Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-06-25, n. 201004131
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N. 04131/2010 REG.DEC.
N. 09701/2001 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
Sul ricorso numero di registro generale 9701 del 2001, proposto da:
Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;
contro
N A, rappresentato e difeso dall'avv. S B, con domicilio eletto presso la stessa in Roma, piazza Verbano 8;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 05334/2001, resa tra le parti, concernente ottemperanza alla sentenza TAR Lazio n. 5334/2001.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 maggio 2010 il Cons. Armando Pozzi e uditi per le parti gli avvocati Bernardi e l'avv. dello Stato Ventrella;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso al TAR Lazio l’attuale appellato, dipendente del Ministero della Giustizia, chiese l’esecuzione del giudicato formatosi sulla sentenza dello stesso TAR n. 767/95, confermata dal Consiglio di Stato con decisione n 1556 del 19 ottobre 1999, passata in giudicato, la quale riconosceva il diritto del sig. N ad essere inquadrato nel profilo professionale di “collaboratore di istituto penitenziario” ( CIP ), con decorrenza 20-5-1993.
Con sentenza n. 5334/2001, depositata il 18 giugno 2001, il Tribunale Amministrativo ha accolto il ricorso per ottemperanza, ritenendo che sussistessero i presupposti per il suo esperimento in relazione alla citata sentenza dello stesso TAR, n. 767/96, dal momento che: a) la sentenza era ormai passata in giudicato per avvenuta conferma in grado di appello con decisione del Consiglio di Stato n.1556/1999; b) l’istante aveva notificato, il 17 e 18 maggio 2000, rituale diffida a provvedere, mettendo in mora il Ministero della Giustizia ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ai sensi dell’art. 90, del R.D. n. 642/1907, ed assegnando all’amministrazione il termine di 30 giorni per dare esecuzione alla sentenza; c) l’amministrazione non aveva provveduto ad eseguire la sentenza.
Il Giudice dell’ottemperanza, preso atto della perdurante inerzia dell’amministrazione, nonostante l’avvenuta diffida, in accoglimento del ricorso, ha ordinato all’amministrazione di provvedere:
1) all’inquadramento del N nel profilo di “collaboratore di istituto penitenziario” dal 20-5-1993, con la corresponsione del relativo trattamento economico commisurato a quello delle qualifiche di “vice commissario”, “commissario”, e “commissario capo” della Polizia di Stato; 2) al pagamento di quanto dovuto, comprensivo di interessi e rivalutazione dalla maturazione di ciascun rateo fino al saldo effettivo; 3) al pagamento delle spese di giudizio liquidate in sentenza.
Avverso la sentenza 5334/2001 del TAR ha proposto appello il Ministero, deducendo l’inammissibilità del ricorso per ottemperanza e la conseguente erroneità della sentenza che lo ha accolto, in quanto nelle decisioni di merito mai si era fatto cenno alle questioni retributive. L’inammissibilità del giudizio di ottemperanza deriverebbe, secondo l’Avvocatura dello Stato, dalle seguenti circostanze: a) il Ministero ha dato puntuale esecuzione alle sentenze di merito inquadrando l’appellato nel profilo da lui richiesto di collaboratore di istituto penitenziario, con decorrenza 20.5.1993;b) si sarebbe dovuto impugnare con rito ordinario il provvedimento di inquadramento per mancata indicazione del corrispondente trattamento economico;c) alle pretese economiche dell’interessato sarebbe di ostacolo l’articolo 41 della legge n. 449/1997, di interpretazione autentica dell’articolo 40 della legge n. 395 del 15.12.1990, anteriore al giudicato riguardante il dr. N.
Si è costituito nel presente grado di giudizio il dr. N per contestare la fondatezza dell’appello.
All’udienza del 30 giugno 2009 la causa è stata trattenuta in decisione.
Con sentenza interlocutoria n. 4814/2009 questa stessa Sezione ha ritenuto di dover acquisire la seguente documentazione: a) tutti i provvedimenti di inquadramento adottati nei confronti dell’appellato; b) le norme regolamentari e pattizie sulla base delle quali si è provveduto ad adottare i provvedimenti di status dell’appellato;c) copia del parere del CdA del Ministero del 13 aprile 1994;d ) copia perfettamente leggibile della sentenza del TAR Lazio n. 767 deI 1996.
Ai predetti incombenti l’amministrazione ha provveduto con nota di trasmissione del 16.9.2009.
