Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2019-10-02, n. 201906620

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2019-10-02, n. 201906620
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201906620
Data del deposito : 2 ottobre 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 02/10/2019

N. 06620/2019REG.PROV.COLL.

N. 08119/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso NRG 8119/2018, proposto da D S, rappresentato e difeso dall'avv. C R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

contro

l’Università degli studi Roma La Sapienza , in persona del Rettore pro tempore , rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

per la riforma

della sentenza del TAR Lazio, sez. III, n. 9594/2018, resa tra le parti e concernente il decreto del Rettore del 20 gennaio 2017 con cui non è stato riconosciuto, nel trattamento stipendiale del prof. S, l'assegno ad personam , già previsto dal decreto rettorale n. 1170 del 15 maggio 2014 e, in subordine, il risarcimento dei danni derivanti dall’annullamento di tal decreto n. 1170/2014;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Ateneo intimato;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 4 luglio 2019 il Cons. S M R e uditi altresì, per le parti, l’avv. Rossano e l’Avvocato dello Stato Andrea Fedeli;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. - Il prof. Diego S, già Consigliere parlamentare della Camera dei deputati, dichiara d’aver partecipato nel 2012 alla procedura selettiva, indetta dall'Università di Roma – La Sapienza con DR n. 4776/2011, a 74 posti di professori di ruolo di II fascia, relativamente al sett. conc. 12/E3 – sett. scient. disciplinare IUS/05, risultandone vincitore.

Approvati gli atti della procedura in forza del DR n. 4740/2012, il prof. S fu nominato, ai sensi degli artt. 18 e 29, co. 9 della l. 30 dicembre 2010 n. 240 e con decorrenza dal 1° marzo 2013, professore associato confermato per il predetto settore IUS/05, presso il Dip.to di Economia e diritto, sede di Latina – Facoltà di Economia.

2. – Il prof. S rende noto d’aver assunto informazioni dall’Ateneo, prima di decidere se rassegnare le dimissioni dall'Amministrazione della Camera dei Deputati ed in relazione alla rilevante differenza di trattamento retributivo tra il ruolo di Consigliere parlamentare e quello di professore associato, circa il nuovo trattamento economico e, in particolare, quale sarebbe stato l'assegno ad personam , corrispondente alla differenza tra le due retribuzioni.

Detta richiesta fu motivata perché, per le sue esigenze di vita e di famiglia ed essendo in procinto d’accendere un mutuo fondiario per l'acquisto della casa di prima abitazione, solo l’ottenimento di tal assegno avrebbe potuto consentire al prof. S l’assolvimento delle rate mensili del mutuo, ognuna delle quali superiori al trattamento mensile loro di base di docente universitario. Avendo l’ Ateneo assicurato l’erogazione dell’assegno ad personam , il prof. S si dimise dall'Amministrazione della Camera dei deputati e prese servizio presso l'Università il 30/12/2013. Con DR n. 1170 del 15 maggio 2014 (in parte rettificato dal DR n. 1589 del successivo 26 giugno), l'Università riconobbe al prof. S lo stesso livello retributivo, pari a € 143.591,80 annui lordi.

Accadde nondimeno che, con sentenza n. 8144 del 14 luglio 2016, il TAR Lazio, su ricorso di uno dei concorrenti a tal procedura selettiva, ne annullò gli atti ed il DR d’approvazione, in una con gli atti consequenziali, tra cui la nomina del prof. S. Sicché l’Ateneo attivò una nuova procedura di reclutamento di professore associato per il settore IUS/05, stavolta con chiamata diretta ai sensi dell'art. 29, co. 4 della l. 240/2010, mantenendo nelle more il prof. S nel ruolo attribuitogli, quale titolare dell'insegnamento e continuando a corrispondergli il relativo trattamento economico, comprensivo dell'assegno ad personam . Nel partecipare a tal procedura, il prof. S, con la sua nota collaborativa del 6 ottobre 2016, rese noti all’Ateneo quali sarebbero stati i notevoli danni economici che egli avrebbe subìto se, risultato egli nuovamente vincitore, non gli fossero conservati gli effetti giuridici ed economici prodottisi a seguito del servizio già prestato presso l'Università a far tempo dal 30 dicembre 2013 e tuttora in corso, invitando l’Ateneo stesso a valutare l'esigenza di mantenergli il livello stipendiale già riconosciuto mediante il citato assegno ad personam .

