Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2022-05-30, n. 202204401

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2022-05-30, n. 202204401
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202204401
Data del deposito : 30 maggio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 30/05/2022

N. 04401/2022REG.PROV.COLL.

N. 00349/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello numero di registro generale 349 del 2017, proposto da
R&R di Foi Romeo e Paris Roberto s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati F S M, U C e R C, con domicilio eletto presso lo studio dei primi due in Roma, via di Villa Sacchetti, 9;

contro

Comune di Verbania, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato A S, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato M C in Roma, via Giovanni Antonelli, 49;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (Sezione seconda) n. 786/2016, resa tra le parti.


Visto il ricorso in appello;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Verbania;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del 10 marzo 2022 il Cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti gli avvocati Corea e Carletti, in dichiarata delega dell’avvocato Simone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

R&R di Foi Romeo e Paris Roberto s.n.c., autorizzata all’esercizio di ristorazione, attività svolta dalla società nel Comune di Verbania a partire dal giugno 1998 in locali concessi in locazione dall’Amministrazione comunale, poi dalla medesima ceduta a terzi tramite affitto di azienda, e infine cessata per effetto dell’ordinanza comunale n. 5571/2006 dichiarativa della decadenza dell’autorizzazione per decorso del periodo annuale massimo di sospensione dell’esercizio dell’attività di cui all’art. 4 della l. 25 agosto 1991, n. 287, ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe che, nella resistenza del Comune, ha respinto il ricorso volto al risarcimento del danno conseguente al provvedimento di decadenza proposto dalla società dopo l’annullamento dell’atto in via giurisdizionale, ritenendo l’inesistenza del nesso causale tra il provvedimento illegittimo e la cessazione dell’attività imprenditoriale.

Nell’atto di appello la società evidenzia innanzitutto che la sospensione dell’attività di ristorazione considerata nella predetta ordinanza è imputabile al solo Comune di Verbania, che dopo la cessazione del cennato affitto di azienda a terzi, risolto consensualmente dalle parti stante la necessità di messa a norma dell’immobile, non solo ha rifiutato di farsi carico degli oneri economici relativi ai lavori indispensabili per l’ottenimento delle autorizzazioni sanitarie propedeutiche alla riapertura dell’attività e per il mantenimento del bene locato “ in stato da servire all’uso convenuto ” (art. 1575 n. 2 Cod. civ.), ma ha anche denegato la proroga richiesta dalla società ai sensi del citato art. 4 della l. 287/1991 (“ L’autorizzazione è revocata: a) qualora il titolare dell’autorizzazione medesima, salvo proroga in caso di comprovata necessità sospenda l’attività per un periodo superiore a dodici mesi ”).

La società illustra poi come la predetta conclusione abbia trovato conforto nell’esito del contenzioso amministrativo che ne è seguito. In particolare, evidenzia che, dopo la reiezione in primo grado del ricorso proposto dalla società avverso l’ordinanza comunale n. 5571/2006, questa Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza n. 463/2009, ha ritenuto l’illegittimità del provvedimento, rilevando che “ era onere dell’Amministrazione, nell’esercizio di poteri pubblicistici che si riflettevano anche nel giudizio civile in corso, di fornire una adeguata motivazione a seguito di puntale istruttoria al fine di accertare la oggettiva necessità dei lavori come evidenziati nella richiesta della società e la spettanza delle relative spese, ed inoltre la inesistenza di una situazione di forza maggiore per la riapertura dell’esercizio. Tale forza maggiore, impeditiva al riavvio dell’attività di somministrazione avrebbe dovuto essere apprezzata dalla Amministrazione quanto meno in relazione alla situazione di oggettiva incertezza in cui veniva a trovarsi la ricorrente che si vedeva coinvolta in un giudizio di sfratto che ragionevolmente impediva di assumere rilevanti ed onerose iniziative di ristrutturazione del locale anche in via anticipatoria ”, e che l’atto aveva in sostanza eluso ogni problema relativo alle pretese avanzate dalla società nell’ambito delle richieste di adeguamento dell’impianto e del contenzioso civile pendente sul rapporto di locazione. Evidenzia ulteriormente che con decisione n. 4219/2012 la stessa Sezione V ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto dal Comune di Verbania contro la ridetta sentenza n. 463/2009.

