Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2015-05-13, n. 201502401

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2015-05-13, n. 201502401
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201502401
Data del deposito : 13 maggio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 07839/2014 REG.RIC.

N. 02401/2015REG.PROV.COLL.

N. 07839/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7839 del 2014, proposto da:
Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dagli avv. A S, L M, Carla D'Aloisio, E D R, domiciliata in Roma, Via Cesare Beccaria , n.29;

contro

Hotel Cipriani S.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. G P, F B, A B, con domicilio eletto presso G P in Roma, viale Giulio Cesare n.14;

nei confronti di

Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato – Antitrust in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difeso per legge dall'Avvocatura Gen.le dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n.12;
Equitalia Nord S.p.A.;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. VENETO - VENEZIA SEZIONE I n. 00896/2014


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Hotel Cipriani S.r.l. e di Autorita' Garante della Concorrenza e del Mercato - Antitrust;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 marzo 2015 il Cons. Roberto Capuzzi e uditi per le parti gli avvocati Sgroi, Pafundi, Bianchini, Busetto e dello Stato Varrone T.;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. – I fatti di causa possono essere sintetizzati come segue:

Con l’art. 5 bis del d.l. n.96/95, convertito dalla l. n.206/95 e con l’art. 27 del d.l. n.669/96, convertito dalla l. n.30/97 che a sua volta rinviava al decreto ministeriale del 5 agosto 1994, il legislatore italiano ha introdotto una serie di benefici contributivi nel periodo 1995/1997 in favore dei datori di lavoro che svolgevano la loro attività nelle città di Chioggia e Venezia. Di tali benefici non veniva data preventiva comunicazione alla Commissione europea al fine di valutarne la compatibilità con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato.

La Comunità europea, venuta a conoscenza della erogazione di tali benefici, avviava un procedimento che si è concluso con la decisione del 25 novembre 1999 (2000/394/CE). Nella predetta decisione si è statuito che i benefici fruiti dalle aziende ai sensi della sopradetta legislazione e dell’art. 1 del d.m.

5.8.1994 sono aiuti di stato e sono incompatibili con il mercato comune quando sono stati accordati ad imprese che non sono piccole e medie imprese e che sono localizzate al di fuori delle zone aventi diritto alla deroga prevista

Sulla base di tale decisione la Commissione affidava all’Italia l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti dichiarati incompatibili con il mercato comune secondo le procedure del diritto nazionale e con relativi interessi a decorrere dalla data in cui le somme erano state poste a disposizione dei beneficiari fino al loro effettivo recupero.

La decisione veniva notificata allo Stato Italiano il 10 gennaio 2000.

Tale decisione veniva impugnata da numerose imprese interessate (n.59) nel settembre 2000 davanti al Tribunale di Lussemburgo che selezionava 4 cause pilota (promosse rispettivamente da Hotel Cipriani, Italgas, Coopservice e Comitato “Venezia vuole vivere”) in quanto ritenute riepilogative delle questioni proposte dalle varie aziende ricorrenti. Con sentenza del 28 novembre 2008 (T-254/00) il Tribunale di Lussemburgo, decidendo le cause pilota, le respingeva.

La sentenza del Tribunale di Lussemburgo veniva impugnata dalle ricorrenti delle cause pilota, ma la Corte di Giustizia respingeva le impugnazioni proposte con sentenza del 9 giugno 2011 specificando che:

a) nel caso di un programma di aiuti la Commissione studia le caratteristiche del programma di cui trattasi per valutare nella motivazione della sua stessa decisione se, in base alle modalità previste da tale programma, esso assicuri un vantaggio sensibile ai beneficiari rispetto ai loro concorrenti e sia tale da giovare essenzialmente a imprese che partecipino agli scambi tra Stati membri (punto 63 della sentenza 9 giugno 2011);

b) se in base alla valutazione di cui sopra la Commissione reputa un regime di aiuti incompatibile con il mercato comune e per l’effetto ordina il recupero degli aiuti illegittimamente erogati “..spetta poi allo Stato membro verificare la situazione individuale di ciascuna impresa interessata da una simile operazione di recupero (punto 64 della sentenza 9 giugno 2011);

c) prima di procedere al recupero, in particolare, “le Autorità nazionali devono necessariamente verificare in ciascun caso individuale, se l’agevolazione concessa può, in capo al suo beneficiario, falsare la concorrenza ed incidere sugli scambi intracomunitari (punto115);

d) spetta alle “autorità nazionali…previamente dimostrare alla luce delle considerazioni esposte ai punti 113-121, che le agevolazioni concesse costituiscono, in capo ai beneficiari, aiuti di stato” (punto 183).

In concomitanza con la sopra richiamata sentenza della Corte di Giustizia, il Tribunale di Lussemburgo ha ordinato la riapertura degli altri procedimenti (altri rispetto alle cause pilota) e con successiva ordinanza ha respinto i ricorsi.

Appellate le ordinanze del Tribunale, la Corte di Giustizia con ordinanza del 4 settembre 2014 ha respinto le impugnazioni ribadendo “il principio della istruttoria caso per caso” di cui alla sopra citata sentenza del 9 giugno 2011 e che “Le autorità nazionali erano tenute a verificare in ciascun caso individuale se le agevolazioni concesse fossero idonee a falsare la concorrenza e ad incidere sugli scambi comunitari”.

A seguito della decisione della Commissione europea lo Stato italiano ha avviato il procedimento di recupero degli aiuti incompatibili affidandolo all’I.N.P.S. (d’ora in poi, per comodità solo Inps o Istituto) che in una prima fase ha operato tramite cartelle esattoriali ai sensi del d.lgs. n.46/1999.

Tali cartelle venivano impugnate davanti al giudice del lavoro presso il Tribunale di Venezia con atti di opposizione.

Il 1° gennaio 2013 è entrata in vigore la legge 24 dicembre 2012 n.228 recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” con cui lo Stato Italiano nell’art. 1 co 351 e ss. ha tra l’altro posto nel nulla l’azione di recupero precedentemente svolta dall’Inps. L’Istituto inviava alle imprese un formulario per la valutazione della compatibilità con il mercato comune degli aiuti concessi alle imprese operanti nei territori di Venezia e Chioggia nel periodo 1.7.1994 - 30.12.1997 prescrivendo alle imprese di fornire gli elementi corredati da idonea documentazione necessari per la identificazione dell’aiuto anche con riferimento alla sua idoneità a falsare la concorrenza e incidere sugli scambi comunitari. L’Istituto comunque decideva di intraprendere d’ufficio, anche al di là della acquisizione del formulario, una istruttoria preordinata all’azione di recupero di cui è causa.

Infine, all’esito di tale istruttoria, tenuto conto del parere espresso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai sensi dell’art. 22 della legge n.287/1990, l’Inps, con l’avviso di addebito oggetto di impugnazione in primo grado davanti al Tar Veneto, procedeva al recupero delle somme dovute.

Con la sentenza impugnata il Tar Veneto riteneva che il ricorso fosse fondato con riferimento ai motivi di gravame con cui le ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 1, commi 351 e segg. della legge n. 228 del 2012, nonché per carenza di istruttoria e di motivazione in quanto l’Inps, prima di procedere al recupero, non avrebbe in concreto verificato se gli sgravi concessi erano idonei effettivamente a falsare la concorrenza ed incidere negativamente sugli scambi comunitari generando una distorsione della libera concorrenza con specifico riferimento alla situazione di mercato esistente al momento di operatività dell’agevolazione stessa.

Per il Tar era insufficiente l’affermazione contenuta negli impugnati avvisi di addebito secondo cui risulterebbe “valutata l’idoneità dell’agevolazione fruita dall’impresa in indirizzo a falsare od a minacciare la concorrenza ed incidere sugli scambi comunitari”, trattandosi di dichiarazione meramente tautologica e di stile, in quanto priva di ogni riscontro valutativo dal quale si potesse desumere l’iter motivazionale che aveva condotto a ritenere la contestata agevolazione alla stregua di un aiuto di Stato in contrasto con la normativa comunitaria.

Il Tar quindi accoglieva il ricorso assorbendo le ulteriori doglianze proposte da parte ricorrente.

L’Inps in proprio e quale mandatario di Società Cartolarizzazione dei crediti Inps ( S.C.C.I. s.p.a.) ha presentato appello per la riforma della sentenza del Tar.

