Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-06-08, n. 202204671
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Testo completo
Pubblicato il 08/06/2022
N. 04671/2022REG.PROV.COLL.
N. 09432/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9432 del 2014, proposto dal sig. -OMISSIS-, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avvocati D G e F T, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, largo Messico n. 7;
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria
ex lege
in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda) del 10 luglio 2014, n. -OMISSIS-, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Vista l’istanza di passaggio in decisione senza discussione, presentata dalla parte appellante;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 dicembre 2021 il Cons. F G, considerato presente l’avv. prof. D G per la parte appellante;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, il sig. -OMISSIS-, ex agente scelto della Polizia di Stato destituito dal servizio per motivi disciplinari con provvedimento del -OMISSIS-2008, agiva in giudizio contro il Ministero dell’Interno per denunciare la natura vessatoria e persecutoria degli atti e dei comportamenti dei suoi superiori gerarchici che, culminati con la sua destituzione, avrebbero integrato una ipotesi di c.d. mobbing e chiedere, di conseguenza, la declaratoria di nullità del provvedimento disciplinare, l’accertamento del discendente diritto alla reintegrazione nel servizio e nel grado e la condanna del Ministero intimato al risarcimento del danno, in relazione agli emolumenti non percepiti dal giorno della destituzione e al danno (morale, esistenziale, biologico, professionale e da perdita di chance ) subito in conseguenza delle denunciate condotte persecutorie e vessatorie.
Con sentenza del 10 luglio 2014, n. -OMISSIS-, il T.A.R. adito dichiarava il ricorso in parte inammissibile e in parte irricevibile e per il resto lo respingeva, compensando interamente tra le parti le spese del giudizio.
In particolare, rilevava che, in difetto dei presupposti di nullità dei provvedimenti amministrativi e in assenza di una norma espressa che equiparasse la condotta aggressiva collettivamente attuata a una causa di nullità di un atto amministrativo, il decreto di destituzione potesse, al più, denotare vizi di legittimità, i quali, però, non erano stati tempestivamente dedotti;che dalla conseguente irricevibilità del gravame sotto tale profilo derivava l’inammissibilità delle domande volte a conseguire la riammissione nei ranghi della polizia, la liquidazione delle retribuzioni non percepite dopo la destituzione e il risarcimento degli ulteriori danni;che era da disattendere anche la domanda di risarcimento del danno lamentato in conseguenza delle denunciate condotte persecutorie e vessatorie, dato che non risultava sufficientemente provato - in un contesto contraddittoriamente caratterizzato dal fatto che il ricorrente, nel corso della sua attività di servizio, aveva sia subito numerose sanzioni disciplinari, sia ricevuto elogi formali – che la struttura gerarchica avesse posto in atto un’organizzata manovra per emarginare il dipendente e che, ove anche così fosse stato, comunque egli avrebbe reagito in un modo così scomposto da relegarlo, di per sé solo, al di fuori del corpo.
Contro la sentenza di primo grado il sig. -OMISSIS-ha proposto appello, cui ha resistito il Ministero dell’Interno.
Le parti hanno prodotto memorie e alla pubblica udienza del 7 dicembre 2021, sull’istanza di passaggio in decisione senza discussione presentata dall’appellante, la causa è stata trattenuta in decisione.
Con un primo motivo d’impugnazione l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza appellata nella parte in cui non ha accolto il motivo sulla nullità del provvedimento di destituzione – solo in apparenza sostenuto da un’autonoma ragione giustificativa, ma, in realtà, costituente momento culminante di una serie di atti e comportamenti riconducibili a un medesimo disegno vessatorio e persecutorio -, confondendo l’elaborazione giurisprudenziale in materia di mobbing con quella in materia di nullità dei provvedimenti amministrativi ex art. 21 septies della l. n. 241/1990 e obliando la segnalata elaborazione pretoria sulla nullità del licenziamento irrogato all’interno di un comportamento complessivo di mobbing .
Con un secondo motivo d’impugnazione ha sostenuto che la conclusione raggiunta dal T.A.R. sulla mancanza di dimostrazione della condotta vessatoria e “mobbizzante” tenuta dall’amministrazione nei suoi confronti sarebbe errata e frutto di travisamento: la strumentalizzazione della vicenda penale subita e gli atti vessatori culminati con la destituzione dal servizio, nonostante avesse sempre svolte le proprie funzioni di ufficio con diligenza e capacità, come dimostrato dagli elogi ricevuti, costituirebbero chiaro indizio della sussistenza della fattispecie del mobbing ;ne sarebbero dimostrazione i numerosi documenti prodotti in giudizio (in particolare la relazione medico-legale sul nesso eziologico tra disturbi psicologici e vessazioni subite sul luogo di lavoro);le circostanze del processo penale subìto, richiamate dal T.A.R., sarebbero decontestualizzate rispetto alla sua personale vicenda professionale e la tenuità della condanna e i precedenti addebiti disciplinari avrebbero dovuto indurre il T.A.R., piuttosto, ad accogliere il ricorso o, quantomeno, a disporre un approfondimento istruttorio;in definitiva, sussisterebbero tutti i presupposti per qualificare come mobbing gli atti persecutori subìti, considerati il carattere sistematico e duraturo dell’attività vessatoria e/o persecutoria (protrattasi per oltre cinque anni), la raffinatezza del disegno volto a intaccare l’equilibrio psico-fisico della vittima, il chiaro intento persecutorio da parte dei superiori gerarchici e il nesso causale tra questo e i danni lamentati, che sarebbero evidenti nella sequenza diacronica dei fatti e nell’esito degli atti vessatori e persecutori perpetrati a suo danno.
