Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2013-04-24, n. 201302279
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Testo completo
N. 02279/2013REG.PROV.COLL.
N. 10789/2004 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10789 del 2004, proposto da:
C V in proprio e quale erede di C R. e B A., rappresentato e difeso dagli avv. M E V e F B C, con domicilio eletto presso l’avv. M E V in Roma, via Barnaba Tortolini, 13;
contro
Comune di Figline Valdarno, rappresentato e difeso dall'avv. G V, con domicilio eletto presso l’avv. A T in Roma, largo dei Lombardi, 4;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA - FIRENZE: SEZIONE II n. 00252/2004, resa tra le parti, concernente risarcimento del danno da occupazione appropriativa.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2013 il Cons. Paolo Giovanni Nicolo' Lotti e uditi per le parti gli avvocati Verino e Giallongo, per delega dell'Avv. Viciconte;
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sez. II, con la sentenza n. 252 del 3 febbraio 2004, ha respinto il ricorso proposto dall’attuale parte appellante per la condanna del Comune appellato al risarcimento dei danni da occupazione appropriativa.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che, poiché il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di risarcimento danni da occupazione appropriativa che i ricorrenti pongono a fondamento della loro pretesa risarcitoria decorre dalla scadenza del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, e ciò vale anche in caso di cessione bonaria, ne consegue che già nel 1999 (anno del riferito accordo sul corrispettivo con l’Ente espropriante, e ciò a prescindere da ogni questione concernente la valorizzabilità dell’accordo stesso) il suddetto termine era ampiamente decorso.
Parte appellante contestava la sentenza del TAR e riproponeva le domande disattese in primo grado anche alla luce dello ius superveniens intervenuto in materia.
Si costituiva il Comune appellato chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza pubblica dell’11 gennaio 2013 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Osserva il Collegio che i ricorrenti in primo grado, eredi dei signori Renato C ed Armida B avevano intimato il Comune ad una stima definitiva del corrispettivo per la cessione bonaria di un terreno di loro proprietà posto nel Comune di Figline Valdarno, località “Gaglianella”, per il quale in data 26 ottobre 1982 avevano sottoscritto un preliminare di vendita con l’impegno a trasferirlo volontariamente al Comune per il prezzo di lire 42.073.200, fatto salvo l’eventuale conguaglio previsto dall’art. 1 della L. 29 luglio 1980, n. 385.
In data 4 giugno 1983 il Comune corrispondeva ai signori C e B un acconto sul definitivo prezzo di acquisto di lire 23.000.000 e, con delibera del 9 marzo 1990, n. 870, la Giunta del Comune di Figline Valdarno approvava gli atti di contabilità finale ed il certificato di collaudo dell’opera pubblica (“Depuratore Fognatura del Capoluogo”) eseguita sui terreni oggetto della predetta cessione bonaria.
Nel 1999 i ricorrenti in primo grado pervenivano ad un accordo sul compenso da corrispondere da parte dell’Ente espropriante cui seguivano la stima del funzionario tecnico del Comune, l’accettazione degli odierni ricorrenti, il parere favorevole dell’apposita Commissione consiliare, in ordine al “riconoscimento di debito fuori bilancio per esproprio terreno depuratore”, nonché l’invito dell’Ufficio Segreteria del Comune di Figline Valdarno ai signori C di predisporre la documentazione necessaria per la stipula dell’atto pubblico di cessione volontaria.
Tale iter procedimentale subiva un arresto motivato dalla presunta prescrizione del diritto dei ricorrenti al pagamento di un corrispettivo per il trasferimento della proprietà dei terreni, sui quali era già stata costruita l’opera pubblica citata.
Ritiene il Collegio che tale eccezione di intervenuta prescrizione, sulla base della quale il TAR ha respinto il ricorso, è infondata poiché, come ha sancito di recente la giurisprudenza di questo Consiglio, la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'Amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni.
Di conseguenza, negandosi ogni trasferimento della proprietà per effetto della irreversibile trasformazione del bene illegittimamente appreso, appare palese la natura permanente dell'illecito dell'Amministrazione, finché dura l'illegittima occupazione del bene senza che vi sia un eventuale titolo idoneo a determinare il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione medesima, con la conseguenza che non può ritenersi sussistente alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento.
Infatti, il comportamento tenuto dall'Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere qualificato come illecito permanente, nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi.
Per questo motivo, il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l'unico limite temporale rinvenibile nell'acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene,eventualmente maturata dall'ente pubblico, nella specie non sussistente e, comunque, non eccepita.
Nel caso di specie, peraltro, si deve considerare che i rapporti tra le parti erano regolati dal compromesso di vendita sottoscritto in data 26 ottobre 1982;fino al momento in cui, in data 20 aprile 2000, l’Amministrazione non ha reso nota la volontà di non addivenire alla stipula del contratto definitivo, la prescrizione non aveva neppure iniziato a decorrere.