Nell’atto di appello l’Istituto evidenzia i criteri alla base del formulario per la redazione del quale l’Inps ha sentito le categorie interessate con un incontro in data 14 febbraio 2013 e si è avvalsa della Direzione Servizi Pubblici Locali e Promozione della Concorrenza della Autorità garante della concorrenza e del mercato.

L’appellante eccepisce l’erroneità della pronunzia del giudice di prime cure nella parte in cui ritiene il difetto di istruttoria ritenuto dal Tar.

Parte appellata si è costituita nel giudizio di appello contestando puntualmente le ragioni addotte dall’Inps e riproponendo i motivi e le eccezioni dedotte in primo grado non esaminate e/o assorbite dal primo giudice.

In sede cautelare questo Consiglio di Stato ha disposto la sospensione della sentenza appellata.

In vista dell’udienza di trattazione parte appellata ha depositato memorie e documentazione difensiva.

Alla udienza pubblica del 12 marzo 2015, dopo l’ampia discussione, la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.

2. - In primo luogo occorre delineare, sia pure brevemente, l’ambito applicativo del concetto di “aiuti di Stato” così come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria e conseguentemente da quella interna, fissando alcuni punti rilevanti ai fini della decisione dell’odierno contenzioso. L’attuale art. 107 del TFUE (ex art.87 TCE), paragrafo 1, sancisce che “Salve deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza.”

Nel prosieguo della disposizione citata vengono poi tassativamente identificati una serie di casi, insuscettibili di estensione analogica, in presenza dei quali tali agevolazioni possono ritenersi compatibili con il mercato interno dell’Unione.

Pertanto l’art. 107, così come gli artt. 108 e 109 TFUE, pongono disposizioni preordinate alla realizzazione di un regime di concorrenza non falsata in quanto dirette ad evitare che il sostegno finanziario pubblico intervenga ad alterare la competizione paritaria tra le imprese all’interno del mercato comune.

Affinché la misura nazionale possa essere qualificata come aiuto di Stato ex art. 107, paragrafo 1 TFUE, deve trattarsi di un intervento effettuato mediante risorse pubbliche, la misura deve essere idonea ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri, deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza per il rafforzamento della impresa beneficiaria a danno dei concorrenti che sopportano i costi evitati dalla prima (sentenza Commissione/Deutsche Post, C-399/08 P, EU:C:2010:481,punto 39 e giurisprudenza ivi citata).

Le misure attuate devono essere caratterizzate da selettività e cioè non rappresentare strumenti di politica economica generale per lo sviluppo del sistema, bensì integrare misure specifiche, essenzialmente rivolte a favorire determinati settori ed aree geografiche collocando le imprese esistenti in posizione di vantaggio rispetto ad altre che si trovino in una situazione analoga sul piano giuridico e fattuale.

Costante giurisprudenza comunitaria si è pronunziata in maniera particolarmente severa e rigorosa nel senso di ritenere incidenti sulle relazioni tra gli Stati membri gli aiuti concessi da un ordinamento interno ed idonei a rafforzare la posizione di una impresa rispetto ad altre concorrenti nell’ambito dei rispettivi scambi, senza l’obbligo di dimostrare che dette misure palesino una ripercussione effettiva sugli scambi stessi, né creino una altrettanta effettiva distorsione della concorrenza (v. sentenze Unicredito Italiano, C-148/04, EU:C:2005:774, punto 54;
Cassa di Risparmio di Firenze e a., C-222/04, EU:C:2006:8, punto 140;
Libert e a., C-197/11 e C-203/11 EU:C:2013:2008, punto 76, nonché Eventech, -158/13, EU:C:2015:9, punto 65).

Più in particolare è stato rilevato con formulazioni “trachant” che “..nemmeno è necessario che il beneficiario partecipi agli scambi intracomunitari in quanto quando uno Stato membro concede un aiuto a una impresa, detto aiuto può contribuire a mantenere o aumentare la sua attività sul mercato nazionale con la conseguenza che le opportunità per le imprese con sede in altri Stati membri di inserirsi nel mercato ne vengono ridotte…inoltre il rafforzamento di una impresa che non abbia ancora partecipato a scambi intracomunitari può porla nella condizione di penetrare il mercato di un altro Stato membro” (nota del 21 novembre 2012 della Commissione europea).

Occorre poi osservare che la decisione della Commissione relativa a un regime di aiuti illegittimo che imponga il recupero degli aiuti versati ha di regola portata generale anche se i beneficiari del regime di aiuti siano identificabili;
si impone quindi la necessità da parte dello Stato membro in sede di recupero di analizzare in concreto la posizione di ciascuna impresa caso per caso applicando i criteri di ordine generale fissati.

Gli accertamenti cui è tenuto lo Stato membro al fine di verificare se l’attività svolta dall’impresa sia inidonea a falsare la concorrenza non incidendo sugli scambi comunitari non hanno alcun contenuto discrezionale, nulla potendo disporre sugli assetti pubblici coinvolti, ma carattere meramente conoscitivo o esecutivo essendo tesi esclusivamente ad acclarare in fatto, per conto della stessa Commissione europea, se le imprese presentino o meno quelle caratteristiche cui la disciplina comunitaria e la Commissione europea ricollegano gli effetti derivanti dalla applicazione dell’art. 107 (87) paragrafo 1 sopracitato.

E’ la fonte sovranazionale che determina l’effetto al solo verificarsi del fatto giuridico costituito dall’atto di accertamento dell’attività dell’azienda sugli scambi comunitari.

La politica degli aiuti gravita infatti sulla Commissione (art. 108 TFUE), dominus sulla procedura di controllo sugli aiuti, sia essi “esistenti”, (concessi prima dell’entrata in vigore del Trattato), sia “nuovi”, i cui progetti devono essere costantemente notificati alla Commissione e rimangono sospesi nella erogazione fino a che non vengano autorizzati con apposita decisione positiva.

Al giudice nazionale è data la possibilità di interpretare la nozione di aiuto solo sotto il profilo della verifica fattuale delle condizioni esonerative dello stesso, ovvero chiedendo l’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia con lo strumento del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, in modo da consentire una applicazione che contribuisca all’attuazione del diritto comunitario, essendogli comunque preclusa la valutazione della compatibilità dell’aiuto con il mercato comune in base ai criteri enunziati dall’art.107 (ex 87), trattandosi di compito che spetta in via esclusiva solo alla Commissione europea sotto il controllo del giudice comunitario.

Peraltro il potere-dovere del giudice nazionale di conformarsi al diritto comunitario, concepito quest’ultimo come un unicum con il diritto interno, ma su quest’ultimo automaticamente prevalente, comporta la disapplicazione, di propria iniziativa, non solo delle regole processuali del diritto interno, ma anche di ogni altra disposizione interna quand’anche di rango legislativo, che impedisca il recupero dell’aiuto di Stato dichiarato illegittimo, rendendo inoperanti, in nome del principio di effettività ed immediatezza del recupero, addirittura lo stesso giudicato interno ex art.2909 c.c., la certezza dei rapporti giuridici, gli spazi temporali del recupero (prescrizione), l’incolpevole affidamento del beneficiario dell’aiuto ed ancor più in generale, possibili profili di legittimità costituzionale delle norme interne.

Infatti, secondo la Corte di Giustizia, è possibile avvalersi delle norme nazionali al fine di disciplinare le azioni di recupero solo nella misura necessaria per l’attuazione del diritto comunitario, ma l’applicazione delle norme nazionali non deve menomare la portata e l’efficacia del diritto comunitario, come avverrebbe in particolare se tale applicazione della norma interna rendesse praticamente impossibile il recupero delle somme irregolarmente versate.

Al riguardo, sia la Corte di Cassazione, che la Corte Costituzionale, seguendo la rigida interpretazione adottata dalla giurisprudenza comunitaria, hanno più volte precisato che le disposizioni comunitarie ricevono diretta applicazione nell’ordinamento italiano, pur non abrogando, né modificando la norma interna incompatibile, che deve essere invece disapplicata da ogni giudice nazionale.

Giova ulteriormente sottolineare, anche per il tipo di argomentazioni ampiamente spese dalla parte appellata e per la rilevanza della questione in punto di onere della prova, che è l’operatore economico a doversi rendere parte diligente verificando e dimostrando in sede di recupero la regolarità ed il rispetto delle procedure destinate ad accertare la compatibilità della concreta concessione dell’aiuto con le norme comunitarie che lo prevedono e ne regolano il regime, e ciò sempre nella prospettiva che l’unico ordinamento a dovere essere applicato e rispettato in prima battuta è quello comunitario (Cass. 25 marzo 2003 n.4354 e Corte Cost., ord. n.36 del 6 febbraio 2009).

