Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-05-25, n. 202003315

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-05-25, n. 202003315
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202003315
Data del deposito : 25 maggio 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/05/2020

N. 03315/2020REG.PROV.COLL.

N. 02973/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2973 del 2009, proposto dalla società
-OMISSIS-., in persona del suo legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati G C I e V C I, con domicilio eletto presso lo studio V C I in Roma, via Dora, n.1;

contro

Comune di Roma (ora Roma Capitale, a’ sensi dell’art. 24 della l. 5 maggio 2009, n. 42), in persona del suo legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati G L e C M, con domicilio eletto in Roma presso l’Avvocatura Comunale, via del Tempio di Giove, n. 21;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente demolizione di opere abusive


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Roma;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 gennaio 2020 il Consigliere Fulvio Rocco e uditi per la parte appellante l’avvocato G C I e l’avvocato Emilia Pulcini su delega dell’avvocato V C I, nonché per Roma Capitale l’avvocato Nicola Sanato su delega dell’avvocato C M;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1.L’attuale appellante, -OMISSIS-., espone di essere proprietaria di un appartamento sito in Roma, -OMISSIS-

La società riferisce di aver eseguito nell’appartamento medesimo alcuni lavori di ristrutturazione interna;
in particolare, al fine di migliorare la distribuzione degli spazi sono stati realizzati alcuni nuovi tramezzi previo abbattimento di quelli preesistenti, è stata rinnovata la pavimentazione, sono stati rifatti gli intonaci, si è provveduto alla tinteggiatura delle pareti e dei soffitti, sono stati realizzati dei controsoffitti in cartongesso sono stati - altresì - modernizzati gli impianti elettrici, idrici e di condizionamento.

L’appellante società riferisce pure che in occasione di tali lavori di ristrutturazione la finestra del vano cucina è stata trasformata in porta-finestra, demolendo il relativo parapetto.

A questo riguardo l’appellante medesima precisa di essersi “procurata l’accesso … con la suddetta piccola trasformazione … ad uno spazio preesistente, costituito dalla copertura di un sottostante volume realizzato nel lontano 1987 e a suo tempo condonato dal proprietario dell’appartamento del piano inferiore, il quale peraltro non si è mai opposto ai lavori di ristrutturazione” da essa effettuati (cfr. pagg. 2 e 3 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio).


Riferisce inoltre la Società di aver presentato per l’insieme di tali lavori la denuncia d’inizio di attività in sanatoria Prot. n. CA 21971 dd. 13 marzo 2007 debitamente corredata da una relazione tecnica illustrativa, dalla quale risulterebbe la piena conformità degli interventi effettuati con le norme del piano regolatore e delle relative norme tecniche di attuazione (cfr. doc.5 di parte ricorrente nel primo grado di giudizio).

Peraltro, in data 15 marzo 2007, ossia soltanto due giorni dopo la presentazione di tale pratica, il 1° Gruppo della Polizia Municipale di Roma ha compiuto un accesso ai luoghi contestando alla proprietà la circostanza che “i lavori edili interni di manutenzione straordinaria” erano “privi di autorizzazione comunale” e ha pertanto provveduto ad un sequestro dell’immobile nel presupposto della sussistenza nella specie di un reato previsto dall’art. 44 del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (cfr. ibidem , doc. n. 6).

L’attuale appellante rileva afferma che in tale verbale, redatto “in parte a macchina e completato dal verbalizzante di proprio pugno” , sarebbero state “riportate gravi inesattezze ed affermazioni non rispondenti alla verità. quali le dimensioni del contestato “balcone” che non è lungo mI 4, come indicato ma mI. 3,5, e principalmente l’affermazione che l'immobile si troverebbe in zona A del Piano Regolatore, mentre … così come ampiamente documentato, lo stesso si trova in zona B3, con le conseguenze già evidenziate” (cfr. pag. 3 dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio), peraltro infruttuosamente, nel ricorso in primo grado e qui pertanto dalla medesima parte riproposte.

In dipendenza di quanto accertato, con determinazione n. 1771 dd. 7 giugno 2007 il Dirigente preposto all’Unità organizzativa tecnica del Municipio I – Roma Centro Storico, ha disposto, a’ sensi dell’art, 27, comma 3, del predetto t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, l’immediata sospensione dei lavori.


L’appellante afferma che i lavori medesimi, già al momento del sopralluogo, sarebbero stati in realtà ultimati da lungo tempo e che gli stessi risulterebbero fedelmente descritti e graficizzati nella denuncia d’inizio di attività già da essa presentata all’Amministrazione comunale e che sarebbe stata esibita e consegnata in copia al verbalizzante, anche se di ciò non è stato dato atto nel relativo verbale. L’appellante riferisce pure che successivamente, ossia in data 3 aprile 2007, il medesimo I Gruppo della Polizia Municipale ha eseguitto un ulteriore sopralluogo rilevando l’esecuzione di “lavori abusivi di ristrutturazione edilizia con aumento di superficie ... consistenti nella costruzione di un balcone in muratura avente dimensioni di n. 4,00 x 1,00 a ridosso del vano cucina e modifica della finestra esistente in porta finestra demolendo il relativo parapetto in muratura - lavori in corso” (cfr. doc. 7 di parte ricorrente nel procedimento di primo grado).

In dipendenza di tale secondo sopralluogo il predetto Dirigente preposto all’Unità operativa tecnica del Municipio I – Roma Centro Storico ha adottato la propria ulteriore determinazione n. -OMISSIS-dd. 1 settembre 2007 di “immediata sospensione dei lavori” .