Tanto premesso, la società deduce l’erroneità, in fatto e in diritto, delle motivazioni della sentenza impugnata, e sostiene la sussistenza del nesso causale escluso dal Tar;
ribadisce la sussistenza dell’elemento soggettivo costitutivo del danno ingiusto (su cui il Tar non si è pronunziato), che rinviene nella condotta gravemente colposa, se non dolosa, dell’Amministrazione comunale, e segnatamente nel suo agire con negligenza e imperizia, rifiutandosi anche “ di osservare le pronunce giurisdizionali che hanno accolto le pretese della società, arrivando addirittura a esperire, in palese carenza dei presupposti, lo strumento della revocazione ”;
quantifica il danno subito [lucro cessante, ricostruito nei due scenari alternativi di prosecuzione dell’affitto d’azienda (€ 223.259,00) e di continuazione dell’attività in proprio (€ 538.308,00);
danno emergente, derivante dalla perdita del valore dell’attività commerciale, stimato sulla base dell’ammontare dei ricavi dal 1988 (€ 154.986,00)];
specifica di non aver concorso in alcun modo alla causazione del danno.

La società conclude quindi per la riforma della sentenza appellata e la condanna del Comune di Verbania, anche previa consulenza tecnica d’ufficio, al risarcimento dei danni subiti, in via principale nella misura non inferiore a € 693.294,00, in via subordinata nella misura non inferiore a € 378.245, 00, ovvero nella diversa somma ritenuta di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

Il Comune di Verbania si è costituito in resistenza.

In vista dell’udienza pubblica le parti hanno depositato memorie e documenti;
in particolare, l’appellante ha depositato una dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa un terzo, attestante che questi aveva manifestato nel 2006 l’interesse a rilevare l’attività di ristorazione di che trattasi;
l’Amministrazione ha sostenuto la correttezza della sentenza appellata e l’infondatezza dell’appello.

La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 10 marzo 2022.

DIRITTO

1. La sentenza impugnata ha respinto il ricorso con cui la società odierna appellante ha domandato la condanna del Comune di Verbania al risarcimento del danno derivatole dalla cessazione dell’attività di ristorazione a seguito dell’ordinanza comunale n. 5571/2006, dichiarativa della decadenza della relativa autorizzazione per decorso del periodo annuale massimo di sospensione di cui al previgente art. 4 della l. 25 agosto 1991, n. 287 (“ L’autorizzazione […] è revocata: a) qualora il titolare dell’autorizzazione medesima, salvo proroga in caso di comprovata necessità […] sospenda l’attività per un periodo superiore a dodici mesi ”), annullata con sentenza n. 463/2009 da questa Sezione del Consiglio di Stato, che ha poi dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione proposto dal Comune (decisione n. 4219/2012).

2. Nel giungere alla contestata conclusione, il Tar:

- in via preliminare, ha respinto l’eccezione di prescrizione sollevata dal resistente Comune di Verbania, accertando la tempestività della domanda risarcitoria “ in relazione al termine decadenziale breve di centoventi giorni stabilito dall’art. 30, quinto comma, cod. proc. amm., decorrente dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento del provvedimento lesivo (nella specie, il termine deve essere computato a partire dal 25 luglio 2012, giorno del deposito della sentenza del Consiglio di Stato n. 4219/12 che ha respinto il ricorso per revocazione ordinaria del Comune di Verbania avverso la sentenza n. 463/09: quest’ultima, per effetto della pendenza del giudizio di revocazione, non era passata in giudicato, secondo la regola generale sancita dall’art. 324 cod. proc. civ. ed applicabile anche nel processo amministrativo ”;

- nel merito, ha ritenuto l’infondatezza dell’azione risarcitoria per insussistenza del nesso di causalità tra l’illegittimo provvedimento di decadenza e la cessazione dell’attività imprenditoriale.