All’udienza pubblica del 25 maggio 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1 - Il profilo di inammissibilità sollevato dall’Avvocatura dello Stato con riguardo all’avvenuto adempimento delle statuizioni di merito è infondato.
E’ pur vero che con provvedimento del 23 giugno 2000 l’amministrazione ha disposto che “Il Dr;N A, già Collaboratore Amministrativo Contabile, è inquadrato, a decorrere dal 20.5.93, nel profilo professionale di Collaboratore di istituto penitenziario, di corrispondente qualifica funzionale, ai sensi dell’art. 5 - comma 14 - del D.P.R. 17 gennaio 1990, n.44.
Si fa riserva di inserimento del medesimo nel relativo ruolo di anzianità.
Il presente decreto sarà trasmesso all’Ufficio Centrale del Bilancio per il visto di controllo”.
Tuttavia, la difesa erariale, con il suo stringato atto d’appello non ha dimostrato che alla data della proposizione del ricorso per ottemperanza e in quella sede l’amministrazione avesse già adottato il provvedimento citato ed avesse reso edotto l’interessato, prima, ed il TAR, poi, dell’avvenuta adozione.
2 - L’eccezione di inammissibilità, quindi, essendo sfornita di prova, va respinta.
Piuttosto, il Collegio deve dare atto, d’ufficio, non dell’inammissibilità ma dell’improcedibilità parziale, sotto tale profilo, del ricorso per ottemperanza, per cessata materia del contendere, essendo comunque sopraggiunto il provvedimento (parzialmente) satisfattivo delle pretese all’inquadramento come CIP con la decorrenza richiesta del 20.5.1993.
3 - Resta da esaminare l’ulteriore motivo dell’appello, con cui l’Avvocatura assume che il rimedio dell’ottemperanza non poteva essere attivato con riferimento alle pretese patrimoniali, di cui la sentenza di merito non si era occupata, essendosi limitata alla sola questione – ritenuta fondata – dell’inquadramento in diverso profilo professionale.
Secondo l’appellante l’interessato avrebbe dovuto impugnare il provvedimento di inquadramento nella parte in cui non disponeva anche la ricostruzione economica.
Aggiunge, infine, l’Avvocatura che la sentenza del TAR qui appellata sarebbe sostanzialmente ineseguibile, stante la sopravvenienza normativa, anteriore alla stessa decisione, costituita dall’articolo 41 della legge 449/97: “Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”. La norma, recando l’interpretazione autentica dell’art.40, comma 1, della legge n. 395 del 15.12.90, ha disposto che “il termine direttivo si interpreta come riferito esclusivamente al personale del ruolo ad esaurimento e delle qualifiche funzionali dalla VII alla IX, di cui ai profili professionali previsti dal decreto del Presidente della repubblica 19 febbraio 1992, cui ha avuto accesso a seguito di concorso”.
Il giudicato formatosi in data successiva alla richiamata norma non inciderebbe, quindi, sulla fattispecie regolata dalla citata normativa e, pertanto, atteso che il dott. N non ha avuto accesso alla VII Q.F., profilo di Collaboratore di istituto penitenziario (CIP) a seguito di concorso, bensì per effetto della norma di fonte contrattuale collettiva dell’art.5, comma 14, del DPR 17.1.90 n.44, sarebbe evidente che il presupposto di legge non esiste e, pertanto, l’Amministrazione non può accedere alla richiesta dell’istante.
4 - Cominciando dall’esame di quest’ultimo profilo d’appello, ne va subito dichiarata la palese infondatezza.
L’articolo 40 della legge 15-12-1990, n. 395 ( Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria),
disciplinante il trattamento giuridico ed economico del personale dirigente e direttivo dell'Amministrazione penitenziaria, dispone che “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, al personale dirigente e direttivo dell'Amministrazione penitenziaria è attribuito lo stesso trattamento giuridico spettante al personale dirigente e direttivo delle corrispondenti qualifiche della Polizia di Stato………….. Al medesimo personale spetta, altresì, il corrispondente trattamento economico della Polizia di Stato se non inferiore a quello attualmente goduto”.
La norma di interpretazione autentica recata dal citato articolo 41 della legge finanziaria per il 1998, chiarendo il significato del termine “ direttivo “ e limitandone la portata a coloro che appartengano alle “qualifiche funzionali dalla VII alla IX, di cui ai profili professionali previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 19 febbraio 1992, cui ha avuto accesso a seguito di concorso”, non è ostativa alla pretese patrimoniali dell’appellato, per il quale la difesa erariale non ha in alcun modo dimostrato la sua non riconducibilità alla ( ex ) carriera direttiva.