Con verbale del I Gruppo della Polizia Municipale Prot. n. -OMISSIS-è stato quindi provveduto agli incombenti di dissequestro dell’immobile, in esito al decreto del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Roma dd. 12 settembre 2007 emesso nel procedimento n. -OMISSIS-(cfr. ibidem , doc. n. 8).

1.2. Avverso i due anzidetti provvedimenti di sospensione dei lavori la -OMISSIS-. ha proposto ricorso sub R.G. n. 10373 del 2007 innanzi al T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, deducendo al riguardo i seguenti ordini di censure:

1) errore sui presupposti di fatto, travisamento, contraddittorietà, eccesso di potere e violazione di legge;

2) eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, sviamento di potere per travisamento dei fatti e violazione dei principi sul contenuto determinato degli atti amministrativi;
contraddittorietà dei provvedimenti impugnati.

1.3. Si è costituito in tale primo grado di giudizio il Comune di Roma, eccependo in via preliminare l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’impugnativa avversaria e concludendo comunque per la sua reiezione.

1.4. Alla camera di consiglio del 17 dicembre 2007, fissata al fine della decisione sulla domanda di sospensione cautelare degli atti impugnati, la ricorrente ha rinunciato alla relativa istanza.

1.5. Essendo pendente tale giudizio innanzi al giudice di primo grado, con determinazione n. -OMISSIS-, dd. 21 gennaio 2008 il predetto Dirigente preposto all’Unità operativa tecnica del Municipio I – Roma Centro Storico ha disposto “la demolizione o rimozione delle opere eseguite senza concessione edilizia” relative alla “realizzazione di un balcone in muratura di mt 4,00 xl, 00 a ridosso del vano cucina e trasformazione della finestra esistente in porta finestra mediante la demolizione del relativo parapetto” .

1.6. Avverso tale provvedimento la -OMISSIS-. ha proposto pertanto nel predetto procedimento giudiziale motivi aggiunti di ricorso, deducendo al riguardo in via derivata le medesime censure formulate nell’impugnativa originariamente proposta avverso i due predetti provvedimenti di sospensione dei lavori e rimarcando in particolare che non si tratterebbe nella specie – come viceversa erroneamente reputato dall’Amministrazione comunale - della costruzione abusiva di un balcone, bensì della semplice utilizzazione di una copertura del volume sottostante appartenente al proprietario dell’appartamento del piano inferiore, da questi regolarmente condonato negli anni ’80 e che aveva prestato il proprio consenso per l’effettuazione dei relativi lavori.

1.7. L’Amministrazione comunale ha aderito anche a tale nuovo contraddittorio, concludendo parimenti per la reiezione di tali motivi aggiunti di ricorso.

1.8. Con ordinanza n. -OMISSIS-Sezione I- quater dell’adito T.A.R. ha respinto la domanda di sospensione cautelare di tale ulteriore provvedimento impugnato, avanzata dalla parte ivi ricorrente a’ sensi dell’allora vigente art. 21 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificato dagli artt. 1 e 3 della l. 21 luglio 2000, n. 205, “considerato che, tenuto conto delle peculiarità dell’abuso contestato, il motivi aggiunti non ” apparivano “assistiti - ad un sommario esame - dal prescritto fumus boni iuris” , e che pertanto non sussistevano “le ragioni richieste dalla legge per l’accoglimento della sospensiva” .

1.9. Con susseguente sentenza n. -OMISSIS-la medesima Sezione I- quater dell’adito T.A.R. ha dichiarato il ricorso ab origine proposto dalla -OMISSIS-. avverso i due predetti provvedimenti di sospensione dei lavori in parte inammissibile e in parte improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse alla loro impugnazione, posto che la determinazione n. 1771 dd. 7 giugno 2007 aveva già esaurito i propri effetti alla data di proposizione del ricorso, nel mentre la susseguente determinazione n. 2553 dd. 10 settembre 2007 aveva parimenti esaurito i propri effetti nelle more del giudizio.

Viceversa, l’adito T.A.R. ha respinto i motivi aggiunti di ricorso proposti avverso la determinazione dirigenziale n. 115 dd. 21 gennaio 2008, recante l’ingiunzione a demolire le opere realizzate, rilevando in via preliminare che “al riguardo, la ricorrente sostiene di non avere mai realizzato e/o costruito alcun balcone, affermando che lo stesso rappresenta “la copertura di un volume sottostante” alla sua proprietà, “realizzato dal proprietario dell’appartamento sottostante signor -OMISSIS--OMISSIS- nel lontano 1987 e regolarmente condono” e che essa “sostiene, altresì, la piena legittimità della porta-finestra – oggetto di DIA in sanatoria presentata in data 13 marzo 2007 - perché consentita dalle N.T.A.”