Con l’effetto che se l’impresa ha goduto di un beneficio pubblico derivante da una disposizione normativa interna allo Stato membro, non approvata, come nel caso in esame, preventivamente dalla Commissione (aiuto non notificato), tale impresa si assume il rischio che la Commissione medesima possa poi successivamente dichiarare incompatibile l’aiuto statale e richiedere allo Stato membro il suo recupero, dovendosi dunque escludere in radice il legittimo affidamento del beneficiario.

Ancora deve aggiungersi che l’obbligo di restituzione del beneficio illegittimamente goduto è diretto alla ripristino dello status quo ante mediante la rimozione del vantaggio indebitamente goduto dal beneficiario rispetto ai suoi concorrenti.

La regola de minimis fissa una cifra assoluta quale soglia di aiuto al di sotto della quale si può considerare come inapplicabile l'articolo 107 (87), paragrafo 1 e l'aiuto non è più soggetto all'obbligo della previa notifica alla Commissione.

Tale regola si basa sul principio che, nella grande maggioranza dei casi, gli aiuti di importo esiguo non hanno alcun impatto sensibile sugli scambi e sulla distorsione della concorrenza tra Stati membri.

Per poter beneficiare di tale misura, è necessario che l'aiuto tra l’altro soddisfi i seguenti criteri:

L'importo massimo totale (ratione temporis) deve restare entro il limite di € 100 000 su un periodo di tre anni a decorrere dal momento del primo aiuto de minimis.

Tale importo comprende qualsiasi aiuto pubblico accordato a titolo della regola de minimis e non pregiudica la possibilità del beneficiario di ottenere altri aiuti in base a regimi autorizzati dalla Commissione.

3. – Fatte tali precisazioni di carattere generale, che tuttavia saranno riprese, per quanto necessario, nel prosieguo della trattazione, venendo più concretamente al caso in esame le misure di aiuto disposte dallo Stato italiano avevano riguardato:

-gli sgravi contributivi di cui all’art. 1 del decreto del ministero del Lavoro del 5 agosto 1994 in favore delle imprese situate a Venezia e Chioggia;

-lo sgravio totale degli oneri sociali di cui all’articolo 2 del decreto del 5 agosto 1994 per i nuovi posti di lavoro creati nelle imprese situate a Venezia a Chioggia.

Le autorità italiane, prima della Decisione finale del novembre 1999, avevano rappresentato alla Commissione che gli sgravi contributivi erano stati concessi per ovviare ai sovraccosti sostenuti dalle imprese operanti nelle isole della laguna quali, tra altri, costi di localizzazione elevati, costi aggiuntivi derivanti dal rispetto dei vincoli architettonici e paesaggistici, oneri logistici, disagi ambientali, invecchiamento e calo demografico della popolazione, regresso delle attività industriali, trasformazione di Venezia in città museo priva di vitalità e potenzialità di sviluppo ecc.. L’intervento pubblico, secondo l’intendimento del legislatore italiano, aveva la finalità di ripristinare parzialmente le condizioni di concorrenza tra imprese e avrebbe consentito alle stesse imprese di confrontarsi con le altre su un piano di parità.

La Commissione tuttavia riteneva che le misure adottate costituivano un regime di aiuti di Stato ai sensi dell’art. 107 (87) paragrafo 1 del Trattato comportando per l’Inps perdite di contributi, (il che equivaleva ad utilizzazione di risorse pubbliche), mentre le imprese, per effetto delle disposte misure, venivano a trovarsi in una situazione di sostanziale vantaggio rispetto alle imprese concorrenti che dovevano sostenere la totalità degli oneri. Inoltre le imprese beneficiarie erano per lo più imprese manufatturiere e nel settore dei servizi, con intensi scambi con gli Stati membri che venivano avvantaggiati, mentre le possibilità di altre imprese stabilite negli Stati membri di esportare i loro prodotti ne risultavano diminuite. Sottolineava la Commissione che il carattere compensatorio dell’intervento non escludeva che si trattasse di aiuto di Stato.

Osservava incisivamente la Commissione che il Trattato non mirava alla salvaguardia di una situazione di perfetta parità teorica tra imprese che invece operavano in un contesto reale e non in un mercato perfetto nel quale le condizioni che si trovavano ad affrontare erano assolutamente identiche.

L’articolo 1 della parte dispositiva della Decisione della Commissione del 1999 disponeva che in alcuni casi gli aiuti potevano considerarsi compatibili quando erano accordati alle piccole e medie imprese, o ad imprese localizzate in zona ammissibile alla deroga di cui all’art. 87 paragrafo 3 lettera c) del Trattato (gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterassero le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse) ovvero a qualsiasi altra impresa che assumeva categorie di lavoratori con particolare difficoltà di inserimento o di reinserimento nel mercato del lavoro.

Per il resto, gli aiuti erano incompatibili ed andavano recuperati da parte dello Stato italiano (articolo 5).

Poiché la Decisione della Commissione europea si era occupata delle caratteristiche generali del regime di aiuti in questione, anche in relazione al loro carattere multisettoriale, sullo Stato italiano veniva imposto un onere di verificazione della concreta situazione individuale di ciascuna impresa beneficiaria dell’agevolazione ed interessata dalle operazioni di recupero, come stigmatizzato anche dalla sentenza della Corte di Giustizia CEE del 6.10.2011 C-302/09.

3. .1. - Lo Stato italiano è intervenuto con la disciplina ad hoc rappresentata dall’art. 1 co. 351 e ss della legge n.228 del 2012 affidando all’Inps il compito di richiedere alle imprese beneficiarie degli aiuti de qua, gli elementi e la documentazione necessari per la identificazione dell’aiuto di Stato illegale “anche con riferimento alla idoneità dell’agevolazione concessa, in ciascun caso individuale a falsare la concorrenza ed incidere sugli scambi intracomunitari”.

Il co.352 della legge prevede che le imprese “forniscono le informazioni e la documentazione in via telematica, entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta”.

Il co. 353 prevede che qualora le imprese destinatarie della richiesta dell’Inps omettano senza giustificato motivo, di fornire le informazioni o di esibire i documenti richiesti, l’idoneità dell’agevolazione a falsare o a minacciare la concorrenza e incidere sugli scambi comunitari “è presunta e conseguentemente, l’Inps provvede al recupero integrale dell’agevolazione..”.

Il co.354 prevede che, ricevuta la risposta da parte delle imprese e quindi esaurita l’attività istruttoria anche a seguito del parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, l’Inps notifica l’avviso di addebito di cui all’art. 30 del d.l.78/2010 convertito nella l. n.122/2010 aumentato degli interessi calcolati sulla base del regolamento CE n.794/2004 dalla data in cui si è fruito dell’agevolazione e sino alla data del recupero effettuato.

3.2. - L’Inps ha fornito alla predetta Autorità garante per la concorrenza e per il mercato l’elenco delle aziende beneficiarie degli sgravi contributivi e in potenza destinatarie del recupero con specifica indicazione dei settori economici e delle attività da ciascuna effettivamente esercitate.

L’Istituto è stato invitato dall’Autorità sopradetta ad utilizzare, quale modello guida per la predisposizione della richiesta di informazioni prevista dalla legge n.228/2012, il “Formulario per la comunicazione di una operazione di concentrazione” in uso presso l’Autorità;
la motivazione di tale scelta era riposta nella analogia della materia e nelle tipologie di settori di attività in cui le imprese operavano.

Inviato tale formulario ed acquisite le risposte dalle imprese, l’Inps le ha verificate, comunque reperendo, circostanza non irrilevante nella vicenda, anche d’ufficio la documentazione afferente alla singola posizione individuale o per settori di attività.

4. - Occorre ora esaminare le censure sollevate in appello dall’Inps che ha sostenuto, sia pure con formulazioni evincibili dal contesto complessivo dell’atto, la erroneità della sentenza del primo giudice atteso che, contrariamente all’assunto delle ricorrenti in primo grado, esisteva nei limiti di quanto possibile una effettiva istruttoria “caso per caso” sull’aiuto di Stato illegale nei confronti delle imprese interessate.

Ritiene la Sezione che le conclusioni alle quali è pervenuto in maniera radicale il primo giudice, non possano essere condivise in specie, come si vedrà, in relazione alle caratteristiche della attività istruttoria che si richiedeva all’Inps ai fini del recupero dei benefici concessi.