In esito a tal nuova procedura, con DR n. 2978 del 30 novembre 2016, il prof. S riottenne la nomina a professore associato “non confermato” presso lo stesso Dipartimento, a decorrere dal 1° dicembre 2016. Nel DR fu precisato che, con successivo provvedimento, sarebbe stato determinato il relativo trattamento economico. L'Università, però, non considerò la richiesta del prof. S e, col DR n. 216 del 20 gennaio 2017, gli assegnò il trattamento retributivo base, senza riconoscergli né il servizio continuativo svolto presso lo stesso Ateneo e nel medesimo ruolo fin dal 30 dicembre 2013 in poi, né tampoco l’assegno ad personam .

3. – Avverso tal statuizione, nella parte in cui non riconobbe detto assegno, il prof. S si gravò innanzi al TAR Lazio, col ricorso NRG 2527/2017, chiedendo in subordine il risarcimento del danno subito. Egli dedusse in punto di diritto:

a) l’erronea applicazione nei suoi confronti, da parte dell’Ateneo, dell’art. 1, co. 458 della l. 27 dicembre 2013 n. 147 —che abrogò l'art. 202 del DPR 10 gennaio 1957 n. 3—, perché ritenuto aver effetto retroattivo su tutti i rapporti di servizio, tra cui quello instaurato con lui, mentre detta norma avrebbe riguardato i rapporti di servizio instaurati dopo la sua entrata in vigore;

b) la costituzione del rapporto di servizio attoreo con l’Ateneo intimato da tempo anteriore alla l. . 147/2013, che lo mantenne fin dal 30 dicembre 2013, senza soluzione di continuità, saldandosi così con la nuova nomina a professore associato;

c) l’affidamento incolpevole ingenerato nel prof. S sulla spettanza dell'assegno ad personam ;

d) l’omessa considerazione, da parte dell'Università, delle richieste attoree, senza svolgere sul punto alcun’istruttoria, donde l’eccesso di potere sotto vari profili.

Nelle more del presente giudizio, la Sezione, su appello dell' Università e con sentenza n. 2012 del 23 febbraio 2017, annullò la sentenza del TAR Lazio n. 8144, dichiarando l'improcedibilità del ricorso di primo grado.

Con sentenza n. 9594 del 27 settembre 2018, l’adito TAR ha respinto il ricorso del prof. S, compresa la domanda risarcitoria, in quanto, essendo venuto meno dal 1° gennaio 2014 l'art. 202 del DPR 3/1957, l'assegno ad personam riassorbibile, per effetto dell'art. 1, commi 458 e 459 della l. 147/2013, non è più dovuto al ricorrente ed essendo «… di tutto ciò... puntualmente reso edotto l'interessato, col suindicato D.R. n. 1170 del 2014 (cfr. all. 7 al ricorso: “il predetto assegno personale sarà revocato, in applicazione dell'art. 1, commi 458, 459 della L. 147/13, a decorrere dal 01.02.2014 ), che non risulta per giunta nemmeno impugnato dal medesimo… nessun legittimo affidamento poteva essere maturato in capo …».

4. – Appella quindi il prof. S, col ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza per non aver colto:

1) – il senso della rettifica apportata al DR 1170/2014 dal DR 1589/2014, il quale, menzionato in sentenza e negli scritti difensivi di primo grado, stabilì l’attribuzione all’appellante di tal assegno ad personam senza più alcun limite di tempo, onde inutile sarebbe stato impugnare il decreto n. 1170 e ferma comunque l’irretroattività dell’art. 1, commi 458 e 459 della l. 147/2013 ai casi di passaggi tra diverse Amministrazioni (e non già di rientro alla P.A. di appartenenza) formatisi prima che tali norme entrassero in vigore;

2) – l’illegittimo assunto per cui non si sarebbe formato un affidamento incolpevole nell’appellante sul mantenimento di detto assegno, sol perché vi fu una mera continuità fattuale (in realtà, a quel tempo, in base a titoli diversi) nell’attività d’insegnamento;