Il giudice di primo grado ha quindi ritenuto tutte le censure formulate in proposito “infondate” , osservando al riguardo “che la ricostruzione dei fatti opposta dalla ricorrente non vale a legittimare le opere contestate. Ai fini del decidere assume, infatti, carattere dirimente il rilievo che le opere di cui trattasi ricadono nell’ambito di operatività dell’art. 10, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, ossia costituiscono un intervento di ristrutturazione edilizia che porta ad un organismo edilizio in parte diverso da quello precedente, soggetto – in quanto tale – a permesso di costruire e, dunque, correttamente sanzionato dall’Amministrazione ai sensi dell’art. 33 del medesimo d.P.R. Ciò detto, la circostanza che la realizzazione del balcone – la cui esistenza non appare possa essere messa in discussione - abbia avuto origine dalla copertura di un volume sottostante, ad opera di un diverso soggetto (il sig.-OMISSIS-), “regolarmente condonato” , appare ininfluente. Soprassedendo in ordine a perplessità riguardanti – sul piano fattuale – la possibilità di realizzare un balcone in virtù della mera copertura di “un volume sottostante” , il Collegio ritiene, infatti, che tale circostanza possa valere – in presenza di idonei elementi probatori (nel caso di specie carenti, atteso che dall’ordinanza del Tribunale di Roma, prodotta agli atti, l’immobile della ricorrente risulta non sovrastante, bensì “confinante con il terrazzo di pertinenza dell’appartamento” del sig.-OMISSIS-, da quest’ultimo “chiuso ed adibito a cucina”, mentre nella DIA si fa riferimento alla trasformazione della porta finestra “in modo tale da poter accedere alla copertura del cortile interno dell’edificio” - ai fini dell’individuazione di un soggetto perseguibile in qualità di responsabile ma che la stessa non rivesta alcuna rilevanza sul piano dell’effettiva esistenza dell’abuso contestato, per il quale – in ogni caso – il proprietario è correttamente sanzionato. In definitiva, il provvedimento impugnato è da ritenere legittimo in quanto diretto a sanzionare la realizzazione di opere in assenza del prescritto titolo abilitativo nei confronti di un soggetto che non ha provato la propria estraneità all’abuso. … Come già esposto nella narrativa che precede, la ricorrente si dilunga, poi, nel sostenere la legittimità dell’apertura della porta-finestra, in quanto “la modifica dell’apertura di porte e finestre è espressamente consentito in zona B, sottozona B3” . Anche tale censura va disattesa. Al riguardo, appare sufficiente rilevare che la trasformazione della finestra in porta finestra risulta sanzionata dall’Amministrazione in quanto eseguita in assenza di “concessione edilizia” . Appare, dunque, evidente che il Comune ha ritenuto detta trasformazione edilizia soggetta al regime dell’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, escludendo così l’operatività degli artt. 22, 23 e 37 del medesimo D.P.R. e la connessa rilevanza della conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edili e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Orbene, tale assunto non appare in alcun modo confutato dalla ricorrente. Atteso che la società Camelia insiste nel sostenere la conformità dell’intervento alle N.T.A. – utile per la realizzazione degli interventi subordinati a DIA - ma nulla dice in ordine al profilo, di rilevanza indiscutibilmente prodromica ed oggetto di chiaro disconoscimento nel provvedimento impugnato, della non riconducibilità dello stesso intervento “all’elenco di cui all’articolo 10”, così come prescritto dall’art. 22 di cui sopra, la censura de qua – per come formulata - non appare pertinente. Trattandosi - nel caso in esame - della legittimità di misure ripristinatorie, il cui presupposto di fatto si identifica con la carenza del prescritto permesso di costruire, appare evidente che la conformità o meno agli strumenti urbanistici non assume rilevanza. Da quanto già osservato consegue, altresì, l’inidoneità della DIA in sanatoria presentata dalla ricorrente in data 13 marzo 2007 ad ovviare all’accertata abusività delle opere, specie ove si consideri che, ai sensi dell’art. 36, comma 3, del d.P.R. n. 380/01, ove il dirigente o il responsabile non si pronunci entro 60 giorni, “la richiesta si intende rifiutata”. In ogni caso, va soggiunto che la DIA in questione non potrebbe mai giustificare la realizzazione di un vero e proprio balcone” .

Il T.A.R. ha integralmente compensato tra le parti le spese e gli onorari di tale primo grado di giudizio.

2.1. Con l’appello in epigrafe la -OMISSIS-. chiede ora la riforma di tale sentenza, deducendo al riguardo, quale unico ed articolato motivo, l’avvenuta violazione e falsa applicazione degli artt. l0, 22, 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, errore sui presupposti di fatto, carenza di istruttoria – travisamento, contraddittorietà, eccesso di potere e illogicità manifesta.

2.2. Si è costituito anche in tale ulteriore grado di giudizio il Comune di Roma, medio tempore divenuto Roma Capitale a’ sensi dell’art. 24 della l. 5 maggio 2009, n. 42, concludendo per la reiezione dell’appello.

2.3. Con ordinanza n. 2207 dd. 5 maggio 2009 la Sezione IV di questo Consiglio di Stato ha respinto la domanda di sospensione cautelare dell0’efficacia della sentenza impugnata, presentata dall’appellante a’ sensi dell’allora vigente art. 33 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come modificato dall’art. 10 della l. 21 luglio 2000, n. 205, “considerato che non emergono elementi tali da far ritenere fondata la domanda incidentale dell’appellante, in ragione delle circostanze emerse nel corso del procedimento” .

2.4. Con ulteriore memoria dd. 12 dicembre 2019 l’appellante, nell’insistere per l’accoglimento della propria impugnativa, ha evidenziato che in ordine alla fattispecie per cui è ora causa è medio tempore intervenuta la sentenza del Tribunale ordinario di Roma, Sezione V^ penale -OMISSIS-che ha mandato assolto il proprio legale rappresentante con formula piena, a’ sensi dell’art. 530 c.p.p., perché “il fatto non sussiste”.

2.5. All’odierna pubblica udienza la causa è stata trattenuta per la decisione.

3.1. Tutto ciò premesso, l’appello in epigrafe va respinto.

3.2. Giova innanzitutto evidenziare che la parte appellante ha impugnato soltanto il capo della sentenza resa in primo grado con il quale è stata respinta la domanda di annullamento del provvedimento recante l’ingiunzione a demolire le opere da essa realizzate.

