Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2014-04-16, n. 201401860

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2014-04-16, n. 201401860
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201401860
Data del deposito : 16 aprile 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 05129/2011 REG.RIC.

N. 01860/2014REG.PROV.COLL.

N. 05129/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5129 del 2011, proposto da:
Ditta Amore di Laggia Alfredo &
C. s.a.s., rappresentata e difesa dagli avv.ti F Z, A T e M E V, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, via Barnaba Tortolini 13;

contro

Comune di Venezia, rappresentato e difeso dall'avv. N Paoletti, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Tortolini 34;

nei confronti di

Consorzio per la Ricerca e La Formazione (Coses);

per la riforma

della sentenza del T.A.R. VENETO, SEZIONE III, n. 06450/2010, resa tra le parti, concernente diniego di autorizzazione all’apertura di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Venezia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 marzo 2014 il Cons. Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati Zambelli e Paoletti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. La ditta Amore di Laggia Alfredo &
C. s.a.s. (in prosieguo ditta Amore), appella la sentenza del TAR Veneto, indicata in epigrafe, con la quale, per quanto qui ancora di interesse, è stata respinta la sua impugnativa nei confronti del diniego di autorizzazione all’apertura di un esercizio pubblico di somministrazione e bevande (bar) nel sestiere San Marco di Venezia, oppostogli dall’amministrazione comunale con determinazione dirigenziale del 4 giugno 2008, n. 238874.

Detto provvedimento veniva emanato in esecuzione dell’ordinanza di questo Consiglio di Stato n. 1751 del 1° aprile 2008, di accoglimento dell’istanza cautelare proposta dalla società ricorrente avverso un primo diniego (determinazione del 22 agosto 2007, n. prot. 348529), e si esprimeva in senso contrario all’apertura dell’esercizio commerciale in applicazione dell’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, con la quale il Comune di Venezia aveva previsto che nel sestiere di San Marco avrebbero potuto essere rilasciate nuove autorizzazioni solo in caso di cessazioni di identici titoli precedentemente rilasciati, evenienza che nel caso di specie non si era verificata.

2. Contro questo nuovo diniego la ditta Amore proponeva un primo atto di motivi aggiunti, respinti dal TAR con il capo della sentenza in epigrafe investito dal presente appello, nel quale sono riproposti anche i secondi motivi aggiunti, diretti invece contro la delibera consiliare n. 117 del 6 ottobre 2009, recante i criteri di programmazione per l’insediamento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande in attuazione della l. reg. n. 29/2007, e la consequenziale domanda risarcitoria.

3. Si è costituito in resistenza il Comune di Venezia.

DIRITTO

1. Con il primo motivo la società appellante reitera la censura incentrata sul contrasto dell’ordinanza sindacale n. 384/2007, da un lato, con il giudicato formatosi sulla decisione di questa Sezione 21 giugno 2007, n. 3330 - resa in separato contenzioso ed avente ad oggetto altro regolamento comunale in materia di commercio (deliberazione consiliare 4 maggio 1993, n. 70) - dall’altro, con la precitata ordinanza cautelare n. 1751/2008, pronunciata invece nel presente giudizio.

La ditta Amore deduce al riguardo che l’ordinanza sindacale n. 384 riproduce il principio della programmazione e del contingentamento delle licenze di commercio, invece venuto meno, come stabilito con effetti erga omnes da questa Sezione nella predetta sentenza n. 3330/2007, per effetto dell’abrogazione tacita in parte qua della legge sui pubblici esercizi, n. 287/1991, ad opera del d.lgs. n. 114/1998 (“Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”)

2. Con il secondo motivo la società appellante ribadisce che il diniego impugnato viola i principi europei di libera concorrenza ed apertura del mercato, recepiti dalla legislazione nazionale (artt. 2 e 4, d.lgs. n. 114/1998, sopra citato, e 3 d.l. n. 223/2006 (“Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale”), come rilevato anche dal Garante per la concorrenza ed il mercato, con specifico riguardo alla Regione, nella segnalazione al Parlamento ed al Governo AS339 del 7 giugno 2007.

3. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente essendo parzialmente connessi, non sono fondati.

4. Con specifico riguardo al primo, non sussiste innanzitutto alcuna violazione del giudicato cautelare di cui all’ordinanza di questa Sezione n. 1751 del 1° aprile 2008.

Ciò non tanto perché - come sostenuto dal TAR e dall’amministrazione appellata – il remand in essa contenuto non sia suscettibile di conformare il riesercizio del potere amministrativo nella direzione conseguente alla sommaria delibazione della fondatezza del ricorso sotteso all’ordinanza cautelare, e di condurre alla dichiarazione di nullità del provvedimento amministrativo che da tale vincolo conformativo si discosti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 21- septies l. n. 241/1990 e 114, comma 4, lett. c), cod. proc. amm. (in questo senso cfr. la sentenza di questa Sezione 7 giugno 2013, n. 3133).

Quanto perché l’impugnativa rispetto alla quale la suddetta domanda cautelare è stata proposta risulta coperta dal giudicato.

Più precisamente, l’ordinanza n. 1751 del 1° aprile 2008 è stata resa da questa Sezione sulla domanda di sospensione degli effetti del primo diniego (determinazione del 22 agosto 2007, n. prot. 348529), impugnato dalla ditta Amore davanti al TAR Veneto con il ricorso originario, dichiarato poi da quest’ultimo improcedibile, per effetto del riesercizio del potere, con statuizione non qui appellata dalla predetta società.

Pertanto, in conseguenza del formarsi del giudicato interno si è determinata l’automatica caducazione di tale ordinanza propulsiva, secondo il noto principio dell’assorbimento della pronuncia cautelare, quale ne sia il contenuto, in quella che definisce il merito della domanda cui accede, attesa la natura accessoria, interinale e continente della tutela cautelare medesima (cfr. ad. plen. n. 6 del 1978;
n. 17 del 1984;
n. 3 del 2003).

5. Non è nemmeno ravvisabile alcuna violazione dell’art. 21- septies , in relazione alla sentenza di questa Sezione n. 3330/2007, ancorché – anche in questo caso - per ragioni diverse da quelle ritenute dal TAR.

Può in primo luogo certamente convenirsi con quest’ultimo, laddove afferma che occorre distinguere gli effetti cassatori e gli effetti conformativi del giudicato amministrativo di annullamento di un atto di carattere generale. E’ infatti incontestabile che l’effetto ultra partes di detto giudicato può predicarsi esclusivamente con riguardo alla prima tipologia di effetti, mentre l’obbligo di riesercitare il potere giudicato illegittimo entro i limiti derivanti dall’accoglimento dell’impugnativa, coercibile mediante l’azione di ottemperanza, può essere fatto valere solo dalla parte che abbia vittoriosamente esperito quest’ultima.

Come questo Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare ripetutamente, il suddetto effetto ultra partes non discende da una dilatazione dei limiti soggettivi del giudicato sanciti dall’art. 2909 cod. civ., ma altro non è che un riflesso della natura generale ed inscindibile dell’atto impugnato, gli effetti del cui annullamento non sono circoscrivibili alle sole parti del giudizio di cognizione, salvo che le situazioni soggettive da esso discendenti si siano esaurite, “essendosi in presenza di un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri” (da ultimo, Sez. VI, 29 marzo 2013, n. 1850).