4. 1. –Come già rilevato nelle ordinanze cautelari della Sezione (ex plurimis n.4747/2014), la legge n.228 del 2012 art. 1 co. da 351 a 356 ha posto disposizioni di carattere straordinario ed emergenziale, di carattere meramente attuativo ed esecutivo, a fronte delle stringenti sollecitazioni della Corte di Giustizia e della Commissione europea (comunicazione del 10.7.2012) per riportare a normalità, all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale e comunitario, una situazione di risalente inadempienza dello Stato italiano (la Commissione si era pronunziata il 25 novembre 1999) suscettibile di determinare pesanti conseguenze sanzionatorie a carico dell’Italia da parte della stessa Unione Europea.

Infatti lo Stato membro, destinatario di una Decisione che gli impone di recuperare aiuti illegittimi, è tenuto, ai sensi dell’art. 249, quarto co. Trattato CE ad adottare ogni misura idonea ad assicurare la esecuzione della Decisione;
si tratta di un obbligo di risultato e il recupero non deve essere solo effettivo, ma immediato.

Né potrebbero addursi impossibilità impreviste o imprevedibili di recupero, tali non essendo né le difficoltà giuridiche, ed in specie procedurali e conseguenti a provvedimenti cautelari o giudiziari anche passati in giudicato, né pratiche, né politiche.

Il concetto di impossibilità assoluta è stato costantemente interpretato in maniera restrittiva dalle Corti comunitarie ed è stato escluso che la impossibilità possa essere rinvenuta nella normativa nazionale sulla prescrizione (cfr. Comunicazione della Commissione 2007 C 272/05 punti 18-20) o su qualsiasi altra normativa interna tale da rendere difficoltoso o impossibile il recupero.

Peraltro lo Stato italiano non aveva mai chiesto modifiche alle Decisioni della Commissione europea adducendo impossibilità pratiche di recupero.

La normativa interna in esame (co.351), consentendo all’Inps di richiedere alle imprese beneficiarie degli aiuti concessi sotto forma di sgravio: ”..gli elementi corredati della idonea documentazione, necessari all’identificazione dell’aiuto anche con riferimento alla idoneità dell’agevolazione concessa, in ciascun caso individuale, a falsare la concorrenza ed incidere sugli scambi comunitari”, ha garantito libertà di scelta da parte delle imprese in relazione ai documenti da depositare, con il solo monito che un ingiustificato rifiuto od una altrettanta ingiustificata omissione in tale senso, sarebbero stati posti a fondamento di una presunzione iuris tantum circa la idoneità della agevolazione a falsare la concorrenza, incidendo sugli scambi comunitari.

Come già rilevato, l’onere della prova attraverso cui dimostrare la liceità dell’aiuto concesso, non poteva che gravare sulle stesse imprese beneficiarie. La regola del diritto europeo è nel senso che chi ha usufruito di un aiuto deve collaborare con l’autorità amministrativa per consentire la verifica della legittimità di tale fruizione, in specie quando l’aiuto non è stato previamente notificato, regola che non ha alcun effetto derogatorio rispetto al codice civile ed è conforme alla regola interna, costantemente applicata dal giudice nazionale, secondo la quale è onere del datore di lavoro che intende usufruire della riduzione contributiva in forza di una legge speciale che riconosca lo sgravio contributivo, a dovere provare i fatti costitutivi del proprio diritto.

Infatti l’obbligo di collaborazione da parte di imprese beneficiarie di sgravi contributivi è disciplinato dall’ordinamento interno all’art. 59 decimo co. del dPR 6 marzo 1978 n.218 che prevede “Gli imprenditori sono tenuti a fornire all’Inps tutte le notizie e le documentazioni necessarie a dimostrare il diritto all’applicazione degli sgravi e l’esatta determinazione degli stessi”.

Ne deriva che le conseguenze poste dalla legge alla mancata collaborazione del datore di lavoro o alla comunicazione di dati incompleti non danno luogo ad un abnorme inversione dell’onere probatorio, come reiteratamente sostenuto dalla appellata con censure anche di illegittimità costituzionale della legge 228/2012, ma vanno a svantaggio del datore di lavoro e non già dello Stato tenuto alla attività di verifica, il quale, peraltro, in tale occasione opera come longa manus della stessa Commissione europea.

Si aggiunga ancora che il Reg. CE n.1/2003 del Consiglio precisa che “Nel conformarsi ad una decisione della Commissione le imprese non possono essere costrette ad ammettere di avere commesso un’infrazione, ma sono in ogni caso tenute a rispondere a quesiti concreti e a fornire documenti, anche se tali informazioni possono essere utilizzate per accertare contro di esse o contro un’altra impresa l’esistenza di una infrazione”.

Quanto poi all’affidamento e alla buona fede dei datori di lavoro, occorre richiamare l’insegnamento della Corte di Giustizia CE 20 marzo 1997, Causa C-24/95, reiterato in altre pronunzie, secondo il quale : “ ..tenuto conto del carattere imperativo della vigilanza sugli aiuti statali operata dalla Commissione ai sensi dell’art. 93 del Trattato, le imprese beneficiarie di un aiuto possono fare legittimo affidamento, in linea di principio, sulla regolarità dell’aiuto solamente qualora quest’ultimo sia stato concesso nel rispetto della procedura prevista dal menzionato articolo. Un operatore economico diligente, infatti, deve normalmente essere in grado di accertarsi che tale procedura sia stata rispettata, anche quando l’illegittimità della decisione di concessione dell’aiuto sia imputabile allo Stato considerato”.

5. - Quanto al difetto di motivazione dell’avviso di addebito, per la complessità degli accertamenti e la difficoltà, se non l’impossibilità, di utilizzo di una espressione motivazionale appropriata e onnicomprensiva, occorre tenere conto e dare applicazione all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’obbligo, per l’Autorità emanante, di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato qualora, anche a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.

Ed invero tale obbligo di motivazione va inquadrato, senza formalismi, nel contesto complessivo del procedimento nell’ambito del quale si devono collocare, logicamente e giuridicamente, tutti i presupposti istruttori che hanno presidiato l’attività procedimentale in un rapporto di causa-effetto.

Come emerge dalla documentazione in atti, l’Inps ha effettuato una attività istruttoria improntata a caratteri di concreta fattibilità tenuto conto della mole della posizioni da esaminare;
l’attività istruttoria ha comportato l’audizione delle imprese che lo avevano richiesto o il reperimento da parte dell’Inps di ulteriore documentazione al fine di inquadrare le problematiche pur a fronte dell’elevato numero delle imprese beneficiarie dell’aiuto.

6. – Sono infondate le considerazioni della appellata in ordine alla incongruenza della redazione del formulario trasmesso dall’Inps alle imprese, peraltro annullato con sentenza del Tar Veneto, n. 1052/2013, passata in giudicato.

Tale formulario si sostanziava infatti in un atto meramente endoprocedimentale consistente nella semplice richiesta, genericamente rivolta ai soggetti beneficiari delle agevolazioni, di fornire gli elementi necessari per l’identificazione dell’aiuto di cui avevano goduto. Era quindi il datore di lavoro, secondo la normativa interna sopra richiamata e a conclusione dell’iter giudiziario di fronte alla Corte di Giustizia, a dovere rappresentare la peculiarità della situazione del caso individuale di volta in volta oggetto di verifica, fornendo elementi per la valutazione della idoneità, o meglio della non idoneità dei contributi ricevuti a provocare una distorsione della concorrenza. Tant’è che il legislatore ha previsto che in caso di rifiuto o omissione senza giustificato motivo, a fornire le informazioni o esibire i documenti entro trenta giorni, l’idoneità dell’agevolazione a falsare o a minacciare la concorrenza “è presunta” (co.353).

Né parte appellata poteva opporre, per i motivi sopra evidenziati, di immediatezza ed effettività del recupero, i principi in materia di garanzie partecipative del “giusto procedimento” di cui alla legge n. 241 del 1990, o la irreperibilità dei documenti in contrasto con l’art. 2220 c.c..

In particolare, sull’onere di mantenere le scritture contabili è sufficiente rilevare che la impresa non poteva certo affermare la propria posizione soggettiva al diritto agli sgravi contributivi invocando sic et simpliciter l'insussistenza dell'obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni (Cass. civile sez. I 26 gennaio 2011 n. 1842 ). In ogni caso non poteva non essere a conoscenza della Decisone della Commissione europea del 1999 e dunque era tenuta, per ciò solo, a mantenere i documenti che in ipotesi avrebbero consentito di dimostrare la non incidenza degli sgravi contributivi sulla concorrenza;
peraltro la impresa aveva adito le corti comunitarie nel 2000 ed era quindi ben consapevole del contenzioso in atto da parte della Commissione europea con lo Stato italiano, il che imponeva un onere di conservazione della documentazione.