In particolare la società -OMISSIS-., nel reputare come dirimente la dianzi riferita circostanza della sopravvenuta assoluzione in sede penale del suo legale rappresentante pro tempore “perché il fatto non sussiste” in ordine alla presente fattispecie, comunque contesta l’assunto del T.A.R. secondo cui le opere da essa realizzate risulterebbero nel loro insieme assoggettate alla disciplina dell'art. 10, comma 1, lett. b), del t.u. approvato d.P.R. n. 380 del 2001, ossia costituirebbero un intervento di ristrutturazione edilizia che condurrebbe alla realizzazione di un organismo edilizio in parte diverso da quello precedente, e che necessiterebbe pertanto del rilascio di un permesso di costruire.

A tale riguardo l’appellante rimarca che l’art. 10, comma 1, del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 dispone, nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa - e, quindi, antecedente alle novelle susseguentemente ad esso apportate per effetto dell’art. 30, comma 1, lettera c), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 17, comma 1, lett. d), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 , convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014 n. 164 - che “costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione, b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso”.

L’appellante rileva – altresì – che ai seguenti commi 2 (a sua volta poi modificato dall’art. 17, comma 2, lett. a), dell’anzidetto d.l. 133 n. 2014 convertito con modificazioni dalla l. n. 164 del 2014) e 3 il medesimo art. 10 rinvia alla legislazione regionale per l’individuazione di ulteriori interventi sottoposti al preventivo rilascio di costruire o alla denuncia di inizio attività, e che peraltro lo stesso art. 10 deve essere letto in combinato disposto con il successivo art. 22, commi 1 e 3 dello stesso testo unico, laddove, segnatamente al comma 1 (e, ovviamente, sempre nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, ossia prima della novella ivi introdotta dapprima dall’art. 17, comma 1, lett. m), del d.l. n. 133 del 2014 convertito con modificazioni con l. n. 164 del 2014, e successivamente sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. f), n. 2), del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222.) si afferma che ad eccezione dei casi in cui è richiesto il permesso di costruire, ovvero dei casi in cui non occorre alcun titolo abilitativo, gli interventi in materia edilizia sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività, purchè “conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”; e, al comma 3, lett. a) (ad oggi abrogato per effetto dell’art. 3, comma 1, lett. f), numero 4), del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222), espressamente si dispone che "in alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante denuncia di inizio attività: a) gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10. comma l. lettera c”.

Da tutto ciò l’appellante ricava la conseguenza che la stessa norma prevede che gli interventi di ristrutturazione edilizia del comma 1, lett. c) dell’art. 10 - e cioè proprio quelli che portano alla formazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, etc.- possono essere realizzati mediante lo strumento della denuncia d’inizio di attività: e, se così è, risulterebbe evidente che, per la realizzazione dei lavori da essa effettuati – consistenti, per l’appunto, in lavori di ristrutturazione interna dei locali con apertura di una porta - finestra in sostituzione di una vecchia finestra - non risulterebbe necessario il rilascio di un permesso di costruire, essendo al riguardo sufficiente la denuncia d’inizio di attività da essa stessa ritualmente presentata.

In tal senso la medesima appellante afferma di essersi, nella specie, avvalsa - altresì - della facoltà contemplata dall’art. 37, comma 4, del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, che anche a tutt’oggi espressamente dispone che mediante il pagamento di una sanzione pecuniaria è possibile effettuare la sanatori a di un intervento edilizio disposto in assenza o in difformità da quanto indicato nella denuncia d’inizio di attività, “ove l’intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda”.

L’appellante si richiama sempre in tal senso anche a Cass.pen, Sez. III, 26 ottobre 2007, n. 47046, secondo la quale “in materia edilizia , è sufficiente la denunzia di inizio attività per gli interventi di ristrutturazione edilizia di minore portata (ovvero quelli che determinano una semplice modifica dell’ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica), mentre necessitano del permesso di costruire ovvero della denunzia di inizio attività, a scelta dell’interessato, le ristrutturazioni edilizie che comportano integrazioni funzionali e strutturali dell’edificio esistente, ammettendosi limitati incrementi di superficie e di volume” .

Né l’appellante sottace che gli li interventi di ristrutturazione da essa realizzati risultano pienamente conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia, nella specie alle norme del piano regolatore e delle relative norme tecniche di attuazione, sia vigenti al momento della realizzazione dell’intervento, sia vigenti al momento della presentazione della domanda, e di ciò si darebbe conferma nella perizia giurata di parte, depositata nel fascicolo di primo grado.

A tal fine l’appellante rimarca che l’immobile in questione risulta collocato secondo la vigente strumentazione urbanistica adottata con deliberazione del Consiglio Comunale di Roma n. 33 dd. 19 – 20 marzo 2003 nella zona B, “conservazione del tessuto edilizio e vario”, sottozona B3, inclusa nell’area denominata “Città storica - tessuti ad espansione ottonovecentesca ad isolato - Tessuto T4”, e precisa che gli interventi edilizi ivi ammessi secondo l’art. 5, lett. c), delle relative norme tecniche di attuazione si identificano negli “interventi di cui ... all 'art. 4 paragrafi 6 e 7 (comprese le opere per le quali invece viene fatto divieto al punto b) del detto paragrafo 6 purchè dette opere siano tecnicamente compatibili senza pregiudizio per le caratteristiche fondamentali dell’edificio), anche se le opere stesse comportino modifiche o alterazioni, nei limiti dell’art. 4, par. 6 lett. B) al carattere unitario dell’edificio” ;
e che il punto b) del paragrafo 6 dell’art. 4 a sua volta dispone che “sono consentiti soltanto interventi che non comportino modifiche o alterazioni al carattere unitario dell’edificio né al numero delle attuali unità d’uso residenziali in esso contenute quali ad esempio .... b) rifacimento o sostituzione di infissi esterni, mantenendo i tipi originali con divieto di aprire nuovi vani, di modificare le attuali aperture di porte esterne e finestre nonché le relative cornici, soglie e riquadrature, di modificare i tipi preesistenti di intonaci, rivestimenti e coloriture di prospetti esterni” .