3) – le altre doglianze proposte col ricorso di primo grado, in particolare l’irrilevanza della “nuova” nomina dell’appellante a professore associato venuta dopo l'entrata in vigore della l. 147/2013 ai fini della corresponsione di detto assegno, ché il di lui rapporto di servizio con l'Ateneo intimato s’era già instaurato in precedenza, per cui l'Ateneo non solo lo mantenne ininterrotto e costante fin dal 30 dicembre 2013, ma lo ritenne unico con quello successivo, tant’è che chiese al MIUR di anticipare la “conferma” nel ruolo, donde la contraddittorietà col diniego dell’assegno de quo ;

4) – l’irrilevanza, agli stessi fini, pure della chiamata diretta del S qual professore associato “non confermato” in data 1° dicembre 2016, che non ebbe effetto ora per allora sulla decorrenza della nomina (tant’è che per l'Università non vi fu soluzione di continuità) e che, quindi, avrebbe dovuto salvaguardare la di lui posizione stipendiale acquisita ab origine e da “riparametrare” con la retribuzione di Consigliere parlamentare (stante la ratio sottesa all'assegno ad personam , cioè l’incentivazione alla mobilità dei dipendenti pubblici);

5) – l’assenza d’un interesse pubblico specifico al mancato mantenimento di detto assegno a favore del prof. S, in relazione alle vicende relative al suo rapporto con l’Ateneo intimato;

6) – in via subordinata, la fondatezza della domanda risarcitoria a cagione: del danno, immediato e certo, discendente dalla colpevole illegittimità in cui incorse l’Ateneo intimato (addirittura ammessa nel relativo giudizio) nella procedura selettiva del 2011 e dal relativo annullamento —mentre l’appellante aveva confidato senza colpa nella correttezza di essa—;
del mancato riconoscimento di detto assegno a seguito della nuova nomina del prof. S (che ribadì e non elise tal danno);
della mancata considerazione della sentenza della Sezione n. 2012/2017, con conseguente reviviscenza della nomina originaria del prof. S a professore associato (valida, quindi, a tutti gli effetti, pure il predetto assegno ad personam ).

Resiste in giudizio l’Ateneo intimato, eccependo: a) – l’impossibilità della reviviscenza del rapporto di servizio primigenio col prof. S, per la sopravvenienza della nuova nomina del 1° dicembre 2016, effettuata ai sensi dell’art. 29, co. 4 della l. 240/2010, a diverso titolo e senza collegamento con la procedura comparativa annullata dalla sentenza n. 8144/2016;
b) – l’impossibilità di riconoscere, con tal nuova nomina, il trattamento ad personam a suo tempo concesso, poiché detta nomina è successiva all’entrata in vigore dell’art. 1, commi 458 e 459 della l. 147/2013, donde la doverosità del comportamento dell’Ateneo;
c) – l’insussistenza della continuità del rapporto del prof. S durante il giudizio sulla procedura selettiva del 2011, essendo stato egli mantenuto in servizio in forza dell’ordinanza cautelare della Sezione n. 4309/2016 e con corresponsione di detto assegno solo fino al 30 novembre 2016;
d) – l’impossibilità della retroazione del rapporto di servizio col prof. S al 1° marzo 2013, poiché la sentenza della Sezione n. 2012/2017 dichiarò improcedibile il ricorso al TAR contro la procedura selettiva del 2011 solo a causa dell’attività di riesame svolta dall’Ateneo e del conseguente nuovo assetto degli interessi in gioco, che determinò il superamento degli atti di quella procedura, a fronte, peraltro, dell’inoppugnabilità della nuova nomina dell’appellante;
e) – l’impossibilità di continuare a riconoscere al prof. S, quand’anche si volesse far rivivere la di lui nomina grazie alla sentenza n. 2012/2017, l’assegno ad personam a causa della nuova normativa ex art. 1, commi 458 e 459 della l. 147/2013, la cui immediata vigenza incide e modifica anche i rapporti di durata già sorti e non ancora esauriti (cfr. Cons. St., VI, nn. 1384 e 1385/2018);
f) – l’irrilevanza dell’incolpevole affidamento del prof. S, poiché nella specie la mancata integrazione salariale è dovuta unicamente all’abrogazione dell’istituto, disposta medio tempore per legge e nei cui confronti l’Ateneo non ha margini di discrezionalità.

Alla pubblica udienza del 4 luglio 2019, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio.