7. – Tema centrale dell’odierno contenzioso è riposto nella asserita carenza di istruttoria da parte dell’Inps atteso che il carattere illecito delle agevolazioni non poteva essere affermato in via generale, ma doveva essere accertato dall’Inps, individualmente, caso per caso, preventivamente alla emissione dell’atto di recupero.

Tale istruttoria individuale, senz’altro necessaria in relazione all’univoco tenore letterale della Decisione e delle pronunzie del giudice comunitario, impone comunque delle adeguate precisazioni.

Ritiene la Sezione al riguardo che sia la Commissione europea nella Decisione del 1999, sia il Tribunale di Lussemburgo, sia la Corte di Giustizia, sia il più recente carteggio della Commissione con lo Stato italiano, abbiano perimetrato in senso molto restrittivo la portata reale di tale attività istruttoria, caso per caso.

Come già esposto in precedenza, nell’attività dello Stato destinatario del recupero, non vi è alcun esercizio di discrezionalità amministrativa essendo essa tesa solamente ad acclarare se le imprese presentavano o meno certe caratteristiche cui la disciplina comunitaria e la Decisione della Commissione europea ricollegano gli effetti derivanti dall’applicazione dell’art. 107 (87), paragrafo 1 del Trattato CE.

La Decisione della Commissione europea era stata assunta a conclusione di una articolata e dialettica fase istruttoria in cui era intervenuto, non solo lo Stato italiano con le proprie osservazioni e chiarimenti, ma anche il Comune di Venezia ed il comitato “Venezia vuole vivere” che aveva presentato uno studio effettuato dal Coses (consorzio per la ricerca e la formazione) inteso a dimostrare le difficoltà che le imprese operanti nella laguna incontravano rispetto alle imprese della terraferma concludendo per l’assenza di un effetto reale o anche potenziale di distorsione della concorrenza.

La stessa Commissione insistentemente chiedeva all’Italia ulteriori notizie e chiarimenti (punto 9).

La Decisione della Commissione europea del 25 novembre 1999 (punti 61 e ss. e paragrafo V, Conclusioni), dopo avere esaminato, sia alcuni casi particolari ad essa sottoposti, sia le problematiche di carattere generale del regime di aiuti, statuiva che le imprese della laguna, di norma, venivano a trovarsi in una situazione più vantaggiosa rispetto alle imprese concorrenti che dovevano sostenere la totalità degli oneri, con il risultato che la concorrenza e gli scambi ne risultavano alterati.

In alcuni casi in cui la Commissione aveva avuto la concreta disponibilità dei dati di fatturato aziendale e del flusso di origine dei clienti e dunque era possibile una analisi individuale, caso per caso, lo stesso organo ha giudicato sistematicamente irrilevanti, tranne sporadiche eccezioni, tutte le pur articolate argomentazioni presentate, ritenendo assorbente, ai fini della applicazione della normativa in esame, la considerazione della astratta potenzialità dell’aiuto a incidere sugli scambi comunitari.

Solo in specifici casi gli aiuti concessi dallo Stato italiano venivano considerati in astratto compatibili con il mercato comune, se accordati alle piccole e medie imprese (PMI) ai sensi della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato alle piccole e medie imprese, alle imprese che non corrispondevano a tale definizione, localizzate in una zona ammissibile alla deroga di cui all’art. 87, paragrafo 3, lett. c) del Trattato, a qualsiasi altra impresa che assumeva categorie di lavoratori con particolari difficoltà di inserimento o di reinserimento nel mercato di lavoro secondo gli orientamenti comunitari in materia di occupazione (punto 105).

A ciò doveva aggiungersi il criterio de minimis, come criterio di ordine generale (punto 110).

7. 1. - E’ evidente quindi che l’istruttoria, caso per caso, non poteva riguardare la spettanza degli aiuti di Stato, perimetrata dalla Commissione per i casi di incompatibilità e per i casi di eccezionale compatibilità, con sufficiente grado di precisione per consentire alle autorità nazionali di eseguirla.

Non possono quindi trovare favorevole scrutinio le argomentazioni della appellata, affidata a complessi pareri pro veritate, sulla non incidenza degli aiuti nel contesto macroeconomico lagunare tenuto conto del flusso degli scambi, dei bilanci aziendali, del carattere localistico e geograficamente delimitato degli interventi. Né poteva ritenersi rilevante il fatto che gli sgravi, andando ad avvantaggiare le imprese che operavano nelle città interessate, potevano essere goduti da qualsiasi altra impresa che avesse localizzato i propri lavoratori nella medesima città.

Siffatte questioni sono state infatti esaminate in ogni ragionevole prospettiva e in tutte le possibili implicazioni, a monte, dalla Commissione europea e successivamente dal giudice comunitario e respinte con motivazioni che, per quanto aventi una portata generale e astratta, inerendo al regime di aiuti e non ai singoli aiuti, non lasciano trapelare spazi di accoglimento una volta applicata la regola generale a singoli casi individuali.

Con l’effetto che, salvo casi particolari che possono rinvenirsi nelle strettissime maglie della Decisione della Commissione nonché nelle pronunzie dei giudici comunitari, avvalendosi dei medesimi criteri metodologici utilizzati nelle stesse, la attività istruttoria ai fini del recupero non poteva che svolgersi sulla ricorrenza di quei casi di compatibilità che proprio la Commissione aveva ritenuto come non contrastanti con la normativa comunitaria.

Ed infatti se è vero come già riportato che “quando uno Stato membro concede un aiuto a una impresa, detto aiuto può contribuire a mantenere o aumentare la sua attività sul mercato nazionale con la conseguenza che le opportunità per le imprese con sede in altri Stati membri di inserirsi nel mercato ne vengono ridotte…inoltre il rafforzamento di una impresa che non abbia ancora partecipato a scambi intracomunitari può porla nella condizione di penetrare il mercato di un altro Stato membro” (nota del 21 novembre 2012 della Commissione europea), ne deriva, per la radicalità anzi la lapidarietà di tale statuizione, che qualsiasi beneficio tale da rafforzare una impresa, produce distorsioni sulla concorrenza anche se l’impresa è radicata nel contesto geografico lagunare e con scarsi o nulli scambi intracomunitari.

Con l’effetto che scarso spazio viene lasciato al datore di lavoro per giustificare, sul preteso ed in parte opinabile piano della scienza economica e sul carattere localistico della sua attività, la mancata distorsione della concorrenza;
non per nulla la giurisprudenza comunitaria ha sottolineato che la nozione di aiuto distorsivo è concetto giuridico (punto 132, Corte di Giustizia 9 giugno 2011) e non economico.

Venendo quindi all’istruttoria, caso per caso, ben ristretto finisce per esserne l’ ambito di accertamento che veniva rimesso all’Inps, rivestendo la stessa istruttoria un grado di automaticità divenendo il recupero la regola in quanto atto obbligato e necessitato.

Lo stesso legislatore nazionale ha ritenuto che l’agevolazione concessa fosse, di norma, idonea a falsare la concorrenza se le imprese “rifiutino od omettano, senza giustificato motivo, di fornire le informazioni o di esibire i documenti”, ma è evidente che tali informazioni e documenti non potevano che avere contenuto necessitato, dovendo attenere, in maniera pressocchè adesiva, alle indicazioni eccezionali di compatibilità statuite dalla Commissione.

Pertanto al di là della enfatizzazione che, comprensibilmente, ma strumentalmente, ne dà la appellata sulla base delle locuzioni utilizzate dalla Commissione e dal giudice comunitario, la istruttoria, caso per caso, si risolve logicamente in ambiti vincolati a presupposti fattuali e giuridici, certo riferiti alla posizione di ciascuna singola impresa, ma non tali da mettere in discussione, surrettiziamente, le chiare conclusioni della Decisione della Commissione europea e l’indirizzo generale delle corti comunitarie, assolutamente vincolanti per lo Stato italiano in ordine al carattere distorsivo della concorrenza degli aiuti concessi.