Detto altrimenti, secondo l’appellante, nella predetta zona B – sotto zona B3, risulterebbe allora possibile rifare o sostituire infissi esterni, anche aprendo nuovi vani, modificare le aperture di porte esterne e finestre nonché le relative cornici. soglie e riquadrature, modificare i tipi preesistenti di intonaci, rivestimenti e coloriture di prospetti esterni, purchè tutte tali opere siano tecnicamente compatibili e non causino pregiudizio alle caratteristiche fondamentali dell’edificio: condizioni, queste, che – a suo dire – risulterebbero soddisfatte dalle opere da essa realizzte, anche con riguardo alla giurisprudenza secondo cui, rispondendo – come, per l’appunto, al caso di specie – al requisito della c.d. “doppia conformità” - gli abusi edilizi '”possono essere sanati quando risultino non solo conformi allo strumento urbanistico vigente alla data di emanazione dell 'atto che esamina l'istanza, ma anche allo strumento urbanistico vigente alla data in cui sono commessi gli abusi” (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 17 settembre 2007, n. 4838).

Da ultimo, l’appellante reputa “del tutto irragionevole” l’affermazione del giudice di primo grado secondo cui “la possibilità di realizzare un balcone in virtù della mera copertura di “un volume sottostante può valere “ai fini dell’individuazione di un soggetto perseguibile in qualità di responsabile ma ... la stessa non riveste alcuna rilevanza sul piano dell’effettiva esistenza dell'abuso contestato, per il quale ... il proprietario è correttamente sanzionato”, posto che in tal modo il giudice medesimo abbia soltanto voluto comunque trovare un “colpevole” del preteso abuso (così a pag. 12 e ss. dell’atto introduttivo del presente giudizio).

3.3. Il Collegio, per parte propria, non può innanzitutto astenersi dall’evidenziare che l’Amministrazione comunale, nella propria memoria defensionale dd. 16 aprile 2009, affida preliminarmente l’accoglimento delle proprie ragioni alla giurisprudenza penale secondo cui sussiste il reato di costruzione in assenza di concessione edilizia (oggi permesso di costruire, a’ sensi del sopravvenuto t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001) nell’ipotesi di realizzazione di un’opera priva di tale titolo che modifichi altra preesistente e per la quale sia già stato ottenuto il condono edilizio di cui all’art. 31 e ss. della l. 28 febbraio 1985, n. 47 (cfr. sul punto Cass. pen., Sez. III, 11 aprile 2003, n. 28485, inerente ad un caso di lavori di ampliamento di una veranda interessata in precedenza dall’anzidetto condono): e ciò con riguardo alla circostanza che, nella presente fattispecie, l’attuale appellante ha ricavato il balcone utilizzando un basamento preesistente ai lavori di cui trattasi e la cui realizzazione era stata, per l’appunto, condonata a suo tempo in applicazione della disciplina contenuta nell’art. 31 e ss. della l. 28 febbraio 1985, n. 47.

Invero tale assunto difensivo della parte appellata non risulta in alcun modo prefigurato nel contenuto della motivazione provvedimento impugnato, e di per sé dovrebbe allora riguardarsi quale integrazione ex post della motivazione medesima, avvenuta unicamente in sede di giudizio e, quindi - come è ben noto - da reputarsi ex se illegittima (cfr. sul punto, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. III, 10 luglio 2015, n. 3488), a meno che, per questa via, l’Amministrazione medesima non abbia inteso ricondurre la presente fattispecie ad un’ipotesi di provvedimento assolutamente vincolato, a’ sensi dell’art. 21- octies della l. 7 agosto 1990, n. 241, nella quale - come è altrettanto ben noto - la l’Amministrazione medesima può dare anche successivamente la dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, oppure della possibilità di successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe dovuto e potuto essere conosciuta (cfr. al riguardo, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. IV, 28 marzo 2018, n.1959).

In buona sostanza, secondo tale orientamento giurisprudenziale, i benefici derivanti dal condono, che è stato rilasciato nel presupposto di una determinata situazione di fatto non conforme alla strumentazione urbanistica vigente ma non incompatibile a’ sensi degli artt. 32 e 33 della l. n. 47 del 1985 in ordine a determinati vincoli extra-urbanistici gravanti sull’area in cui le opere abusive sono state realizzate, implicherebbe una legittimazione della materiale esistenza della volumetria condonata, la quale peraltro potrebbe essere pro futuro ulteriormente utilizzata solo in quanto racchiusa nel medesimo manufatto reso oggetto di condono e, comunque, esclusivamente secondo la destinazione d’uso del manufatto medesimo.

Essa, pertanto, non potrebbe essere traslata per un suo utilizzo all’interno dello stesso fondo ovvero per essere trasferita su altri fondi, e tanto meno potrebbe essere utilizzata con una destinazione diversa da quella condonata, potendo – al più – ammettersi sull’immobile soltanto quegli interventi oggettivamente finalizzati alla sua conservazione nello stato in cui è sorto e ad una utilizzazione di esso per una finalità conforme a quella originaria: ossia – detto altrimenti – potrebbero essere ivi realizzati i soli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria così come definiti dall’art.3, comma 1, lett. a) e b) del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 200 (ovviamente, per quanto segnatamente attiene agli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’anzidetta lett. b), con esclusivo riguardo alla disciplina ivi contenuta all’epoca dei fatti di causa, ossia precedentemente alla novella apportata per effetto dell’art. '17, comma 1, lett. a), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164).

