Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-08-28, n. 202307989

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-08-28, n. 202307989
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202307989
Data del deposito : 28 agosto 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 28/08/2023

N. 07989/2023REG.PROV.COLL.

N. 01829/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1829 del 2023, proposto dalla signora -OMISSIS-, in qualità di titolare dell’esercizio pubblico denominato “-OMISSIS-”, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall'avvocato A F, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

il Comune -OMISSIS-, il Ministero dell'Interno, il Ministero dell'Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, l’Agenzia delle Dogane, il Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del T.R.G.A. della Provincia di Trento n. -OMISSIS-, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune -OMISSIS- del Ministero dell’Interno, del Ministero dell'Economia e delle Finanze, dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 luglio 2023 il Cons. A M M e sentiti i difensori delle parti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. L’odierna appellante, signora -OMISSIS-, già titolare dell’esercizio pubblico “-OMISSIS-e”, in località -OMISSIS- (TN), ha impugnato avanti al Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento l’ordinanza 15 marzo 2022, a mezzo della quale il Sindaco del Comune -OMISSIS- aveva disposto, ai sensi dell’art. 10 del Regio decreto -OMISSIS- (recante approvazione del testo unico delle Leggi di P.S.), la revoca del titolo abilitante all’esercizio dell’attività commerciale nonché, tra gli altri, il provvedimento prot. nr.-OMISSIS-, emesso dall’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli, Distretto XI – Bolzano e Trento, di revoca del patentino tabacchi n. -OMISSIS-.

Il contestato provvedimento tutorio è stato adottato perché - come si legge nell’ordinanza gravata - a causa di una serie di condotte, poste in essere nell’esercizio commerciale “-OMISSIS-e”, di comportamenti, consistenti in una consapevole e dichiarata inosservanza della normativa relativa alla prevenzione del contagio da Covid-19, come meglio specificati nella stessa ordinanza sindacale, ha dato origine ad una situazione di perturbamento della sicurezza pubblica riguardante il pubblico esercizio in oggetto, anche mediante l'inottemperanza alle norme vigenti sia di carattere penale che amministrativo.

Detta ordinanza sindacale è stata preceduta dall’atto di sospensione questorile ex art. 100 T.u.l.p.s, già gravato dall’odierna ricorrente in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

2. L’odierna appellante, nel contestare la sussistenza dei rispettivi presupposti degli atti gravati, ha impugnato, come detto, l’atto tutorio avanti al Tribunale della Provincia autonoma di Trento e ne ha chiesto, previa sospensione dell’efficacia, l’annullamento, con richiesta di condanna al risarcimento del danno, pari alla perdita del fatturato nella misura non inferiore a euro 25.000,00.

3. Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni intimate, tra cui, il Sindaco del comune di -OMISSIS-, rappresentato ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. 1° febbraio 1973, n. 49 e pedissequa deliberazione giuntale n. -OMISSIS-

4. Con ordinanza n. 20, emessa nella camera di consiglio del 10 giugno 2022, il T.R.G.A. ha rigettato la proposta domanda cautelare.

5. Con sentenza n. 198 del 10 novembre 2022, il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento ha respinto il ricorso, condannando la ricorrente alla refusione delle spese di lite in favore delle Amministrazioni resistenti.

6. Avverso tale sentenza ha proposto appello la signora -OMISSIS-, articolando cinque motivi e ne ha chiesto, previa sospensione dell’esecutività, la riforma, con il conseguente annullamento degli atti gravati in prime cure.

7. Si sono costituite anche in questo grado di giudizio le Amministrazioni appellate, per chiedere la reiezione del ricorso.

8. All’udienza del 6 luglio 2023 il Collegio ha trattenuto la causa in decisione.

9. L’appello è infondato e va respinto.

Al fine del decidere il Collegio ritiene necessario ripercorrere brevemente i fatti di causa nonché gli elementi posti a fondamento dell’impugnata ordinanza e meglio evidenziati dal su visto decreto di sospensione del Questore di Trento.

In data 8 aprile 2021 la Polizia Locale -OMISSIS-, contestava all’odierna appellante la violazione del d.l. 16 maggio 2020, n. 33 per "omesso uso di dispositivo di protezione alle vie respiratorie durante servizio al bancone" nell’ esercizio commerciale ed effettuato somministrazione di cibi e bevande oltre l'orario consentito;
contestualmente al verbale veniva disposta la chiusura dell'attività per cinque giorni, senza che la titolare ottemperasse a tale diffida.

Successivamente i Carabinieri della Stazione di -OMISSIS-, a seguito di un controllo dell'esercizio pubblico, deferivano all’Autorità giudiziaria la signora -OMISSIS- per violazione degli artt. 415 e 615 del c.p.. In data 9 aprile 2021 i militari contestavano, ancora, alla appellante la violazione dell’art. 1, comma 5, del

DPCM

2 marzo 2021 per “omesso uso di dispositivo di protezione vie respiratorie" all'interno del bar -OMISSIS-. Nel medesimo contesto, la signora -OMISSIS- veniva nuovamente deferita all’A.G. ai sensi degli artt. 415 e 651 del codice penale. A seguito delle reiterate inosservanze delle disposizioni normative adottate per fronteggiare l’epidemia Covid-19, in data 14 aprile 2021, il personale della Stazione dei Carabinieri di -OMISSIS-, deferiva nuovamente l’appellante all’Autorità giudiziaria per istigazione a disobbedire alle leggi, nonché per rifiuto di indicazione sulla propria identità personale. Con il gravato atto, il Comune di -OMISSIS-, a fronte dell’accertato svolgimento dell’attività, malgrado la revoca dell’autorizzazione, ha disposto la chiusura immediata dell’esercizio, mediante apposizione dei sigilli e muratura dell’accesso al locale della ricorrente, con apposizione di quattro blocchi di cemento. Infine, l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli disponeva la revoca del patentino per la vendita dei prodotti da fumo.