Sul punto, il primo giudice ha rilevato che il giudizio civile pendente tra il Comune di Verbania e la società (menzionato anche nelle ridette sentenze della Sezione), avente a oggetto il contratto di locazione dei locali di proprietà dell’Amministrazione comunale nei quali la società esercitava l’attività, direttamente o tramite affitto di azienda, si è concluso con la sentenza del Tribunale di Verbania 22 novembre 2006, n. 655/06 (confermata dalla sentenza della Corte di appello di Torino 2 ottobre 2008 n. 1363, e dalla sentenza della Corte di Cassazione 2 febbraio 2012, n. 1492), che, in accoglimento delle domande formulate dal Comune, ha dichiarato risolto il contratto per gravi inadempienze del conduttore nel pagamento dei canoni, e ha fissato il rilascio dei locali alla data del 15 dicembre 2006.

Ha poi osservato che, nella vigenza degli artt. 3 e ss. della l. 287/1991, le autorizzazioni comunali allo svolgimento di attività di somministrazione erano, oltre che numericamente contingentate, legate in modo inscindibile ai locali nelle stesse indicati, non potendo quindi essere liberamente trasferite dai titolari in altro immobile.

Su tali basi, ha ritenuto che l’impedimento della società alla prosecuzione dell’attività di ristorazione (in proprio o mediante affitto a terzi), fosse da attribuire non all’illegittimo provvedimento di decadenza, bensì alla sopraggiunta risoluzione giudiziale del contratto di locazione, avente effetto dal 15 dicembre 2006, e alla quale è seguito l’ordine di rilascio immediato dell’immobile, che ha comportato la perdita del valore economico della licenza amministrativa nella titolarità della società, non più correlata a un locale giuridicamente disponibile.

Ha osservato inoltre che dopo la sentenza di annullamento del provvedimento dichiarativo della decadenza la società non ha adottato alcuna iniziativa per la riattivazione della licenza e per la riapertura dell’esercizio, e ciò presumibilmente per l’impossibilità materiale di riavviare l’attività di ristorazione, in proprio o cedendola in gestione a terzi, per essere venuta meno la disponibilità giuridica dei locali di proprietà comunale ai quali la licenza accedeva.

3. La società sostiene che, diversamente da quanto affermato dal Tar, la disciplina vigente ratione temporis non conteneva il divieto di modificare, nella vigenza dell’autorizzazione, i locali dedicati all’esercizio dell’attività, atteso che gli artt. 3 comma 1 (“ L’apertura e il trasferimento di sede degli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande, comprese quelle alcoliche di qualsiasi gradazione, sono soggetti ad autorizzazione …”) e 5 comma 6 ( “ E’ consentito il rilascio, per un medesimo locale, di più autorizzazioni corrispondenti ai tipi di esercizio di cui al comma 1, fatti salvi i divieti di legge. Gli esercizi possono essere trasferiti da tale locale ad altra sede anche separatamente, previa la specifica autorizzazione di cui all’art. 3 ”) della l. 287/1991 dispongono espressamente in senso contrario. Sempre per la società, l’insussistenza di un siffatto divieto emerge anche dall’art. 4 della stessa legge, che non contempla nei casi di revoca dell’autorizzazione il mutamento dei locali destinati all’attività e neppure il venire meno della loro disponibilità.

Quanto poi alla circostanza rimarcata dal Tar che la società non si sia attivata per la reintestazione della licenza dopo la sentenza di questo Consiglio di Stato n. 463/2009, la società sostiene che tale condotta si giustifica considerando la pendenza del ricorso per revocazione promosso dal Comune, che, determinando l’incertezza sulla sorte della vicenda giudiziale, sconsigliava l’intrapresa delle onerose iniziative necessarie al reperimento di un nuovo locale e alla messa in opera di quanto necessario a renderlo idoneo all’attività;
infine, evidenzia che alla data di adozione della predetta sentenza il danno (che la società ha rivendicato in giudizio subito dopo l’esito a lei favorevole del ricorso per revocazione) si era già prodotto.