Va precisato che l’ammissibilità di tali limitati interventi sugli immobili resi oggetto di condono edilizio è stata puntualmente affermata dalla stessa Corte Costituzionale, secondo la quale violerebbe l’art. 42 Cost. una lesione al contenuto minimo della proprietà che incida addirittura sulla essenza stessa e sulle possibilità di mantenere e conservare il bene, producendo un inevitabile deterioramento di esso, con conseguente riduzione in cattivo stato e un progressivo abbandono e perimento del medesimo, non potendosi impedire al proprietario dell’immobile condonato di intervenire sul proprio bene in rapporto alla destinazione inerente alla sua natura, al fine di evitarne la progressiva inutilizzabilità e distruzione (cfr. sentenza 6 – 14 luglio 2000, n. 238;
cfr., altresì, in termini Cons. Stato, Sez. IV, 14 luglio 2015, n. 3505).

L’anzidetto assunto del giudice penale, sebbene risulti di per sé condivisibile in linea di principio, sconta tuttavia, allo stesso tempo, due ordini di eccezioni.

La prima è data dalla circostanza, non infrequente, che molti dei condoni edilizi chiesti e ottenuti a’ sensi dell’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985 sono stati rilasciati anche quando sarebbe stato possibile chiedere al riguardo il rilascio di una concessione edilizia a sanatoria mediante il regime di accertamento di conformità, a’ sensi dell’allora vigente art. 13 della l. n. 47 del 1985, in quanto le relative opere, ancorchè prive del necessario titolo edilizio, risultavano comunque realizzate conformemente alle previsioni della strumentazione urbanistica vigente sia all’epoca a cui risalivano le opere, sia alla data dell’1 ottobre 1983 fissata dall’art. 31, primo comma, della medesima l. n. 47 del 1985 ai fini della loro ultimazione.

Risulta evidente che, in questi casi, l’acclarata conformità di quanto pur condonato alla disciplina urbanistica pro tempore vigente risulta di per sé inconciliabile con uno status dell’immobile sanato differente rispetto agli altri immobili insistenti nella medesima zona territoriale omogenea del Piano regolatore generale del Comune parimenti conformi alla strumentazione urbanistica in vigore.

La seconda possibile eccezione alla sopradescritta regula iuris elaborata dalla giurisprudenza penale consiste invece nella possibilità che la strumentazione urbanistica susseguentemente intervenuta rispetto al rilascio del condono edilizio, ovvero sopravvenuta medio tempore nel corso dell’istruttoria della relativa domanda, legittimi comunque ex se l’opera già abusiva all’epoca della sua realizzazione, rendendola quindi conforme alla nuova disciplina dell’edificazione.

In tale evenienza pare altrettanto evidente che non potrebbe ragionevolmente sostenersi la sussistenza di limiti per un ulteriore utilizzo della volumetria preesistente e debitamente condonata.

Posto ciò, venendo al caso di specie, l’Amministrazione comunale, ancorchè nel corso dell’istruttoria abbia affermato che l’immobile in questione ricadrebbe secondo la vigente disciplina di piano in zona A, si è astenuta dall’indicare al riguardo le norme che in concreto impedirebbero in tale ambito del territorio comunale opere realizzate dall’attuale appellante, né di fatto ha contraddetto l’assunto sostenuto dall’appellante secondo cui l’immobile di cui trattasi ricadrebbe – viceversa – nella Zona B, in ordine alla quale l’appellante medesima in effetti comprova, allegando la disciplina contenuta nelle relative norme tecniche, l’assentibilità dell’intervento.

In realtà - e a ben vedere - nell’economia della presente causa non assume di per sé rilievo la circostanza per cui l’immobile in questione ricada nella zona territoriale omogenea B del Piano regolatore piuttosto che nella sua zona A: e ciò in quanto nel caso di specie necessita considerare la formulazione dell’art. 10, comma 1, lett. c) del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa, in forza del quale – e come del resto rilevato dall’appellante medesima - necessitava il rilascio del permesso di costruire al fine della realizzazione degli “interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso” .

Se così è, quindi, anche la mera modificazione d’uso di un immobile, se effettuata in zona A, di per sé determina la necessità - sempre e comunque - del previo rilascio del permesso di costruire.

Nel caso di specie, tuttavia, la necessità del permesso di costruire si ricava dalla circostanza che il mutamento della destinazione d’uso è comunque avvenuta mediante la realizzazione di opere idonee a consentire la trasformazione in balcone della copertura dell’altro immobile precedentemente condonato, con conseguente mutamento sia della superficie dell’appartamento al cui utilizzo il balcone è adibito, sia della sagoma e dei prospetti dello stabile.

In questo contesto, quindi, la necessità del rilascio del permesso di costruire, così come contemplato dalla surriportata disciplina di legge, va indiscutibilmente riferita sia alle zone territoriali omogenee A, sia alle zone territoriali omogenee B: e, per conseguenza, il nodo fondamentale della causa risiede, per quanto segnatamente attiene alla realizzazione delle opere di ristrutturazione edilizia qui contestate, nella fungibilità - o meno - del regime del rilascio del permesso di costruire con quello della denuncia d’inizio di attività, come pro tempore disciplinata dall’art. 22, commi 1 e 3 dello stesso t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001.

3.4. Va in ogni caso evidenziato che a tal fine non giova all’appellante, nella presente sede di giudizio, il contenuto della medio tempore sopravvenuta sentenza del Tribunale ordinario di Roma, Sezione V^ penale -OMISSIS-che, in relazione alla presente fattispecie, ha mandato assolto il proprio legale rappresentante con formula piena, a’ sensi dell’art. 530 c.p.p., perché “il fatto non sussiste”.