5 - L’appellato, infatti, aveva diritto all’inquadramento come CIP ( Collab. Ist. Penit. ) in virtù di un procedimento di mutamento funzionale orizzontale e non verticale, in quanto già appartenente alla VII q.f. ed ivi inquadrato come CAC ( Collaborat. Amm. Contabile) in virtù dell’articolo 4, comma 8, della legge n. 312/1980.
Questa norma, per costante giurisprudenza, non disciplinava un passaggio da una qualifica inferiore ad una qualifica superiore, ma prevedeva soltanto un inquadramento "orizzontale", definito di tipo automatico, volto cioè a consentire il passaggio dal vecchio al nuovo sistema classificatorio del personale pubblico attraverso una comparazione tra le attribuzioni proprie della qualifica di appartenenza (formalmente rivestita dal dipendente) e quelle tipiche dei profili professionali appartenenti alle nuove qualifiche ( C.d.S., sez. IV, 14 maggio 2004, n. 3117 ).
La predetta disposizione, insomma, nel disciplinare il primo inquadramento nelle qualifiche funzionali del personale in servizio al 1° gennaio 1978, correlava tale inquadramento alla qualifica già rivestita da ciascun dipendente a tale data e stabiliva un regime di precise corrispondenze fra le neo istituite qualifiche funzionali e le pregresse articolazioni delle varie carriere in cui era, per il passato, ripartito il personale statale ai sensi del T. U. n. 3/1957 ( C.d.S., sez. IV, 14 settembre 2005, n. 4767 ;sez. IV, 5 luglio 2002, n. 3691;30 maggio 2001, n. 2960).
6 - Tutto ciò per dire che l’avvocatura erariale, per invocare utilmente l’efficacia ostativa della legge n. 449/1997 alla pretesa del ricorrente, avrebbe dovuto dimostrare che alla qualifica iniziale di CAC o a quella corrispondente nel vecchio ordinamento ante legge n. 312/1980 - dalla quale il dipendente era transitato per mero inquadramento orizzontale al diverso profilo di CIP ma sempre nell’ambito della stessa qualifica funzionale VII – l’interessato non era pervenuto per concorso. Dimostrazione non fornita ed anzi implausibile in relazione al regime normalmente concorsuale, di reclutamento dei pubblici impiegati.
7 - Ciò chiarito, si tratta di stabilire se le pretese patrimoniali connesse al diverso inquadramento fossero attivabili con il rimedio dell’ottemperanza ovvero con l’impugnativa ordinaria.
La tesi da cui muove l’Amministrazione appellante, secondo la quale il ricorso per ottemperanza proposto dal funzionario dell’amministrazione penitenziaria avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, in quanto diretto ad ottenere l'adempimento di un obbligo, quello al pagamento delle somme spettanti a seguito del richiesto inquadramento conseguente all’annullamento del provvedimento di diniego, non riconosciuto espressamente dalle sentenze di cui si chiede l'esecuzione, non è condivisibile.
A questa conclusione il Collegio perviene in relazione alle finalità ed alla natura del giudizio di ottemperanza, come sviluppatosi nell’esperienza degli ultimi anni, conformemente ai principi di effettività ( sul piano della concentrazione e celerità ) della tutela giurisdizionale.
8 - E’ ampiamente noto che la sentenza di annullamento del giudice amministrativo, oltre al c.d. effetto demolitorio dell'atto impugnato, produce, di norma, i c.d. effetti ripristinatori e conformativi.
E’ altrettanto noto che l'effetto conformativo vincola la successiva attività dell'Amministrazione nella riadozione, ove necessaria per assicurare gli effetti satisfattivi della sentenza, del provvedimento annullato, ovvero nell’adozione delle ulteriori attività strettamente consequenziali e strumentali alla completa attuazione della regola alla quale l'amministrazione si deve attenere nella sua attività futura.
L'effetto ripristinatorio significa vanificazione degli effetti dell'atto annullato e cioè l'adeguamento dell'assetto di interessi, esistente prima della pronuncia giurisdizionale e venuto in vita sulla base dell'atto impugnato, alla situazione giuridica prodotta dalla stessa pronuncia di merito.