5. – L'Università intimata sostiene che la chiamata diretta del Prof. S a professore associato non confermato, avvenuta col DR 2978/2016, non potrebbe esser collegata alla precedente chiamata ad associato confermato, di cui al DR 728 del 28 febbraio 2013, data anche la diversità di posizioni funzionali, sì escludere qualunque continuità o unicità del servizio.

Non è così: fu proprio la stessa Università a riconoscere la continuità del servizio prestato dal prof. S fin dal 30 dicembre 2013 in poi. Invero, detto Ateneo, con la sua nota del 19 gennaio 2017, propose al MIUR di considerare utile il servizio prestato dall’appellante dalla primigenia nomina, ai fini della conferma nel ruolo di professore associato. Il MIUR, con nota del successivo 5 febbraio, autorizzò tal riconoscimento della continuità di servizio.

Sostiene inoltre l’Ateneo che non si sarebbe potuta verificare alcuna “reviviscenza” della procedura del 2011 (annullata dal TAR con la sentenza n. 8144/2016) grazie solo alla sentenza della Sezione n. 2012/2017 (che a sua volta annullò tal decisione). Tanto perché, a suo dire, dal 1 dicembre 2016 sarebbe mutato il titolo costitutivo del rapporto di servizio del prof. S, appunto a seguito della rinnovazione della procedura concorsuale.

In realtà l'Università non “rinnovò” specificamente la procedura annullata dal TAR, ma provvide a favore del prof. S con una nuova e diversa nomina, ossia la chiamata diretta ex art. 29, co. 4 della l. 240/2010. Sicché, venuto meno l'annullamento del primigenio concorso universitario ad opera della sentenza della Sezione n. 2012/2017, il prof. S si venne a trovare nella situazione in cui egli fu titolare di due nomine per lo stesso insegnamento, poiché avvenute con due procedure funzionalmente diverse.

Ma tal, per vero peculiarissima, vicenda fu ben diversa da quelle esaminate dalla giurisprudenza citata dall’Ateneo intimato, ove in effetti la P.A. rinnovò ab imis la stessa procedura concorsuale annullata in sede giurisdizionale. Basti pensare alla diversa incidenza che nella specie si è realizzata sull'assetto degli interessi in gioco delle parti. Invero la Sezione, con la sentenza n. 2012/2017, dichiarò improcedibile il ricorso di primo grado proposto dal prof. F, ché il di lui interesse all’annullamento della procedura selettiva del 2011 era già venuto meno grazie alla favorevole e satisfattiva attività svolta dall’Ateneo verso colui. Per contro, l’annullamento della sentenza del TAR n. 8144/2016, che a sua volta aveva annullato la primigenia procedura selettiva, esclude che essa continui a riverberarsi in senso negativo verso la posizione del prof. S. Questi, infatti, aveva confidato senza sua colpa sulla legittimità di tal procedura, donde l’ormai indebita soluzione di continuità nel di lui rapporto di servizio.

Non v’è dunque alcun reale interesse pubblico contrario alla possibilità che l’Ateneo, una volta fatti salvi aliunde (come in pratica è accaduto) gli interessi del prof. F e ormai annullata la sentenza del TAR n. 8144/2016, non ritenga validi o recuperi anche in parte gli atti della procedura selettiva del 2011, conservandone i relativi effetti, al fine d’evitare (o ridurre) i danni procurati ai docenti incolpevoli, tra cui il prof. S, dall’illegittimità di quegli atti che li riguardarono.

6. – Sostiene ancora l'Università che, quand’anche a seguito rivivesse il primo atto di nomina del prof. S —grazie all’effetto cassatorio della sentenza della Sezione n. 2012/2017—, non per ciò si potrebbe più continuare a riconoscergli l'assegno ad personam di cui godeva prima delle vicende testé menzionate. Sotto tal profilo, la tesi dell’Ateneo è corretta, stante proprio la retroattività dell’abrogazione dell’art. 202 del DPR 3/1957, disposta dal sopravvenuto art. 1, commi 458 e 459 della legge n. 147.

6.1. – È noto che l’art. 202 del DPR 3/1957, nel disciplinare la retribuzione del pubblico dipendente nei casi di passaggi di carriera presso la stessa o diversa P.A. datrice di lavoro, aveva stabilito il c.d. “trascinamento” del maturato retributivo a favore del dipendente transitato. Invero, «… agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica …».