Invero, nella motivazione di tale sentenza, debitamente prodotta agli atti di causa dall’appellante medesima in data 26 settembre 2014, si legge che “le dichiarazioni dei testi della difesa circa la preesistenza del piano di calpestio del balcone trovano riscontro nella domanda di condono edilizio presentata da-OMISSIS- -OMISSIS- il 2 marzo 1995 che è relativa proprio alla realizzazione abusiva della copertura del balcone facente parte dell’appartamento sottostante (interno 1). Non risulta, dunque, che sia stata realizzata una nuova superficie ma si è proceduto solamente a creare un accesso ad un’area preesistente che è stata impermeabilizzata e pavimentata. Questi interventi non comportano, però, alcun mutamento degli standard urbanistici o variazione del carico urbanistico, motivo per il quale per la loro esecuzione non era richiesto il permesso di costruire. Non potendosi ravvisare un elemento essenziale della fattispecie (la costruzione in assenza del permesso di costruire), l’imputato deve essere assolto dalla contravvenzione ascritta perché il fatto non sussiste” (cfr. ivi, pag. 3).

E’ ben noto che a’ sensi dell’art. 654 c.p.p. - e per quanto qui segnatamente interessa - “nei confronti dell’imputato, della parte civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale … di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purchè i fatti accertati siano ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purchè la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa” .

Tale disciplina determina – all’evidenza – un effetto depotenziato del giudicato penale nei giudizi extrapenali che, come nella presente fattispecie, sono residualmente diversi da quelli civili o amministrativi di danno e dai procedimenti disciplinari, i quali viceversa sono nel loro complesso normati dagli artt. 651, 651-bis, 652 e 653 c.p.p..

In dipendenza di quanto sopra, il giudicato formatosi nel procedimento penale consistente –come, per l’appunto, nel caso di specie - nel riconoscimento di interessi legittimi dipendenti dai medesimi fatti materiali resi oggetto dell’accertamento operato agli effetti penali, non è pertanto opponibile a coloro che non si siano ivi costituiti parte civile (cfr. al riguardo, ad. es., Cons. Stato, Sez. V, 17 febbraio 2014, n. 755): ed è questo il caso del Comune di Roma, - medio tempore divenuto Roma Capitale a’ sensi dell’art. 24 della l. 5 maggio 2009, n. 42 – a cui vanno invero ascritti i provvedimenti che sostanziano la posizione giuridica di interesse legittimo resa oggetto della presente causa e che, peraltro, è rimasto estraneo al processo conclusosi con l’assoluzione dell’imputato, il quale all’epoca dei fatti di causa era il legale rappresentante dell’attuale società appellante.

E va sempre in tal senso rilevato che, specificatamente per quanto attiene alla rilevanza nel processo amministrativo di quanto accertato nella differente e separata sede penale in ambito di reati edilizi, secondo i principi generali che presiedono alla valutazione delle risultanze istruttorie enunciati dall'art. 116 c.p.c. e ad oggi espressamente codificati anche nel processo amministrativo dall’art. 64 c. proc. amm. e fermo dunque restando quanto previsto dall'art. 654 c.p.p., il giudice amministrativo ben può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche le prove raccolte nel giudizio penale conclusosi con sentenza non esplicante autorità di giudicato nei confronti di tutte le parti della causa amministrativa, e può pertanto ricavare gli elementi di fatto utili alla risoluzione della controversia anche dalla sentenza e dagli altri atti del processo penale, purché le risultanze probatorie siano sottoposte ad un autonomo vaglio critico svincolato dall’interpretazione e dalla valutazione che ne abbia già dato il giudice penale, e purché la valutazione del materiale probatorio sia effettuata in modo globale, non frammentaria e limitata a singoli elementi di prova (così, puntualmente, Cons. Stato, Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 1833, anche con riguardo – peraltro – alle statuizioni del tutto omologhe sul punto di Cass. civ. Sez. II, 29 ottobre 2010, n. 22200;
Cass. civ., Sez. I, 2 marzo 2009, n. 5009;
Cass. civ., Sez. III, 7 febbraio 2005, n. 2409, tutte relative agli effetti del giudicato penale nei giudizi civili diversi da quelli di danno;
cfr., altresì, nello stesso senso, ex plurimis , anche Cass. civ., SS.UU., 26 gennaio 2011, n. 1768 e Cass., Sez. Lav., 9 agosto 2005, n. 16559).

In tal senso - e, quindi, anche al di là del sopradescritto contenuto dell’art. 654 c.p.p. – risulta, altresì, del tutto dirimente al riguardo lo stesso dato letterale dell’ incipit dell’art. 44, comma 1, del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 che, riproducendo nella propria formulazione quanto già in precedenza stabilito dal corrispondente primo comma dell’art. 20 della l. n. 47 del 1985, dispone che “salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applica” a) l’ammenda etc .…. b) l’arresto etc. … c) l’arresto etc …” .

La norma che se ne ricava, sancisce, quindi, in materia di illeciti edilizi il principio della reciproca autonomia tra la sanzione penale e la sanzione amministrativa irrogabile a fronte della pur medesima fattispecie e, per implicita e del tutto ineludibile conseguenza, anche l’autonomia, rispetto al giudicato penale, del sindacato di questo giudice esercitato in tale materia, quale propria giurisdizione esclusiva, a’ sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a.