7.2. – Ritiene quindi la Sezione che venga fortemente depotenziata la censura sulla quale insistono le appellate relativa alla mancata effettuazione della verifica individuale da parte dell’Inps essendo, a contrario, il richiamo agli atti del procedimento ed al parere espresso dall’Autorità per lo più sufficiente, a dare conto delle ragioni giuridiche sottese al provvedimento di recupero tenuto conto:

-del fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellati, era onere del datore di lavoro dimostrare che l’aiuto non aveva prodotto distorsioni alla concorrenza comunitaria;

-del fatto che tale dimostrazione non poteva essere affermata in ambiti che, sia pure con indicazioni di carattere generale ed astratta, ma con immediata ricaduta sulle posizioni individuali, la Commissione aveva affermato si determinasse senz’altro la distorsione (o la minaccia della distorsione) della concorrenza.

La Autorità garante per la concorrenza e del mercato attraverso la Direzione Servizi Pubblici Locali e Promozione della Concorrenza che tra l’altro ha il compito di collaborare in materia di aiuti di Stato con la Commissione Europea e il Dipartimento Politiche Europee della Presidenza del Consiglio, in virtù del richiamo contenuto nella legge 228/2012 aveva individuato i mercati rilevanti e gli ambiti merceologici di massima in cui erano attive le imprese che all’epoca dei fatti avevano fruito delle agevolazioni di cui è causa.

La Autorità aveva assunto, quale costante parametro di valutazione, l’idoneità delle suddette agevolazioni ad influenzare la domanda anche transfrontaliera, ritenendo tuttavia che non erano in grado di influenzare le dinamiche concorrenziali ed il commercio intracomunitario, gli sgravi contributivi a favore delle imprese che all’epoca dei fatti soddisfacevano una domanda tipicamente locale o per i cui beni e servizi offerti non erano ravvisabili flussi di import/export come la ristorazione, i servizi di barbiere, parrucchiere, attività di panificazione, attività di giardinaggio.

Tale parere, al quale l’Inps si è attenuta nella istruttoria, poneva dunque delle indicazioni sufficienti ai fini della verifica individuale, caso per caso.

Quanto specificatamente al settore alberghiero, occorre considerare che la disciplina degli aiuti di Stato, così come è stata elaborata dalla Commissione europea in applicazione dell' art. 107 (ex 87) del Trattato, non prende in considerazione le attività turistiche, ed in specie quelle alberghiere, con l’effetto che in tale settore non possono che essere applicati gli orientamenti elaborati con riferimento a tutte le altre attività economiche. Le attività turistiche, in quanto attività di impresa, vengono quindi equiparate alle attività delle imprese del settore manifatturiero.

Se è vero che per quanto riguarda le strutture ricettive, in generale, l'individuazione da parte del consumatore-cliente dell'albergo è secondaria rispetto alla scelta della meta di destinazione, in particolare per il turismo che interessa la città di Venezia, dove è determinante il richiamo eccezionale della città d'arte, della mostra del cinema o di particolari eventi, tuttavia non può, nel contempo, non rilevarsi che le censure che avrebbero potuto giustificare un trattamento differenziato del settore turistico-alberghiero, sono state direttamente o indirettamente esaminate e respinte dalla Commissione europea prima, e dal giudice comunitario dopo, proprio con riferimento, alla posizione del tutto emblematica e riepilogativa delle possibili particolarità, dell’ hotel Cipriani, quest’ultimo situato in un contesto del tutto particolare caratterizzato dall’evidente limitazione all’entrata nel mercato di nuove imprese alberghiere. In nessun caso la Commissione europea ed il giudice comunitario hanno inteso ritenere che gli aiuti al Cipriani, per la localizzazione geografica esclusiva dell’albergo e per il tipo di prodotto offerto nella città di Venezia, non potessero determinare una distorsione della concorrenza.

Con l’effetto che in relazione alle regole generali e astratte fissate dalla Commissione, la concessione di sovvenzioni alle imprese del settore turistico operanti nella laguna deve essere esaminata come ogni altro aiuto di Stato ad imprese presenti sul mercato comunitario e dunque ritenersi comportare un vantaggio economico riducendo i costi di realizzazione dei progetti d'investimento ed i costi di gestione delle imprese. Tali misure, avvantaggiando solo imprese alberghiere operanti in una determinata zona del territorio italiano, le rafforzano e le rendono più competitive sul mercato degli scambi di settore turistico nell’area comunitaria.

Pertanto l'aiuto falsa o minaccia di falsare la concorrenza ed è atto ad incidere sugli scambi intracomunitari non perché viene ad offrirsi, come nel settore manifatturiero, un prodotto più competitivo rispetto a quello proposto da altri operatori collocati nel mercato comunitario, ma per la evidente considerazione che l’aiuto rafforza la situazione economico finanziaria e la possibilità di azione della impresa alberghiera lagunare che lo riceve e che può aumentare, come ogni altro operatore economico, i profitti o diminuire i costi e divenire più competitiva. Pertanto le misure in causa sono, in linea di principio, vietate dall'articolo 107 (87), paragrafo 1, del Trattato e possono essere considerate compatibili con il mercato comune unicamente se sono ammesse a beneficiare di una delle deroghe del Trattato e della Decisione della Commissione.

Quanto poi ai complessi ragionamenti di ordine economico del consulente di parte Prof. P D, intesi ad affermare la irrilevanza degli aiuti alle imprese alberghiere del settore, la giurisprudenza comunitaria evidenzia che per gli alberghi, il fatto di trovarsi nella città di Venezia o sulle isole della laguna può offrire grande libertà nella fissazione dei prezzi e rappresentare un vantaggio concorrenziale significativo, e che i costi supplementari sostenuti per i disagi lagunari sono ampiamente compensati dai prezzi più alti ed in definitiva dalla attrazione unica della città lagunare.

Occorre aggiungere che per il settore alberghiero l’Inps ha effettuata una specifica istruttoria avvalendosi del parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, reso in data 26 luglio 2013, che pure rilevando la specificità dei mercati geografici di riferimento con dimensione comunale o regionale, ha concluso, con riferimento alle strutture recettiva di fascia alta, che ”.. non pare sia possibile escludere che, per le strutture recettizie di maggior livello qualitativo, il beneficio ottenuto possa averne rafforzato la posizione concorrenziale a danno di analoghe strutture transfrontaliere limitrofe”.

Sulla base di tale parere l’Inps ha ritenuto che il mercato rilevante del settore alberghiero fosse dato dalla fascia alta, alberghi a quattro o cinque stelle, esaminando funditus la situazione turistico alberghiera della città di Venezia che aveva visto un andamento crescente delle presenze turistiche nella città lagunare con aumento dei fatturati e delle tariffe di vendita.

8.- Occorre ancora esaminare alcuni punti particolari presenti nella memoria della appellata.

Sul giudicato interno e sul rispetto delle norme interne, la Sezione richiama l’orientamento del giudice comunitario (v. Corte di Giustizia, 18 luglio 2007, in causa C-119/05, Lucchini;
Corte di Giustizia, 3 settembre 2009, in causa C-2/08, Olimpiclub) applicato dalla Corte di Cassazione con numerose pronunzie (Cass. sez. un. n. 26948 del 2006;
n.6756 del 2012 ;
n.6538 del 2012;
n.7162 del 2013 ed altre) che ha rilevato che l’obbligatorietà del recupero, da parte dello Stato membro, non consente al giudice nazionale alcuna diversa valutazione al punto che nemmeno il giudicato di diritto interno (ex 2909 c.c.) può impedire il recupero privando la pronunzia giurisdizionale di quel carattere di immutabilità nel tempo che la caratterizzava.

Inoltre la conformazione del diritto interno al diritto comunitario deve trovare attuazione anche con riguardo alle regole, processuali o procedimentali (quali ad esempio quelle poste della legge n.241 del 1990) che di tale diritto comunitario possono impedire una piena applicazione. Conseguentemente l’unica chiave interpretativa della normativa di diritto interno, anche con riferimento a profili di legittimità costituzionale delle norme nazionali, ruota attorno alla prevalenza del diritto comunitario sulla norma nazionale e sul fine precipuo di garantire l'esecuzione immediata ed effettiva della decisione di recupero per realizzare la certezza delle norme comunitarie che permettono una interpretazione conforme in tutti gli Stati membri.

Inoltre, in ossequio al principio di supremazia del diritto comunitario, riconosciuto da tutti gli Stati membri, con perdita a favore delle istituzioni comunitarie della propria sovranità legislativa, le sentenze della Corte di Giustizia hanno effetti vincolanti per i giudici nazionali chiamati a pronunziarsi sulle singole fattispecie recando norme integrative dell’ordinamento comunitario.