Il Collegio non intende smentire questa regola, la quale per giunta ha ora ricevuto una conferma di diritto positivo, consistente nella norma contenuta nell’art. 112, comma 1, cod. proc. amm., a tenore della quale “I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti” . E’ dunque pacifico che l’obbligo di attuare correttamente il giudicato possa configurarsi esclusivamente nell’ambito di questa relazione soggettiva. Inoltre, può sul punto ancora soggiungersi che, secondo un incontrastato indirizzo di questo Consiglio di Stato, logicamente conseguente a quanto finora detto, legittimati ad agire in ottemperanza sono “i soggetti che hanno rivestito la qualifica di parti nel giudizio deciso con la sentenza della quale si chiede l’esecuzione” (Sez. III, 15 aprile 2013, n. 2071, Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4633, Sez. V, 19 novembre 2009, n. 7249).

6. Nondimeno, il Collegio non condivide l’assunto della società appellante secondo cui l’ordinanza sindacale n. 384 - presupposta alla determinazione dirigenziale n. 238874 del 4 agosto 2008 di diniego - sia stata emanata in totale inosservanza del giudicato di cui alla sentenza n. 3330/2007.

Detto contrasto appare in effetti profilarsi con riguardo ai punti 1 e 3 del dispositivo di detta ordinanza, i quali prevedono, rispettivamente, che non saranno rilasciate nuove autorizzazioni se non in caso di cessazione di esercizi già autorizzati e che sono confermati i provvedimenti generali precedentemente adottati.

7. Vi è tuttavia un ulteriore aspetto, oggetto di specifico apprezzamento autonomo da parte dell’amministrazione, ed in particolare il punto n. 2, nel quale, richiamate le ragioni di tutela e salvaguardia del centro storico della città lagunare, si dispone che nel sestiere di San Marco “non possono essere comunque consentiti trasferimenti che comportino un aumento del numero di locali di somministrazione di alimenti e bevande, che rimangono fissati in quello attuale massimo di centosessanta” .

Si tratta infatti di un profilo che non è coinvolto nel giudicato di questa Sezione invocato dall’odierna appellante.

In questo si è affermato che il d.lgs. n. 114/1998 ha sancito il principio generale della libertà nell’intraprendere un’attività commerciale (art. 2), con specifica estensione al commercio al dettaglio (art. 4, comma 1, lett. “b”), e dunque, “senza possibilità di dubbio” , all’attività “della somministrazione di alimenti e bevande, che pertanto rientra a tutti gli effetti tra le attività commerciali” , conseguentemente ricavando la conseguenza dell’abrogazione tacita, per incompatibilità, del principio del contingentamento numerico delle autorizzazioni assentibili di cui alla l. n. 287/1991 sopra citata.

Ma la legislazione successiva, a partire dal d.l. n. 223/2006, per proseguire con la direttiva “Bolkestein” 2006/123/CE e relativa legge di recepimento (d.lgs. n. 59/2010), fino ai più recenti “salva Italia” (d.l. n. 201/2011, con l. n. 214/2011) e “cresci Italia” (d.l. n. 1/2012, conv. con l. n. 14/2012) hanno posto in rilievo il carattere preminente dei valori, di matrice costituzionale, di salvaguardia del patrimonio ambientale, storico-artistico e culturale, rispetto ai quali la libertà di concorrenza, cui tende la liberalizzazione delle attività commerciale, può subire limitazioni.

8. Il Collegio osserva al riguardo che già a partire dal ridetto d.lgs. n. 114/1998 si è inteso stabilire che gli interessi coinvolti da tale attività, che infatti non rientra tra quelle escluse dal campo di applicazione della normativa ai sensi dell’art. 4, comma 4, non possono essere regolate mediante strumenti di contingentamento dell’offerta, ma, ai sensi del successivo art. 6 (in particolare al comma 1, lett. “b” e “c”, nonché art. 34 della normativa regionale veneta sul commercio di cui alla l. reg. n. 29/2007) mediante una programmazione volta a contemperare le esigenze dell’impresa con quelle di sostenibilità ambientale e con la salvaguardia dei valori storico-artistici del contesto di riferimento, come oltretutto sarà reso manifesto anche dalla legislazione successiva, ed in particolare dalla direttiva “servizi” 2006/123/CE e dalla conseguente normativa interna di recepimento (d.lgs. n. 59/2010, in particolare l’art. 64, comma 3).