4. Si tratta di argomentazioni che non consentono di ribaltare l’esito del giudizio di primo grado.

5. La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la responsabilità della pubblica amministrazione per danno ingiusto da lesione di interessi legittimi richiede la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo (quest’ultimo inteso come “colpevolezza”), e del nesso di causalità, consistente nel collegamento del fatto lesivo con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati (tra tante, Cons. Stato, IV, 21 settembre 2015, n. 4375;
VI, 5 marzo 2015, n. 1099: V, 28 aprile 2014, n. 2195;
IV, 18 novembre 2013, n. 5458;
VI, 27 giugno 2013, n. 3521). In altre parole, occorre la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, secondo un giudizio di regolarità causale, un pregiudizio direttamente riferibile all’assunzione o all’esecuzione della determinazione contra ius lesivo del bene della vita spettante all’attore (Cons. Stato, II, 7 gennaio 2022, n. 106;
IV, 6 aprile 2016, n. 1356;
1° luglio 2015, n. 3258): proprio per tale ragione, il risarcimento del danno non spetta quando la declaratoria di invalidità del segmento di funzione pubblica in concreto esercitata ne consenta la riedizione con esiti liberi (Cons. Stato, IV, 8 febbraio 2018, n. 825).

Ai fini della risarcibilità del danno non è quindi sufficiente l’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo. La sua acclarata illegittimità costituisce infatti solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, ovvero una presunzione semplice di colpa che determina una inversione dell’onere della prova, spettando, nel caso, all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile (Cons. Stato, II, n. 106/2022, cit.;
IV, 4 febbraio 2020, n. 909;
18 ottobre 2019, n. 7082;
III, 5 giugno 2019, n. 3799;
VI, 5 marzo 2015, n. 1099;
V, 23 gennaio 2012, n. 265).

Anche nel giudizio amministrativo l’onere di provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito incombe sul danneggiato, operando il principio sancito dall’art. 2697 Cod. civ. e recepito dall’art. 64 Cod. proc. amm. secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda (Cons. Stato, II, 24 luglio 2020, n. 4732;
V, 28 aprile 2014, n. 2195;
VI, 30 giugno 2011, n. 3887). Nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera infatti con pienezza, senza il temperamento del metodo acquisitivo caratteristico dell’azione giurisdizionale di annullamento (C.G.A.R.S., 7 aprile 2021, n. 295;
V, 9 marzo 2020, n. 1674;
III, 23 maggio 2019, n. 3362;
VI, 19 novembre 2018, n. 6506): sicchè il privato che agisce per il risarcimento dei danni provocati dall’illegittimo esercizio del potere amministrativo deve fornire in modo rigoroso e circostanziato la prova di tutti gli elementi dell’illecito, la mancanza di uno solo dei quali determina l’infondatezza della pretesa.

Quanto più specificamente alla questione qui in primario rilievo, ovvero alla configurabilità del nesso di causalità, la giurisprudenza (bene sintetizzata da Cons. Stato, V, 8 agosto 2006, n. 1228) ha affermato che per rinvenire il collegamento materiale tra condotta ed evento occorre “ considerare ed utilizzare gli artt. 40 e 41 del codice penale, ritenuti applicabili pacificamente anche in materia civile (cfr. Cass., S.U., 26 gennaio 1971, n. 174). La soluzione scaturente dall’interpretazione di tali norme individua, come regola generale, sulla base della teoria della condicio sine qua non, che la condotta risulta causativa dell’evento dannoso qualora si accerti che essa ha posto in essere una condizione senza cui l’evento non si sarebbe verificato. È questo il c.d. processo di eliminazione mentale in base al quale la responsabilità viene meno se la simulazione dell’esclusione del fatto storico cui è ascritto il danno quest’ultimo non determina il venir meno del danno stesso. A tale regola che la dottrina e la giurisprudenza civilistica hanno mutuato dal diritto penale, è stato inserito un importante correttivo, desunto dall’art. 41, 2° comma, c.p., per cui il rapporto di causalità si ritiene escluso per il sopravvenire di un fatto che, pur non agendo del tutto indipendentemente dalla condotta del soggetto della cui responsabilità si controverte, giacché altrimenti darebbe luogo ad una serie causale autonoma, si pone come fattore interruttivo della catena causale, in grado, cioè, di deviare lo sviluppo normale di quest’ultima. In altri termini, secondo il principio della causalità efficiente di cui al capoverso dell’art. 41 c.p., la causa che abbia le caratteristiche della prossimità e sopravvenienza rispetto alle altre cause e sia sufficiente da sola a produrre l’evento, elimina il nesso eziologico tra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni (cfr. Cass. Civ., 7 ottobre 1987, n. 7467) . Sulla interruzione della “catena causale”, più di recente, Cons. Stato, III, 21 giugno 2017, n.3058.