E’ soltanto dopo tale momento che l’occupazione dei terreni da parte del Comune è divenuta illegittima e sine titulo, poiché, in epoca antecedente, il titolo era costituito dal compromesso di vendita, in virtù del quale i Sigg.ri C e B si erano impegnati a consegnare i terreni su semplice richiesta del Comune acquirente.
Riformata, dunque, la sentenza del TAR che ha erroneamente ritenuto spirato il termine di prescrizione, si deve affrontare la questione relativa al diritto al risarcimento del danno, la cui domanda è stata riproposta in appello.
Come correttamente indicato dalla parte appellante negli ultimi atti difensivi, la materia oggetto del presente giudizio è stata investita da una recente riforma legislativa.
Nelle more del presente giudizio di appello, infatti, in seguito alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del Testo Unico dell’espropriazione d.P.R. n. 327 del 2001, secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza 8 ottobre 2010, n. 293, il D.L. 6 luglio 2011, n. 98 (art. 34), convertito in legge n. 111 del 2011, ha introdotto, nel D.P.R. n. 327/2001, l’art. 42-bis, quale nuova norma regolatrice della fattispecie di “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, il cui ultimo comma prevede che “Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore”.
Alla luce di quanto espressamente statuito dal legislatore, la nuova norma risulta, quindi, applicabile anche alla fattispecie in esame, anche in virtù dei principi generali dell’ordinamento giuridico e, precisamente, dell’art. 113, comma 1, c.p.c., secondo il quale “Nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto”, norma applicabile anche al giudizio amministrativo stante il richiamo operato dall’art. 39, comma 1, c.p.a., secondo un principio generale riassumibile nella nota formula iura novit curia.
In punto risarcimento del danno, il Collegio deve precisare, preliminarmente, che la distinzione tra occupazione appropriativa ed usurpativa (quella realizzata in assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità), ha perso di significato sia con riferimento alla giurisdizione (nel senso che residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera) che alla decorrenza del termine di prescrizione trattandosi nei due casi di un illecito permanente come affermato dalla più recente giurisprudenza amministrativa, aderendo alle argomentazioni svolte in più occasioni dalla Corte europea dei diritti umani e, di recente, dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844).
L'unico elemento di differenziazione ancora esistente riguarda invero l'individuazione del dies a quo di commissione dell'illecito posto che, in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento dell'immissione in possesso da parte dell'Amministrazione mentre, in caso di occupazione appropriativa, come nella specie, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno e ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai fini della quantificazione del risarcimento del danno.
Pertanto, alla luce dei precisi parametri normativi stabiliti dal predetto art. 42-bis del T.U. Espropriazione n. 327-2001, introdotto dall'art. 34 della cd. "Manovra economica 2011" (D.L. 6 luglio 2011, n. 98), il quale, reintroducendo l'istituto dell'acquisizione sanante, prevede anche che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, anche con riferimento ai fatti antecedenti (comma 8 del predetto art. 42 bis), è possibile condannare il Comune convenuto al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno per occupazione appropriativa, parametrata al valore venale del bene dalla data di cessazione dell’occupazione legittima come appena sopra precisato, maggiorato del danno morale nella misura che si ritiene equo determinare nel 10% del danno patrimoniale.
Trattandosi di obbligazione derivante da illecito extracontrattuale, e quindi di debito di valore, tali somme, determinate con riferimento alla data della trasformazione irreversibile del bene, devono essere rivalutate equitativamente all'attualità sulla base degli indici Istat;si impone, inoltre, il riconoscimento del danno da lucro cessante, costituito dalla perdita della possibilità di far fruttare la somma stessa;tale danno, avuto riguardo al tempo trascorso ed al graduale mutamento del potere di acquisto della moneta, può liquidarsi in via equitativa nella misura degli interessi legali sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dalla data dell'illecito, in applicazione della sentenza 17 febbraio 1995, n. 1712 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui deve escludersi che la base del calcolo dei suddetti interessi possa essere quella della somma rivalutata al momento della liquidazione se gli interessi vengono fatti decorrere dal momento del fatto illecito, perché con tali modalità si attribuirebbe al creditore un valore cui egli non ha diritto (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844 cit.).
A tale somma, naturalmente, dovrà essere detratto quanto già eventualmente pagato dal Comune.
Tale condanna è emanata ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., ai sensi del quale, in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri (come sopra si sono individuati) in base ai quali il debitore (il Comune, nella specie) deve proporre a favore del creditore (parte appellante) il pagamento di una somma entro un congruo termine (che, nel caso di specie, si ritiene di fissare in mesi tre decorrenti della data di pubblicazione o di comunicazione, se posteriore, delle presente sentenza).
Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall'accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV, c.p.a. possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l'adempimento degli obblighi ineseguiti.
Pertanto, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza impugnata, deve essere condannato il Comune al pagamento delle somme ai sensi di cui in motivazione.
Le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.