9 - Così, ad esempio, l'annullamento di un atto di esclusione da un concorso, di un’espropriazione, di un licenziamento comporta il ripristino della condizione di concorrente, la restituzione del bene espropriato, la riammissione in servizio del dipendente;del pari, l’annullamento del diniego di un provvedimento di inquadramento comporta la creazione di una situazione quanto più possibile identica a quella che si sarebbe avuta in mancanza di diniego e, quindi, non solo la collocazione ora per allora nella posizione in cui si sarebbe trovato il cittadino in assenza del rigetto della sua istanza, ma anche il pagamento delle retribuzioni non pagate che egli avrebbe percepito a fronte di un comportamento legittimo e tempestivo della p.a..
10 - Questo ulteriore effetto ripristinatorio della pronuncia di merito ha la sua legittimazione normativa non solo nel precetto costituzionale dell’effettività del diritto di difesa, ma già nell'art. 65, n. 5 del regolamento di procedura di cui al R. D. n. 642 del 1907, il quale prescrive che nella sentenza sia incluso "l'ordine che la decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa", ed è giustificato dalla stessa funzione dell'annullamento e dalla esigenza di assicurarne in tempi rapidi l'utilità concreta e sostanziale.
Sarebbe del tutto inutile per l’interesse che sottende l’esercizio dell’azione, infatti, annullare un provvedimento ove la pronuncia caducatoria non fosse accompagnata dall'obbligo dell'Amministrazione di ripristinare la situazione di fatto o di diritto esistente prima del provvedimento impugnato ovvero di riadottare tutti i provvedimenti occorrenti per completare la situazione di fatto e di diritto che si sarebbe creata senza l’indebita interposizione dell’atto illegittimo.
Il privato, infatti, è interessato alla caducazione dell'atto solo in via mediata, come strumento processuale per conseguire il bene sostanziale della vita indebitamente sottrattogli dall'illegittimo esercizio del potere amministrativo.
11 - L'obbligo di ripristino della situazione o riadozione del provvedimento, del resto, trova ragione nell'esigenza di riequilibrare gli effetti prodotti dal provvedimento prima del suo annullamento.
Tali effetti non possono mantenersi, perché altrimenti sarebbe contraddetta l'efficacia ex tunc dell’eliminazione del provvedimento annullato.
L'effetto ripristinatorio è, quindi, una diretta conseguenza della caducazione del provvedimento e rientra a pieno titolo nei doveri di esecuzione che gravano sulla p.a. in conseguenza della sentenza di annullamento.
12 - Alla luce delle esposte considerazioni, è evidente l'infondatezza della tesi dell'amministrazione appellante, secondo cui la pretesa di ordine patrimoniale, in quanto non espressamente sancita dal giudicato amministrativo, non poteva essere attivata in sede di ottemperanza , ma richiedeva l'introduzione di un ulteriore giudizio di cognizione.
L'assunto in esame non tiene conto dei sopra ricordati effetti non solo demolitori, ma anche ripristinatori e conformativi del giudicato di annullamento.
Tali effetti, come pure ha rilevato un'autorevole dottrina, possono essere considerati prima che effetti della sentenza, come elementi del suo contenuto: la sentenza di annullamento impone direttamente all'Amministrazione l'obbligo di compiere le necessarie ripristinazioni e di uniformare l'attività di riesercizio del potere alle regole di azione poste e confermate dalla pronuncia.
Ciò vale a maggior ragione oggi, alla luce della tendenza legislativa e giurisprudenziale degli ultimi anni, sempre più attenta (al di là della legittimità formale del provvedimento) al contenuto del rapporto sostanziale che lega il privato all’Amministrazione.
13 - I descritti effetti del giudicato amministrativo hanno inevitabili ripercussioni sulla natura del giudizio di ottemperanza e sugli spazi cognitivi riservati in tale sede al giudice amministrativo.
Diversamente da quanto sostiene l’Amministrazione appellante, il giudizio di ottemperanza non è affatto un tipico giudizio chiuso, che non consente di introdurre questioni ed eccezioni nuove, tale da poter essere attivato solo a fronte di un giudicato che contenga disposizioni che definiscano in modo puntuale ed incondizionato gli obblighi di comportamento dell'Amministrazione.
Al contrario, come ormai da tempo si riconosce, il giudizio di ottemperanza ha natura mista di esecuzione e di cognizione: ciò, anche perché spesso la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita, elastica, talvolta incompleta, che spetta al giudice dell'ottemperanza completare ed esplicitare.
Non a caso, si è efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di merito, diretto ad arricchire, pur rimanendone condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa.
Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del Giudice dell'ottemperanza dare un contenuto non solo concreto, ma anche quanto più possibile completo (e satisfattivo per la parte vittoriosa), all'obbligo della ripristinazione risolvendo i molti problemi al riguardo.