9. Tanto precisato, costituisce poi un fatto notorio (ai sensi dell’art. 115, comma 2, cod. proc. amm.) il pregio universale storico-architettonico-artistico-culturale del centro storico di Venezia. Alla luce di ciò questa Sezione ha ripetutamente affermato che l’amministrazione veneziana è titolare di poteri connotati da particolare ampiezza e ristretta sindacabilità a tutela e salvaguardia di detti valori ed allo scopo di “rendere maggiormente fruibili e di qualità gli indispensabili servizi pubblici connessi a tale inestimabile patrimonio” (sentenza n. 859 del 13 febbraio 2013, ed in precedenza, n. 824 del 4 marzo 2008).

Nella medesima linea si pone la costante giurisprudenza espressa dalla Corte costituzionale in relazione alla sopra richiamata legislazione successiva in materia di commercio (si ricordano tra le altre le sentenze n. 430 del 19 dicembre 2007, 19 dicembre 2012, n. 299, 22 febbraio 2013, n. 27, 15 marzo 2013, n. 38, 12 aprile 2013, n. 65).

Queste considerazioni sono ulteriormente avvalorate se si ha riguardo al sestiere di San Marco, oggetto dell’istanza autorizzativa, nel quale si pongono indiscutibili esigenze di sostenibilità ambientale e vivibilità della zona, a causa del massiccio flusso turistico richiamato dalla straordinaria bellezza monumentale ivi presente.

10. Sul punto va peraltro precisato che in memoria conclusionale la società appellante ha specificato che l’autorizzazione commerciale anelata non concerne la zona di maggiore attrattiva turistica di Venezia (la c.d. area “marciana”, comprendente piazza San Marco e le relative vicinanze).

Tuttavia di tale circostanza non si può tenere conto, perché inammissibilmente dedotta per la prima volta in sede di appello in violazione del divieto sancito dall’art. 104, comma 1, cod. proc. amm. e, per di più, in un atto processuale avente funzione meramente illustrativa del thema decidendum e probandum già cristallizzato.

11. Come inoltre già posto in rilievo dal giudice di primo grado, sono poi indiscutibili le peculiari caratteristiche del servizio che con detta attività viene offerto ed i potenziali riflessi dei prodotti ivi somministrati su profili di indiscutibile rilievo pubblicistico (come l’ordine e la salute pubblica ed il decoro urbano).

Tale aspetto legittima pertanto la competente amministrazione comunale ad emanare disposizioni a protezione degli ambiti urbani interessati da domande di apertura di esercizi di somministrazione e bevande.

Ne consegue che il profilo non coinvolto dal giudicato, costituente supporto motivazionale autonomo dell’ordinanza sindacale qui in contestazione, è rispondente alla legislazione di settore in materia commerciale, per cui deve essere respinto anche il secondo motivo d’appello.

12. Con il terzo motivo la società appellante ripropone le censure di ordine procedimentale già respinte in primo grado (violazione degli artt. 7, 8, 9, 10, 10-bis l. n. 241/1990), di erroneo riferimento, nel diniego impugnato, alla normativa regionale sopravvenuta (l. reg. n. 29/2007 “disciplina dell’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande”), nonché eccesso di difetto di istruttoria e motivazione con riguardo al contesto di mercato alla luce del quale l’istanza è stata respinta.

Si duole innanzitutto del mancato accoglimento della censura concernente l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, che il TAR ha fatto discendere del carattere vincolato del provvedimento.

Lamenta quindi l’omesso esame della censura di difetto di istruttoria e motivazione “con particolare riferimento alla mancata attualizzazione delle esigenze di mercato” e, più in generale “su quei particolari interessi di carattere generale, ritenuti (a torto) preminenti rispetto alla tutela della concorrenza” (pag. 34 dell’atto di appello), che invece avrebbe in ipotesi potuto sorreggere il contingentamento imposto dall’ordinanza sindacale n. 384/2007.