9.- Quanto alla prescrizione, occorre tenere conto che l'art. 15 del Reg. CE n. 659/1999 ha disposto che sono i poteri della Commissione europea, finalizzati al recupero di aiuti di Stato, soggetti a un periodo limite di dieci anni decorrenti dal giorno in cui l'aiuto è stato concesso al beneficiario.

Tale termine, stante il richiamato principio di generale prevalenza del diritto comunitario, produce effetti anche di diritto interno, escludendo in radice la applicabilità di disposizioni potenzialmente incompatibili. Con l’effetto che la normativa nazionale sulla prescrizione va comunque disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione europea divenuta definitiva (cfr. Cass. n. 23418/2010).

La Corte di Giustizia, nella sentenza 20 marzo 1997 in causa C-24/95 Alcan (punti 34-37), ha statuito che “..quando l’autorità nazionale lascia scadere il termine stabilito dal diritto nazionale per la revoca della decisione di concessione, la situazione non può essere equiparata a quella in cui un operatore economico ignora se l’amministrazione competente intende pronunziarsi e il principio della certezza del diritto impone che si metta fine a questa incertezza allo scadere di un determinato termine. Considerata la mancanza di potere discrezionale dell’autorità nazionale, il beneficiario dell’aiuto illegittimamente attribuito cessa di trovarsi nell’incertezza non appena la Commissione adotta una decisione che dichiari l’incompatibilità dell’aiuto e ne ordini il recupero. Il principio della certezza del diritto non può quindi precludere la restituzione dell’aiuto per il fatto che le autorità nazionali si sono conformate con ritardo alla decisione che impone la restituzione. In caso contrario il recupero delle somme indebitamente versate diverrebbe praticamente impossibile e le disposizioni comunitarie relative agli aiuti di Stato sarebbero private di ogni effetto utile”.

Sempre sul termine di prescrizione di dieci anni, di cui al richiamato art. 15 del Regolamento CE n. 659 del 1999 per l'esercizio dei poteri della Commissione europea per il recupero degli aiuti, la Corte di Cassazione ha condivisibilmente osservato che se è vero che lo stesso termine concerne i rapporti tra Commissione e Stati membri (Corte Cost. ord. n. 125 del 2009), quel termine non è senza conseguenze nell'ambito nazionale dei rapporti tra Stato e beneficiario dell’aiuto. Proprio perché l'adozione da parte della Commissione di una Decisione che dichiari l'incompatibilità dell'aiuto e ne ordini il recupero, determina per il beneficiario dell'aiuto illegittimamente attribuito, la cessazione dello stato di incertezza che giustifica l'esistenza di un termine di prescrizione, divengono rilevanti nell'ordinamento nazionale l'interruzione del termine di prescrizione che è connessa all'inizio dell'azione della Commissione e la sospensione del medesimo termine per il tempo in cui la decisione della Commissione è oggetto di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee, previste nel regolamento comunitario (così Cass. n.23418 del 2010 ;
n.7162/2013 cit.).

Altrimenti, per quanto riguarda l'ordinamento italiano, coincidendo il termine ordinario di prescrizione nel diritto nazionale (dieci anni ex art. 2946 c.c. ) con il termine di prescrizione assegnato dal diritto comunitario alla Commissione per iniziare l'azione di recupero degli aiuti (dieci anni ex art. 15 del regolamento n. 659 del 1999), l'impossibilità dell'effettivo recupero dell'aiuto illegale ben potrebbe essere la regola e non l’eccezione.

La Cassazione ha quindi affermato il seguente principio di diritto al quale la Sezione intende conformarsi: "in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario, qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva" (Cass. Civ. n.23418/2010 cit).

10. – In ordine all’affidamento del datore di lavoro, la Corte di Giustizia CE, come sopra già rilevato, ha affermato che uno Stato membro, le cui autorità abbiano concesso un aiuto in violazione delle norme procedurali di cui all'art. 88 CE, non può invocare il legittimo affidamento dei beneficiari per sottrarsi all'obbligo di adottare i provvedimenti necessari ai fini dell'esecuzione di una decisione della Commissione con cui quest'ultima ordina la ripetizione dell'aiuto. Ammettere tale possibilità significherebbe, infatti, privare di effetto utile le norme di cui agli artt. 87 CE e 88 CE, in quanto le autorità nazionali potrebbero far valere in tal modo il proprio illegittimo comportamento, al fine di vanificare l'efficacia delle decisioni emanate dalla Commissione in virtù di tali disposizioni del Trattato (Corte di Giustizia CE 7 marzo 2002, C-310/99).

11. - Quanto alle argomentazioni svolte dalla appellata che i contributi oggetto di recupero da parte dell’Inps avrebbero costituito costi fiscalmente deducibili dal reddito prodotto negli anni dal 1995 al 1997 avendo la impresa dedotto minori costi e conseguentemente pagato più imposte di quelle che in assenza dello sgravio sarebbero risultate dovute, la Sezione è del parere che siffatto genere di richieste non possano essere indirizzate all’Inps ma all’Agenzia delle Entrate. E’ infatti il contribuente ad essere tenuto a chiedere all'erario eventuali rimborsi fiscali per somme eventualmente corrisposte in eccesso;
dunque, non può essere posta a carico dell’Inps l’azione di ripetizione al netto delle eventuali imposte pagate in eccesso.

12. –L’appellata chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 355 e 356 della legge n.228/2012 e dell’art.49 della legge n.234/2012 per contrasto con gli artt.3, 24, 25, 101, 111. Si eccepisce anche la violazione del diritto ad un processo giusto ed equo così come sancito dalla norma convenzionale di cui all’art.6 della CEDU, l’ illegittimità costituzionale della legge n.228/2012 per contrasto con l’art. 117 c.1 Cost., quale norma interposta con la disposizione convenzionale CEDU.

13 - Tali censure sono manifestamente infondate.

La giurisdizione esclusiva prefigurata nell’art. 49 l. 234/2012 va inquadrata alla luce della sua formula caratterizzante: “…gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all'articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999..”, “…a prescindere dalla forma dell’aiuto e dal soggetto che l’ha concesso”. La varietà delle forme di aiuto e l’intreccio di norme, di ordinamenti, di amministrazioni e di situazioni giuridiche concrete, spiega, in termini costituzionali (art. 103 Cost.), la scelta da parte del legislatore della attribuzione della giurisdizione esclusiva ad un giudice unico delimitando, d’altro canto, alcuni limiti di tale giurisdizione che pur sempre opera entro un ambito preciso atteso che gli atti ed i provvedimenti nazionali di recupero sono adottati, per definizione dell’art. 48 e dell’art. 49 l. 234/2012, in esecuzione» di una decisione di recupero della Commissione europea.

Quindi suppongono come già decisa e come legittima la necessità del recupero,

dando adito solo ai presupposti fattuali dell’esecuzione atteso che come più volte rilevato il giudice nazionale non è competente a sindacare nel merito la compatibilità dell’aiuto di Stato con il diritto comunitario;
la valutazione è riservata alla Commissione e poi alla Corte di Giustizia.

In questi casi lo Stato italiano non ha di norma la possibilità di operare una valutazione difforme da quella operata in sede comunitaria poiché l’interesse da bilanciare con le aspettative delle imprese destinatarie degli aiuti ha carattere sovranazionale e riguarda l’attuazione di vincoli di matrice comunitaria: la vera questione, la compatibilità o meno dell’aiuto di Stato, si consuma soprattutto nella giurisdizione e nel diritto dell’Unione con l’effetto che la giurisdizione amministrativa è concorrente, ma subordinata alla giurisdizione della Corte di Giustizia. In ogni caso il legislatore ha configurato l’aiuto di Stato come una materia particolare, delimitata ed unitaria, grazie alla formula dell’art. 49 “a prescindere dalla forma dell’aiuto e dal soggetto che l’ha concesso”, nella prospettiva di un’unica norma di riferimento posta dall’art. 108 del TFUE, preordinata alla tutela della concorrenza ed alla protezione dei rapporti di mercato effettivi e non lesivi del diritto d’impresa.