L’appello è infondato sotto tutti i profili.
Infondato, anzitutto, è il primo motivo di gravame.
Oggetto del giudizio di primo grado era la legittimità della destituzione inflitta al ricorrente ai sensi dell’art. 7 del D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, che costituisce provvedimento amministrativo disciplinare, estintivo del rapporto di pubblico impiego, soggetto agli ordinari principi sull’esercizio del pubblico potere e al correlato sistema delle tutele delle corrispondenti posizioni di interesse legittimo.
Pertanto, la nullità di un tale provvedimento è predicabile soltanto nelle ipotesi previste e stabilite dall'art. 21 septies , comma 1, della l. n. 241 del 1990, per il quale « è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge », restando, di conseguenza, esclusa la possibilità di mutuare specifiche eventuali ipotesi di nullità del licenziamento nel lavoro privato.
B ha fatto, allora, il T.A.R. a ritenere che la destituzione dovesse essere impugnata negli ordinari termini decadenziali e, perciò, a dichiarare irricevibile il ricorso in parte qua , sul rilievo, insuperato nel presente grado di giudizio, che non vi erano i presupposti per affermare che l’atto fosse stato assunto in carenza di potere o mancante di elementi essenziali o compiuto in violazione o elusione di un giudicato, e che nessuna norma equipara la condotta aggressiva collettivamente attuata a una causa di nullità dell’atto amministrativo.
Infondato è anche il secondo motivo di appello.
Per orientamento condiviso, la configurabilità del mobbing lavorativo richiede, sotto il profilo soggettivo, una molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere, in modo miratamente sistematico e prolungato, contro il dipendente, con intento vessatorio ( ex multis , C.d.S., sez. II, 28 gennaio 2021, n. 862;sez. II, 19 gennaio 2021, n. 591;sez. II, 11 marzo 2020, n. 1746;Cass. sez. lav., 29 dicembre 2020, n. 29767;id., 11 dicembre 2019, n. 32381).
Occorre, dunque, il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso: “ Infatti, in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l’illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un’ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell’"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro ( Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 14 ; id., Sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905 ) ” (C.d.S., sez. II, n. 862/2021).
A configurare una condotta di mobbing lesiva concorre, con l’elemento soggettivo dell’intento persecutorio nei confronti del dipendente, un elemento oggettivo costituito da una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, compiuti direttamente dal datore di lavoro o da un suo preposto o da altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi, legata da nesso eziologico con un pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica ovvero nella propria dignità.
Per consolidata giurisprudenza si tratta di elementi tutti che il lavoratore ha l’onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla ( ex ceteris , C.d.S., sez. II, n. 862/2021;Cass. sez. lav. n. 29767/2020: “ ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., n. 10992 del 2020) ”).
L’appellante non ha fornito questa prova.
Indimostrata è la tesi per cui la sua destituzione costituirebbe il culmine di una raffinata strategia persecutoria attuata, a suo danno, da funzionari, dirigenti e questori: al contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che avrebbe dovuto connotare, nei termini che si sono detti, la condotta è la circostanza che la responsabilità dell’odierno appellante per i fatti a lui ascritti era già stata accertata in via definitiva con sentenza passata in giudicato e che la natura di quei fatti - reiterati, gravemente denigratori e diffamatori del dirigente dell’ufficio dove prestava servizio, particolarmente odiosi perché a sfondo sessuale, commessi divulgando dati riservati – è tale da portare ad escludere che la sanzione, in difetto di prova contraria, potesse essere stata adottata non per ragioni disciplinari (per manifesta incompatibilità dei suoi comportamenti coi doveri propri di un Agente della Polizia di Stato), ma al solo fine di emarginare in via definitiva l’interessato portando a compimento una supposta strategia persecutoria.
Quanto agli altri episodi riferiti nel ricorso d’appello (pagg. 3-24), difetta la descrizione di un quadro fattuale più dettagliato, anche di tipo probatorio, che consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante, nei confronti dell’odierno appellante, del complesso di quelle condotte, appartenenti a soggetti diversi e non per forza di cose espressione di una comune volontà di vessazione, emarginazione o mortificazione.
I capitoli di prova testimoniale articolati dal ricorrente riguardavano tutti indistintamente circostanze di fatto non utili a lumeggiare il profilo psicologico dei comportamenti che avrebbero costituito parte di un’unica e complessiva condotta persecutoria e non riguardando, pertanto, circostanze decisive al fine della decisione, non vi era ragione perché il T.A.R. li ammettesse.
In definitiva, il ricorso di primo grado è tardivo e, comunque, l’appellante non ha assolto l’onere di dimostrare l’esistenza di una condotta emulativa o persecutoria del datore di lavoro pubblico nei suoi confronti.
Ne segue che, al contrario di quanto sostenuto ancora in sede di appello, nessuna responsabilità civile è ascrivibile all’amministrazione, mancando, innanzitutto, il necessario presupposto dell’ingiustizia del danno.
Per queste ragioni, in conclusione, l’appello dev’essere respinto.
La particolarità della vicenda giustifica l’equa compensazione tra le parti delle spese del presente grado del giudizio.