13. Questo motivo è fondato con riguardo alla censura di difetto di istruttoria e motivazione, potendo essere logicamente assorbite le restanti doglianze di ordine procedimentale.

Riprendendo le osservazioni da ultimo espresse a proposito dei primi due motivi d’appello, appare evidente che in assenza di un percorso istruttorio atto a rendere percepibile le ragioni secondo cui l’offerta commerciale esistente per il sestiere di San Marco all’epoca dei fatti era da ritenersi congrua, con l’ordinanza n. 384/2007 il Comune di Venezia abbia immotivatamente precluso all’odierna appellante il conseguimento del titolo abilitativo richiesto.

Quanto ora osservato si coglie nel passaggio motivazionale in cui si afferma quanto segue: “a tutt’oggi i locali di pubblico esercizio presenti sul territorio comunale sono in numero tale da soddisfare pienamente i bisogni di fruizione sia dei residenti che dei turisti, essendo i locali allocati in tutte le aree cittadine, in particolare lungo i percorsi turistici che si snodano nella città antica”, e che occorre perciò stabilire “una precisa quantità di locali di pubblico esercizio distribuiti in modo congruo” .

14. Il successivo diniego qui avversato risulta in ultima analisi la conseguenza di un sostanziale contingentamento del numero delle licenze di somministrazione di alimenti e bevande, essendo stata in questa sede apoditticamente assunta come variabile fissa il numero di 160 esercizi di somministrazione e bevande, in spregio alla sopra citata normativa nazionale di settore. In altri termini, a tutela delle preminenti esigenze di salvaguardia del sestiere San Marco si adduce un valore numerico riferito all’offerta di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, senza fornire ulteriori ragguagli atti a comprovare che detto numero costituisca la soglia massima di sostenibilità consentita (in linea con quanto invece affermato dalla giurisprudenza costante di questa Sezione, nelle sentenze 28 aprile 2011, n. 2536, 31 marzo 2011, n. 1973, 5 maggio 2009, n. 2808, e di primo grado: TAR Lombardia – Milano 10 ottobre 2013, n. 2271).

15. Con un quarto motivo la ditta appellante si duole della statuizione di inammissibilità del secondo atto di motivi aggiunti. Al riguardo l’appellante pone in rilievo di avere con essi impugnato la delibera consiliare n. 117 del 6 ottobre 2009, recante i criteri di programmazione per l’insediamento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande in attuazione della l. reg. n. 29/2007, nella parte in cui viene confermato il divieto di rilasciare nuove autorizzazioni commerciali nel centro storico veneziano, a fronte del proprio interesse in sede di riesercizio del potere autorizzatorio conseguente all’accoglimento dei precedenti motivi. Afferma al riguardo l’appellante che “la mancata impugnativa dello stesso (…) avrebbe vanificato un eventuale pronunciamento positivo del TAR Veneto prima, del Consiglio di Stato poi” (pag. 35 dell’atto di appello).

Quindi ripropone (con il quinto mezzo di gravame), i motivi aggiunti che si risolvono nella sola censura di omessa consultazione della commissione prevista dall’art. 2 l. n. 25/1996 (“Differimento di termini previsti da disposizioni legislative nel settore delle attività produttive ed altre disposizioni urgenti in materia”), evidenziando che l’art. 11 d.l. n. 223/2006 ha disposto la soppressione della (diversa) commissione di cui all’art. 6 l. n. 287/1991.

16. La statuizione di inammissibilità resa dal TAR con riguardo ai secondi motivi aggiunti merita piena conferma e dunque il motivo deve essere respinta.

E’ in primo luogo incontestato che la citata delibera n. 117/2009 è successiva al diniego qui impugnato e di essa non si fa infatti menzione alcuna in detto provvedimento, come già rilevato dal giudice di primo grado.