6. In applicazione delle predette coordinate ermeneutiche, la questione posta dalla odierna controversia non si esaurisce, come sembra ritenere la società, nell’indagine in linea teorica di se la legge n. 287 del 1991, applicabile ratione temporis , consentisse o meno alla società, una volta perduta, per effetto dell’esito del contenzioso civile di cui sopra, la disponibilità dei locali detenuti in locazione ove svolgeva l’attività, di trasferire altrove la relativa autorizzazione ripristinata in via giudiziale.

Infatti una siffatta possibilità, anche ove accertata in astratto, non si convertirebbe comunque nella riconducibilità eziologica del danno rivendicato, consistente nella impossibilità della società di proseguire l’attività autorizzata in altra sede, al provvedimento illegittimo: se è vero infatti che la decadenza dell’autorizzazione si è rivelata contra ius , è parimenti vero che l’impedimento alla prosecuzione dell’attività nella sede originaria è discesa dalle sopraggiunte sentenze civili sopra citate, mentre sulla questione del trasferimento dell’autorizzazione in altra sede l’Amministrazione comunale non si è mai pronunziata, non essendo stata in tal senso richiesta dalla società.

Ed è questa la circostanza qui dirimente: e cioè che, al di là degli intendimenti dichiarati nella presente sede, il fascicolo di causa non fa emergere nessun elemento concreto che permette di acclarare che dopo la sentenza di questa Sezione n. 463/2009 la società, che alla data della sua emanazione non poteva più disporre dei locali cui l’autorizzazione era correlata, si sia attivata nei confronti del Comune per la prosecuzione dell’attività in altro luogo. La cessazione dell’attività imprenditoriale per mancato trasferimento della sede nonostante la reviviscenza dell’autorizzazione non può quindi essere imputata al provvedimento illegittimo, perché dipendente dalla condotta inerte della società.

E non sono persuasive le argomentazioni con cui la società tenta di giustificare la sua inerzia richiamando il ricorso per revocazione proposto dal Comune di Verbania avverso la ridetta sentenza n. 463/2009, quando il danno si era, in tesi, già prodotto.

La proposizione di detto ricorso non muta infatti il contesto della vicenda qui di rilievo, e ciò per la semplice ed evidente ragione che nel corso del relativo giudizio l’esecutività della sentenza n. 463/2009 non è stata sospesa, né il Comune avrebbe potuto conformarsi autonomamente al suo decisum , dal momento che tale adempimento comportava necessariamente una serie di decisioni (relative alla scelta di riprendere l’attività in altra sede e a tutte quelle connesse), che solo la società poteva compiere e comunicare all’Amministrazione ai fini della reintestazione dell’autorizzazione, e che non ha invece compiuto, plausibilmente per la ragione indicata nelle giustificazioni in esame (l’onerosità delle iniziative necessarie al reperimento di un nuovo locale e alla messa in opera di quanto necessario a renderlo idoneo all’attività). Questa attiene strettamente al rischio di impresa e conferma che la mancata intrapresa delle iniziative necessarie al trasferimento dell’attività si è correlata a una ben precisa valutazione della società, che fa escludere il nesso eziologico tra il provvedimento impugnato e la cessazione dell’attività imprenditoriale e conseguentemente il diritto al risarcimento.

7. Per tutto quanto precede, l’appello deve essere respinto.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

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