14 - Non è questo, del resto, l'unico momento di cognizione del giudizio di ottemperanza, poiché interventi cognitori si aprono a fronte di sopravvenienze di fatto o di diritto rispetto al giudicato e alle domande accessorie, quali interessi, rivalutazione e risarcimento del danno.
Sotto questo profilo, il giudizio di ottemperanza si atteggia in termini diversi e più pregnanti rispetto all'esecuzione forzata disciplinata dal codice di procedura civile, essendo questa caratterizzata dall'esistenza del titolo esecutivo. Nel processo civile di esecuzione la fase della cognizione è normalmente assente, perché il titolo esecutivo pone a disposizione di chi ne è in possesso una posizione di preminenza che non soggiace più ad alcun controllo.
15 - D’altronde, la stessa giurisprudenza costituzionale (C. cost. n. 406/1988) ha avuto modo di rilevare come "il giudizio di ottemperanza , secondo l'attuale elaborazione giurisprudenziale, ricomprende una pluralità di configurazioni (in relazione alla situazione concreta, alla statuizione del giudice e alla natura dell'atto impugnato), assumendo talora (quando si tratta di sentenza di condanna al pagamento di somma di denaro esattamente quantificata e determinata nell'importo, senza che vi sia esigenza ulteriore di sostanziale contenuto cognitorio) natura di semplice giudizio esecutivo [...] e quindi qualificabile come rimedio complementare, che si aggiunge al procedimento espropriativo del codice di procedura civile, rimesso alla scelta del creditore. In altri casi il giudizio di ottemperanza può essere diretto a porre in essere operazioni materiali o atti giuridici di più stretta esecuzione della sentenza;in altri ancora ha l'obiettivo di conseguire un’attività provvedimentale dell'amministrazione ed anche effetti ulteriori e diversi rispetto al provvedimento originario oggetto della impugnazione;inoltre può essere utilizzato, in caso di materia attribuita alla giurisdizione amministrativa, anche in mancanza di completa individuazione del contenuto della prestazione o attività cui è tenuta l'amministrazione, laddove invece l'esecuzione forzata attribuita al giudice ordinario presuppone un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile".
16 - Il giudice amministrativo, cioè, in sede di giudizio di ottemperanza , può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l'originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera «esecuzione» ma «attuazione» in senso stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato a formazione progressiva.
Ancora recentemente, la Corte costituzionale, occupandosi della legittimità costituzionale dell'art. 91 r.d. n. 642/1907 (nella parte in cui prevede che il ricorso per ottemperanza non venga notificato ma solo comunicato al Ministero competente ad opera della segreteria del giudice adito), ha riconosciuto la natura pienamente contenziosa del giudizio di ottemperanza, rilevando che: "occorre sgomberare il campo dalla concezione, in passato condivisa da dottrina e giurisprudenza, che riteneva il giudizio di ottemperanza come caratterizzato da sommarietà e da un tenore non pienamente contenzioso, sicché tale procedimento veniva definito "a contraddittorio attenuato". È invece oggi pacifica la sua natura di procedimento contenzioso. Il che rende imprescindibile il pieno rispetto del contraddittorio" (Corte cost. 9 dicembre 2005, n. 441).
17 - Anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. 30 giugno 1999, n. 376) e l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (15 marzo 1989 n. 7) hanno ritenuto che il giudice dell'ottemperanza, in caso di sentenze del giudice amministrativo - diversamente da quanto accade in caso di sentenze rese dal giudice di un altro ordine - ha il potere di integrare il giudicato, nel quadro degli ampi poteri, tipici della giurisdizione estesa al merito (e idonei a giustificare anche l'emanazione di provvedimenti discrezionali), che in tal caso egli può esercitare ai fini dell'adeguamento della situazione al comando rimasto inevaso.
Nel giudizio di ottemperanza, in altri termini, il giudice amministrativo può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi che comunque sarebbero devoluti alla sua giurisdizione.
18 - Applicando le esposte considerazioni alla presente fattispecie, ne deriva l'infondatezza dell'appello proposto dall'Avvocatura dello Stato.
La pretesa di ottenere quanto dovuto e non pagato in base al nuovo inquadramento nel profilo (della stessa qualifica funzionale di cui alla legge n. 312/1980 ), inizialmente erroneamente negato dal Ministero con il provvedimento negativo annullato con la sentenza del TAR n. 767/1996, può essere certamente fatta valere in sede di ottemperanza al giudicato di annullamento. Si tratta, infatti, di una pretesa che trova il suo fondamento nell'obbligo ripristinatorio dell’intera situazione come si sarebbe formata senza il diniego illegittimo dalla P. A., che, come sopra spiegato, trova il suo diretto fondamento nelle decisioni portate ad esecuzione.