Ora, l’art. 1, co. 458 della legge n. 147 previde che « L'articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall'incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità ». Dal canto suo, il successivo co. 459 dispose che « Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall'articolo 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall'articolo 5, comma 10-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 ».

L’Ateneo intimato basa la propria tesi sull’art. 1, co. 458 della l. 147/2013, come di recente inteso ed interpretato con le sentenze della Sezione nn. 1384 e 1385/2018, qui richiamate nelle sue note difensive. L’appellante contesta sul punto che i casi esaminati nei citati arresti della Sezione hanno riguardato il c.d. “rientro” nel posto di lavoro da cui provenivano di dipendenti, incaricati di altri compiti istituzionali in munera , uffici o Amministrazioni diversi da quello d’appartenenza.

Il Collegio non dura certo fatica a concordare con l’appellante che, sotto il profilo descrittivo, la di lui vicenda sia diversa da quella trattata nelle citate sentenze. Invero, il prof. S, già consigliere parlamentare presso la Camera dei deputati, in esito ad un apposito concorso passò alle dipendenze di un’altra P.A., ossia l’Università intimata. I casi esaminati dalla Sezione invece hanno riguardato sì la situazione di due docenti universitari, ma rientrati nei loro ruoli dopo l’incarico di componenti “laici” negli organi di autogoverno delle Magistrature. In tal ultima vicenda, il regime retributivo applicabile al pubblico dipendente è appunto quello posto dal co. 459, con cessazione immediata, cioè, d’ogni beneficio temporaneo e con la ricostituzione del suo ordinario trattamento stipendiale.

La ragione è chiara: la norma del co. 459 anzitutto fa un riferimento, il più ampio possibile —mercé l’uso dei sostantivi « ruolo » e « incarico »—, a compiti altri da sé rispetto al normale svolgimento del rapporto di lavoro subordinato ed assegnabili sì al pubblico dipendente e indirettamente correlati alla di lui figura professionale, ma eccezionali, distinti e non assimilabili al rapporto di servizio. La norma vuol poi impedire che l’effettuazione di tal ruolo o incarico, determini un’alterazione nociva ed irreversibile nell’ordinaria dinamica della retribuzione del dipendente stesso.

Tal ultimo scopo non è, nel sistema abrogativo delineato dall’art. 1, commi 458 e 459 della legge n. 147, limitato solo alle vicende testé descritte. Queste ultime sono (o, meglio, furono) certo anomalie del sistema, tali da snaturare la funzione perequativa del c.d. “trascinamento” e l’intento agevolativo che il citato art. 202 del DPR 3/1957 esercitava nell’incentivare la mobilità dei pubblici dipendenti tra le varie Amministrazioni. Ma l’efficacia abrogativa del co. 458 è complessiva, cioè non si limita a siffatte anomalie, poiché colpisce in toto l’art. 202 del DPR 3/1957 e non ammette né ultrattività, né tampoco regimi transitori, che in caso contrario snaturerebbero l’abolizione immediata d’ogni e qualunque effetto nocivo perdurante sui conti pubblici.

6.2. – Si potrebbe discettare sull’esistenza, in sé plausibile, d’un differente regime tra il co. 458 e la regola sulla cessazione, prevista dal co. 459 a far tempo dal 1° febbraio 2014, del “trascinamento” per le sole vicende espressamente indicate (ruoli o incarichi) nel II per. del co. 458.

A ben vedere, però, la differenza in questione, che traspare dai motivi d’appello, al più avrebbe un certo qual senso, ove il II per. del co. 458 si fosse limitato a parlare dei soli incarichi, quelli, sì, transeunti e giammai assimilabili al lavoro subordinato (p. es., proprio gli incarichi indicati nelle citate sentenze nn. 1384 e 1385 et similia ). Il riferimento della norma pure al ruolo, fa intendere che l’effetto abolitivo dell’art. 202, oltre che globale, è immediato anche per i casi del “trascinamento” ordinario, ossia di novazione soggettiva del rapporto di lavoro subordinato, la quale non è esente dalla retroattività di tal effetto.

6.2. – La differenza dell’arresto del 2016 e della posizione del prof. S, rispetto ai precedenti di questa Sezione (cfr. Cons. St., VI, 5 marzo 2018 n. 1384 – Spangher e n. 1385 – Stipo), non può esser più evidente.