Discende quindi da tutto ciò che la conclusione cui è pervenuto, nella specie, il giudice penale circa l’irrilevanza, in termini di incremento di superficie, dell’avvenuta realizzazione di un accesso ad un’area preesistente che a sua volta è stata nel contempo impermeabilizzata e pavimentata, attiene esclusivamente alla ivi affermata insussistenza di un fatto-reato riconducibile alla previsione di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, ma non esclude che la medesima circostanza fattuale sia differentemente considerata agli effetti dell’irrogazione, in capo a chi ne è responsabile (si badi: non soltanto quale autore dell’abuso, ma anche quale eventuale terzo acquirente dell’immobile, che è assoggettato al riguardo ad una vera e propria obligatio propter rem : cfr., ex plurimis , Cons. Stato, Sez. VI, 31 marzo 2014, n. 1517, conformemente a Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 9) della sanzione amministrativa della demolizione con il conseguente obbligo del ripristino dello stato dei luoghi, e ciò sia a’ sensi dell’art. 31, sia a’ sensi dell’art. 33 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, a seconda del caso in cui i sopradescritti lavori siano configurati come preordinati alla realizzazione di un’opera singola, ovvero come rientranti nella ristrutturazione edilizia complessivamente posta in essere.

3.5. Sotto questo aspetto, quindi, l’ingiunzione a demolire impugnata in primo grado risulta legittima, posto che la realizzazione della nuova apertura che consente la fruizione quale balcone della copertura dell’altra unità immobiliare, precedentemente assoggettata a condono edilizio, con la contestuale impermeabilizzazione e pavimentazione del relativo lastrico, non può che configurarsi quale (avendo, a tacer d’altro, modificato prospetto e sagoma) “nuova costruzione”, con conseguente necessità del rilascio al riguardo del permesso di costruire (l’erroneo riferimento, contenuto nel provvedimento impugnato, al corrispondente titolo della concessione edilizia previsto dalla disciplina antecedente al t.u. approvato con d,P.R. n. 380 del 2001, di per sé – all’evidenza – non costituisce motivo di invalidità di tale atto).

Invero l’appellante sostiene la fungibilità, nella specie, del permesso di costruire con la denuncia d’inizio di attività, a’ sensi di quanto all’epoca previsto dall’art. 22 del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001.

Ma non è possibile accedere a tale tesi, in quanto se è vero che l’art. 22, comma 3, del predetto t.u. comprendeva alla sua lettera a) dell’elencazione delle opere assoggettabili a denuncia d’inizio di attività “gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c)” del medesimo t.u., va evidenziato che tale disposizione risultava derogare a quanto disposto in via generale dal comma 1 del medesimo art. 22, che di per sé escludeva en bloc dalla disciplina della denuncia d’inizio di attività tutte le opere che l’art. 10 dello stesso t.u. riservava al regime del rilascio del permesso di costruire.

Se si ha riguardo all’intera sistematica dell’art. 22, si denota che l’utilizzo della denuncia d’inizio di attività era consentita per le varianti a permessi di costruire che – tra l’altro – non alterassero “la destinazione d’uso” , la “categoria edilizia” o la “sagoma dell’edificio” (cfr. ivi, comma 2), ovvero “interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo, che contengano precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive” , (cfr. ibidem , comma 3, lett. b) o – ancora – “interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche” (cfr. ibidem, lett. c).

Pertanto, il criterio generale che informava la possibilità di utilizzo di tale regime di realizzazione delle opere edilizie identificava tipologie di lavori rigidamente astrette dalla puntuale prescrizione di legge di non prevedere modifiche alla sagoma dell’edificio, ovvero alla prescrizione di realizzare costruzioni già ben definite nelle loro particolarità costruttive da disposizioni plano-volumetriche contenute in strumenti urbanistici generali o attuativi, ovvero da accordi equipollenti a questi ultimi, dove – all’evidenza – le sagomature degli edifici risultavano altrettanto rigidamente predeterminate.

In tale contesto, quindi, il richiamo contenuto nel medesimo art. 22, comma 3, in via di eccezione, a quanto previsto dall’art. 10, lett. c) del medesimo t.u. non può che intendersi in senso limitativo e, pertanto, esso non può che essere correlato alla definizione generale di “ristrutturazione edilizia” contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. d) del t.u. che – sempre nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa - riconduceva a tale nozione “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” .

Questa definizione impone quindi, in via del tutto inequivocabile, per gli interventi di ristrutturazione edilizia il rispetto della “sagoma” dell’edificio: e risulta altrettanto evidente che in forza di quanto in essa previsto la trasformazione in balcone di una pur preesistente copertura di un piano sottostante altera di per sé la sagoma preesistente dell’intero edificio, con la conseguente necessità di realizzare tale opera mediante il regime proprio del permesso di costruire.

Del resto, il Collegio evidenzia che la giurisprudenza di primo grado da tempo è pervenuta a tale conclusione, esprimendosi nel senso che “l’inserimento dei balconi, anche a volere escludere che comportino un aumento di volumetria o di superficie utile, variano l’aspetto estetico dell'edificio, comportando, quindi, un apprezzabile mutamento nel “prospetto” dell’edificio stesso. Siffatte opere, perciò, devono considerarsi soggette a concessione edilizia, a norma dell'art. 10 d.P.R. n. 380 del 2001, che vi assoggetta oltre gli interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica anche quelli di ristrutturazione edilizia — tra i quali ultimi appaiono sussumibili anche quelli che comportano modifiche dei prospetti” (così, ad es., T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 1 aprile 2019, n.470;
T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 24 marzo 2015, n.719;
T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV., 22 gennaio 2014, n. 426;
id. III, 20 novembre 2012, n. 4655;
id. VII, 7 giugno 2012, n. 2717).

In dipendenza di quanto sopra, pertanto, l’appello in epigrafe non può che essere respinto, potendo – peraltro – al caso la proprietà dell’appartamento ricorrere all’istituto sanante dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del t.u. n. 380 del 2001, semprechè comprovi la sussistenza die requisiti ivi tassativamente contemplati.

4. Le spese e gli onorari del presente grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti, stante la particolarità della questione trattata.

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