio presentata dal Content Provider , tanto da escludere, ab origine, ogni altro adempimento successivo. E che non può non rilevare che, nella catena del valore, una cospicua parte degli introiti derivanti dalla commercializzazione dei VAS restano di competenza dell'operatore in veste di titolare della numerazione e di Access Provider .

Infondata è anche la censura di disparità di trattamento. Come chiarito da Cons. Stato, sez. IV, 05/06/2023, n. 5464, la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento è riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato, situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato, con la precisazione che la legittimità dell'operato della Pubblica Amministrazione non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione.

5. Per le ragioni esposte l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere rigettato il ricorso proposto in primo grado.

Data la novità della questione, sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

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