Nel primo caso, si verificò una vicenda praticamente sovrapponibile a quella del prof. S, nelle altre due la pretesa di trascinamento stipendiale s’è incentrata, in capo sì a due docenti universitari, ma per incarichi esterni (componenti degli organi d’autogoverno delle Magistrature), per i quali non s’instaurano rapporti di lavoro subordinato, né tampoco procedure di mobilità.

Tal differenza rende in modo plastico il duplice regime, non si sa se strategico o puramente casuale, che dalla serena lettura dei commi 458 e 459 l’interprete non può non dedurre. L’un regime è quello abolitivo generale del divieto (solo) legislativo di reformatio in peius del trattamento retributivo dei lavoratori subordinati pubblici, abolizione che, però ed in presenza di eventuali risorse, di per sé sola non condiziona le scelte d’altro contenuto da parte dei CCNL per il personale contrattualizzato.

In ogni caso, le disposizioni di cui al ripetuto art. 1, commi 458 e 459, quand’anche trattino di due fattispecie distinte, hanno in comune la stessa efficacia retroattiva, pur se del peculiare tipo della retroattività c.d. “impropria”. Com’è noto, quest’ultima si verifica ove le norme sopravvenute regolano diversamente i tratti non esauriti dei rapporti di durata, a differenza della retroattività mera o propria la quale descrive il caso in cui il jus superveniens disciplini diversamente fattispecie costituitesi ed effetti integralmente compiutisi sotto la normativa previgente.

Ora, non è certo inibito al legislatore ordinario prevedere un siffatto schema di retroattività, che è poi proprio quello indicato dal co. 459 con espresso, specifico riguardo ai casi di cui al precedente co. 458, II per. Non sfugge al Collegio che, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 del secolo scorso, la Corte costituzionale ha qualificato l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e nella stabilità degli istituti giuridici quale « elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto » (sentenze n. 349/1985, n. 822/1988, n. 155/1990, n. 39/1993). Ma la Corte reputa che « nel nostro sistema costituzionale non [sia] interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, anche se il loro oggetto sia costituito da diritti soggettivi perfetti, salvo… il limite costituzionale della materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.) ». È evidente che tali «… disposizioni..., al pari di qualsiasi precetto legislativo, non possono trasmodare in un regolamento irrazionale e arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così anche l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica …» (sentenza n. 349/1985;
cfr., ex plurimis , pure le sentenze n. 416/1999, n. 446/2002, n. 264/2005, n. 409/2005, n. 24/2009;
n. 302/2010, n. 166/2012). Si badi, però, che l’affidamento si atteggia quale limite, sì generale ma non incondizionato, alla retroattività “propria” e “impropria” delle leggi, tant’è che può recedere al cospetto d’altre esigenze inderogabili o di pari rango costituzionale.

Pur nella varietà dei precedenti, è possibile rinvenire nella giurisprudenza della Corte indicazioni alquanto chiare sui parametri di riferimento per lo scrutinio di non arbitrarietà e ragionevolezza da operare in questi casi. In particolare, l’individuazione del limite oltre il quale i mutamenti normativi non possono incidere sull’affidamento ingenerato dal legislatore ordinario, nel mantenere un dato regime esistente ed efficace, è stato ricercato attraverso la verifica congiunta: A) - del fondamento della norma in contestazione;
B) - del grado di consolidamento dell’interesse dei privati a condurre i loro rapporti secondo il quadro normativo previgente;
C) - del quomodo del mutamento normativo, in termini di prevedibilità e proporzionalità tra il peso imposto ai destinatari della norma e il fine perseguito dal legislatore (cfr. da ultimo, le sentenza n. 16/2017 e n. 203/2016).

Anche la giurisprudenza della CEDU ha riconosciuto che le leggi ad effetto retroattivo sono di per sé compatibili col requisito di legalità previsto dalla norma convenzionale, purché l’incisione della proprietà privata (da intendersi come concetto giuridico estensivamente riferito a tutto il patrimonio del soggetto), oltre che legittima e diretta a perseguire un interesse pubblico, sia ragionevolmente proporzionata al fine che s’intende realizzare ( ex plurimis , sentenza 13 gennaio 2015, Vékony c. Ungheria, § 32;
sentenza 30 giugno 2005, J e altri

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