È irrilevante, sotto questo profilo, la circostanza che manchi nel giudicato di annullamento una espressa condanna al pagamento conseguente al nuovo inquadramento, trattandosi di un effetto che deriva necessariamente dalla retroattività dell'annullamento giurisdizionale: la cancellazione dell'atto impugnato ex tunc determina il venir meno di tale atto e precostituisce il titolo per la riscossione delle retribuzioni connesse al nuovo profilo.
19 - Diversamente, le sentenze di annullamento del giudice amministrativo non sarebbero mai suscettibili di ottemperanza in quanto "autoesecutive", perché il risultato utile dell'annullamento sarebbe già assicurato dalla caducazione del provvedimento impugnato.
Invece, è proprio la violazione dell'obbligo ripristinatorio o dell'obbligo conformativo a giustificare l'instaurazione di un giudizio di ottemperanza anche a fronte di una pronuncia di annullamento, che non si sia espressamente pronunciata sugli ulteriori effetti di esso.
In altre parole, se l'Amministrazione non esegue la sentenza nei termini risultanti anche dagli obblighi di ripristino e di conformazione, la sanzione a comportamenti di pervicace chiusura o di falso ed apparente ossequio deve essere assicurata, in modo definitivo, dal giudizio di ottemperanza .
Né si può ritenere che il rito dell'ottemperanza comprima il diritto di difesa dell'Amministrazione, impedendole di far valere le ragioni che si opporrebbero al ripristino.
Il rito dell'ottemperanza , infatti, pur svolgendosi in camera di consiglio anziché in pubblica udienza, non limita affatto il diritto di difesa delle parti, ed in particolare il diritto dell'Amministrazione di allegare fatti, sollevare eccezioni, presentare prove. La conferma più evidente di quanto detto la si ritrova proprio nella presente controversia, in cui il Ministero ha sollevato anche questioni sostanziali nuove (jus superveniens) per contrastare la pretesa dell’appellato a vedersi completare il quadro delle statuizioni necessarie per dare concreta ed effettiva soddisfazione alle proprie pretese, che sin dall’inizio del giudizio di merito erano, al contempo, di natura funzionale, ma anche stipendiale.
Dubbi in ordine al pieno rispetto del principio del contraddittorio non possono neanche ricavarsi dall'art. 91 r.d. n. 642/1907, che, per il ricorso in ottemperanza, non richiede la previa notificazione all'Amministrazione ma prevede solo che, una volta depositato il ricorso presso il giudice competente, la segreteria ne dia comunicazione al Ministero competente.
Questa norma - che ad una prima lettura potrebbe apparire giustificata dalla minore importanza che avrebbe la garanzia del contraddittorio in un giudizio di esecuzione del giudicato - deve, al contrario, come recentemente ritenuto anche dalla Corte costituzionale, essere interpretata, "nel senso di prevedere un obbligo di comunicare l'atto nella sua interezza, in tempo utile e in modo da consentire alla pubblica amministrazione una effettiva conoscenza della domanda e l'articolazione tempestiva dei mezzi di difesa" (C. cost. 9 dicembre 2005, n. 441).
A tale conclusione, la Corte costituzionale è giunta proprio alla luce della natura pienamente contenziosa del giudizio di ottemperanza, nel quale, per l'importanza delle questioni che possono sorgere, deve essere pienamente garantito il principio del contraddittorio.
20 - In definitiva, quindi, il motivo concernente l'irritualità e inammissibilità del giudizio dell'ottemperanza per far valere la pretesa retributiva deve essere respinto.
Come si è avuto modo di chiarire è proprio il giudizio di ottemperanza la sede naturale per far valere, da parte privato che ha ottenuto l'annullamento dell'atto ostativo all’erogazione di somme di denaro, la pretesa alla retribuzione di quanto connesso all’effetto annullatorio del mancato inquadramento senza che siano stati forniti, da parte dell'Amministrazione, i fatti in grado di incidere sul pieno dispiegarsi dell'effetto ripristinatorio del giudicato di annullamento ( cfr. CdS, sez. VI, 16 ottobre 2007 , n. 5409 ).
21 - Alla reiezione dell’appello consegue la condanna alle spese del giudizio, nella misura liquidata in dispositivo.