La doglianza relativa al mancato ossequio al principio del giudice naturale precostituito per legge si basa su una interpretazione distorta e strumentale del dettato costituzionale ed in particolare dell’art.25 primo co. della Carta fondamentale. E’ pur vero che tale principio ha rilievo determinante per assicurare al cittadino l’imparzialità del giudice, sottraendo la giustizia ad ogni possibilità di arbitrio in quanto solo attraverso un giudice precostituito per legge che l’ordinamento può razionalmente garantire la neutralità delle proprie sentenze. Tuttavia, nel caso oggetto del presente giudizio, l’art.49 della legge 234/2012, imponendo la devoluzione in via esclusiva al giudice amministrativo delle controversie in esecuzione di una decisione di recupero, ha confermato il ruolo neutrale del giudice amministrativo di supremo garante del pubblico potere in una materia ove gli interessi della collettività, orientati al recupero di somme illegittimamente erogate, appaiono prioritari e tutelabili soltanto attraverso l’esercizio di speciali poteri valutativi, costituzionalmente allo stesso riservati.

13.1. L’ estinzione ope legis dei processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge n.228/2012 (art.1 comma 356) è conseguenza necessitata dalla pronuncia della Corte di Giustizia del 9 giugno 2011 nella parte in cui ha previsto l’obbligo, da parte delle autorità nazionali, prima di procedere al recupero di un aiuto, di verificare, in ciascun caso individuale, se l’agevolazione concessa potesse, in capo al suo beneficiario, falsare o meno la concorrenza ed incidere sugli scambi intracomunitari. La complessità della materia relativa alla possibile distorsione della concorrenza, il panorama normativo e giurisprudenziale di riferimento anche in relazione alle implicazioni di carattere internazionale, ha spinto il legislatore ad individuare nel giudice amministrativo la sede giurisdizionale più opportuna per la trattazione di quei giudizi, contraddistinti da un temperamento del principio dispositivo tipico del sindacato giurisdizionale ordinario. La previa estinzione di diritto dei processi ancora sub iudice rappresentava quindi il necessario presupposto processuale ai fini della realizzazione di una nuova istruttoria rispondente alle istanze di verifica “caso per caso” imposte dalla pronuncia della Corte di Giustizia e che soltanto l’esercizio di un potere pubblicistico poteva nel concreto garantire.

In sintesi la previsione di una procedura istruttoria diretta ad accertare l’assenza di potenzialità dell’impresa di alterare la concorrenza è atta a fare venire meno le basi del precedente contenzioso e rendeva giustificato l’intervento del legislatore senza vanificare la esigenza del giusto processo e del contraddittorio delle parti e senza lesione del diritto di difesa in sede giurisdizionale nei confronti degli atti di recupero disposti fino ad allora dall’Inps.

Per le considerazioni che precedono sono dunque manifestamente infondate le censure di illegittimità costituzionale della legge 228/2012 in relazione ai vari parametri di legittimità denunziati ed in specie agli artt. 25 e 3 Cost..

Parimenti infondate sono le questioni sollevate in merito alla violazione da parte dell’art.1 commi 355 e 356 della legge 228/2012, in riferimento all’ art.117 c.1 Cost. per contrasto con l’art.6 CEDU. Le garanzie offerte dalla norma convenzionale summenzionata, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, vanno nella direzione di consentire alle parti, durante lo svolgimento di un dato iter processuale, la facoltà di influire direttamente sugli esiti della decisione attraverso l’esercizio del diritto al contraddittorio. Secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, infatti, la parità delle armi tra le parti deve inevitabilmente realizzarsi sin dalla fase procedimentale e ciò pure ove sia previsto un successivo riesame in sede giurisdizionale. La Corte CEDU ha adottato in numerose sue pronunce un approccio flessibile fondato sulla considerazione unitaria del procedimento amministrativo e della successiva fase giurisdizionale: in sostanza, stando a tale impostazione, tutte le volte in cui non viene data concreta attuazione alle garanzie dell’art. 6 CEDU nel corso del procedimento amministrativo (ossia nella sede nella quale l’autorità amministrativa può incidere significativamente sugli interessi delle parti), assume rilevanza la successiva fase processuale come luogo di possibile correzione, sia pure ex post e in via eventuale, dei presunti deficit di tutela che si siano verificati in sede procedimentale. In tal senso va letto l’intervento del Legislatore nazionale che, alla luce del dictum europeo relativo alle modalità di recupero degli aiuti illegittimi “caso per caso”, ha radicato la competenza delle relative controversie dinnanzi al giudice amministrativo imponendo il compimento ex novo di una istruttoria per favorire l’individuazione delle specificità dei singoli casi così come richiesto dalla pronuncia della Corte di Giustizia. Alle imprese coinvolte nell’attività di recupero delle agevolazioni è stato consentito, dunque, di rappresentare in giudizio tutti i fatti costitutivi delle proprie pretese in attuazione del superiore diritto al contraddittorio.

Ne può intendersi integrata la violazione della Convenzione CEDU avuto riguardo al principio di ragionevole durata del processo. La corte CEDU ha più volte avuto modo di indicare vari criteri al fine di stabilire se in concreto sussista una violazione in tal senso;
in specie, la particolare complessità del caso che può verificarsi in considerazione, per esempio. del numero delle parti, dello ius superveniens, di eventuali contrasti giurisprudenziali irrisolti, del comportamento giudiziario tenuto nel corso del procedimento dal soggetto che poi lamenta l’eccessiva durata del procedimento. La materia oggetto del presente giudizio, stante le modifiche normative intervenute in attuazione della pronuncia della Corte di Giustizia, ben si identifica nei casi summenzionati, di particolare complessità e di comportamenti dilatori propri dei soggetti che poi si lamentano della irragionevole durata dei processi e porta, in conclusione, ad escludere la violazione degli artt.111 e 117 c.1 Cost. in relazione all’art.6 CEDU.

14. – Ferma fondatezza dell’appello relativamente alla necessità del recupero dell’aiuto e specificatamente la necessità del recupero del capitale, occorre considerare che per gli interessi, l’art. 1 co. 354 della legge 228 del 2012 ha previsto il calcolo sulla base delle disposizioni di cui al Capo V del Regolamento (CE) n.794/2004 della Commissione del 21 aprile 2004, maturati dalla data in cui si è fruito dell’agevolazione e sino alla data del recupero effettivo.

La appellata ha lamentato che il Regolamento di cui sopra è applicabile, per sua stessa prescrizione (art. 13 ), solo alle decisioni di recupero notificate in epoca successiva alla sua entrata in vigore avvenuta il 20 maggio 2004 mentre la decisione di recupero è stata notificata allo Stato italiano in data 10 gennaio 2000 e dunque in epoca anteriore alla entrata in vigore del ridetto Regolamento.

L’Inps a sua volta ha ribadito che la normativa interna ha previsto la quantificazione degli interessi sulla base del Regolamento n.794/2004 sostenendo quindi che le relative eccezioni non sono fondate.

La Sezione richiama in proposito quanto statuito dalla Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con ordinanza n.3006 del 14 novembre 2013 pubblicata l’11 febbraio 2014 in fattispecie assimilabile a quella in esame, con la quale è stato chiesto, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, di pronunziarsi in via pregiudiziale sulla seguente questione:

"se l'art. 14 del Regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell'art. 93 del trattato CE, e gli artt. 9, 11 e 13 del Regolamento (CE) n. 794/2004 della Commissione del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del regolamento predetto, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una legislazione nazionale che, in relazione ad un'azione di recupero di un aiuto di Stato conseguente ad una decisione della Commissione notificata in data 7 giugno 2002, stabilisca che gli interessi sono determinati in base alle disposizioni del capo 5^ del citato Regolamento n. 794/2004 (cioè, in particolare, agli artt. 9 e 11), e, quindi, con applicazione del tasso di interesse in base al regime degli interessi composti".

La Decisione della Corte di Giustizia CE, imminente, attese le conclusioni già rassegnate da parte dell’Avvocato generale, appare rilevante anche sulla questione in esame relativa al calcolo degli interessi.

15. - Conclusivamente la Sezione:

a) in riforma della sentenza appellata accoglie l'appello dell’Inps quanto al recupero della sorte capitale dell'aiuto che dovrà essere integralmente restituita dalla appellata;
respinge in parte qua il ricorso di primo grado;

b) sospende in parte qua il giudizio ai sensi degli articoli 79 e 80 c.p.a. quanto al recupero degli interessi ex Reg. CE n.794/2004 in attesa della Decisione della Corte di Giustizia della CE investita dalla Corte di Cassazione con ordinanza n.3006 del 14 novembre 2013.

1.6. - Rinvia al definitivo la quantificazione delle spese del giudizio.

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