Il passaggio, sopra riportato, contenuto nell’atto d’appello rende poi palese l’interesse che sorregge l’impugnativa in questione si proietta al futuro riesercizio del potere in conseguenza dell’annullamento del diniego oggetto dei primi motivi aggiunti;
sotto questo profilo i secondi motivi, qui riproposti, sono inammissibili, sia per carenza di una lesione attuale della sfera soggettiva della ricorrente (cfr. sul punto le acquisizioni cui è pervenuta ad. plen. n. 9 del 2014), sia perché, surrettiziamente, sollecitano il giudice amministrativo a pronunciarsi su poteri non ancora esercitati in violazione del divieto sancito dall’art. 34, comma 2, cod. proc. amm.

In buona sostanza la ditta ricorrente sta dando per scontato che in sede di riesercizio del potere da parte dell’amministrazione comunale essa sicuramente rigetterà l’istanza di apertura dell’esercizio commerciale facendo applicazione della delibera del 2009 ed a tal fine si precostituisce un giudicato recante un particolare effetto conformativo del futuro esercizio della funzione pubblica.

17. Con il sesto e ultimo motivo l’appellante ripropone la domanda risarcitoria già formulata nei due atti di motivi aggiunti del giudizio di primo grado, in relazione alla quale chiede il ristoro della “perdita di guadagno” , che la ditta avrebbe potuto conseguire “vista la particolare posizione (sestiere San Marco) e tenuto conto dell’altissimo transito turistico cui è soggetta la città di Venezia, oltre alla perdita di chance” , oltre agli esborsi subiti per spese legali nel presente contenzioso. Per tali pregiudizi chiede che venga disposta una Ctu (pag. 37 dell’atto di appello).

Il motivo deve essere respinto per una pluralità di considerazioni.

In primo luogo perché il diniego è stato annullato per difetto di motivazione, il quale vizio pacificamente non contiene alcun accertamento in ordine alla spettanza del bene della vita coinvolto dal provvedimento impugnato (principio affermato dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato nella sentenza 3 dicembre 2008, n. 13, seguita in modo incontrastato dalla giurisprudenza successiva delle singole Sezioni: Sez. III, 25 febbraio 2013, n. 1137;
Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4439, Sez. V, 22 gennaio 2014, n. 318;
Sez. VI, 11 dicembre 2013, n. 5938).

In secondo luogo la domanda di ristoro deve essere respinta per radicale assenza di prova del danno lamentato.

A questo riguardo è il caso di ricordare che parimenti incontroversa è la regola giurisprudenziale secondo cui nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.). Quest’ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, comma 1, cod. civ. (in questo senso: C.d.S., Sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5453, 12 febbraio 2013, n. 848, 2 aprile 2012, n. 1957;
Sez. V, 21 giugno 2013, n. 2405).

Pertanto, è tra l’altro onere del privato danneggiato dapprima allegare che il fatto colposo dell’amministrazione ha causato (ex art. 1223 cod. civ.) pregiudizi alla propria sfera soggettiva, quindi specificarne la tipologia, ed infine fornirne la prova (in questi termini: Sez. VI, 14 luglio 2013, n. 4176, 27 giugno 2013, n. 3521).

Giova ancora evidenziare, con riguardo all’ultimo dei profili ora evidenziati, che la consulenza tecnica non può essere invocata per supplire a carenze in cui la parte supposta danneggiata è incorsa nelle attività processuali assertive e probatorie, giacché la stessa costituisce non già un mezzo di prova, bensì un mezzo di valutazione delle prove già ritualmente offerte dalla parte medesima.

19. In conclusione, l’appello deve essere accolto nei sensi sopra espressi. Stante la natura del vizio ritenuto fondato, restano salvi gli ulteriori provvedimenti, ad esito libero, dell’amministrazione comunale soccombente.

20. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

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