Tanto premesso in punto di fatto, il Collegio ritiene che l’appello sia infondato, e ciò consente di prescindere dall’esame delle eccezioni in rito sollevate dalla parte appellata.

10. Con il primo motivo di appello si sostiene che la dedotta violazione delle disposizioni del d.l. 25 marzo 2020, n. 19 - recante: “Misure urgenti per evitare la diffusione del contagio da Covid-19” - avrebbe dovuto comportare, ai fini sanzionatori, la sola misura pecuniaria dovendosi escludere qualsivoglia interpretazione estensiva. Sono state invece applicate distinte misure afflittive, tra le quali, la revoca della licenza commerciale, con conseguente illegittima dilatazione dello spettro sanzionatorio rispetto alle previste sanzioni correlate all’inosservanza delle disposizioni emergenziali.

Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione perché, come ha ben chiarito la prevalente giurisprudenza del giudice amministrativo, la licenza di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande è qualificabile come autorizzazione di polizia e, in quanto tale, soggetta alle misure sanzionatorie -sospensione o revoca - previste in generale dall'art. 10 del T.u.l.p.s. qualora ricorra un’ipotesi di abuso (cfr. T.A.R. Campania, Sede di Napoli, sent. 12 aprile 2011, n. 2102);
ciò in quanto, la successiva legge 25 agosto 1991, n. 287 - che ha aggiornato la normativa sull’insediamento e sull’attività degli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande - non ha invero comportato l’estromissione della materia di somministrazione alimentare al pubblico dall’ambito di applicazione del visto T.U..

Proprio per dette ragioni deve, certamente, condividersi la configurazione giuridica della licenza di polizia come sopra evidenziata che, quindi, non può dirsi estranea alle misure sanzionatorie della “sospensione” e della “revoca”, contemplate dal già menzionato art. 10 del T.u.l.p.s..

Corollario obbligato di tale premessa è la legittimità della misura sanzionatoria della sospensione della licenza, ai sensi dell'art. 10 del r.d. n. 773 del 1931, non solo nei casi di abuso del titolo, ma anche nelle ipotesi in cui la condotta del titolare il titolo abilitativo sia improntata alla violazione delle modalità di svolgimento del servizio. Le autorizzazioni di polizia devono, infatti, essere utilizzate conformemente alle prescrizioni contenute nelle leggi e nelle fonti sub-primarie, dovendosi ritenere che la violazione di tale corpus normativo configuri un uso certamente anomalo e, quindi, un evidente abuso del titolo, da sanzionare alla stregua dell'art. 10 richiamato (Cons. di Stato, Sez. VI, sent. 29 settembre 2010, n. 7185).

Va sul punto, ancora, evidenziato che si tratta di provvedimenti che le Autorità di P.S. possono adottare nell’esercizio della potestà di polizia: potestà, come è noto, diretta alla tutela della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico;
non potendo peraltro i titolari invocare i titoli di polizia – come dispone espressamente l’art. 11 del Regolamento di pubblica sicurezza – di fronte ai terzi ai fini escludere o diminuire la responsabilità penale o civile là dove il titolare medesimo sia incorso nell’esercizio concreto dell’attività esercitata.

Ciò chiarito, appare dunque condivisibile la conclusione del primo giudice secondo cui il mancato rispetto della normativa Covid-19, nella parte in cui si applica agli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, dà origine ad una situazione di abuso che, come già rilevato, legittima la revoca delle autorizzazioni di polizia da parte del Comune. Del resto la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire, in vicende analoghe riguardanti proprio il mancato rispetto della normativa Covid che “l’intenzione, di sottrarsi ad un obbligo riconosciuto come tale e non contestato - più volte e chiaramente ribadita anche nel presente gravame - non può essere riconosciuta come fondante un interesse tutelabile in giudizio, dato che elimina la definizione stessa di ‘legittimo’ dell’interesse a ciò abilitante, eliminazione tanto più evidente ove si consideri il contrasto tra le argomentazioni svolte dai ricorrenti e i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza 18 gennaio 2018, n. 5 ... e dalla sentenza del Consiglio di Stato 14 febbraio 2018, n. 962, che enfatizzano come la previsione della copertura vaccinale sia funzionale all’adempimento di un generale dovere di solidarietà che pervade e innerva tutti i rapporti sociali e giuridici”.

Di qui l’infondatezza della censura in esame, che indugia in una lettura non sempre coerente e lineare delle viste disposizioni normative, sistematicamente interpretate, specie là dove viene contestata l’irrogazione di misure tutorie in presenza di condotte connotate da contegni indiscutibilmente abusivi, tra cui, come si legge nell’ordinanza gravata, …l’apertura del locale, oltre gli orari consentiti;
… la rimozione dei sigilli apposti dall’autorità etc..

11. Con il secondo motivo di censura l’appellante contesta, ancora e sotto analogo profilo, l’applicazione del T.U. delle leggi di P.S., quale conseguenza dell’accertata inosservanza della normativa sulla prevenzione del contagio da Covid-19;
lamenta, in sostanza, l’applicazione degli artt. 10 e 100 del T.U., sostenendo la prevalenza della legge provinciale Trento 14 luglio 2000, n. 9 che, nel disciplinare l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, non contempla le misure sanzionatorie nella specie adottate dall’Autorità sindacale.

Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento.

Deve, in primo luogo, osservarsi che la legge provinciale n. 9 del 2000, recante la disciplina dell'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande e dell'attività alberghiera, dispone all’art. 27, intitolato “Tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica” che: “…per i fini di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, gli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza effettuano i controlli e le autorità di pubblica sicurezza, adottano i provvedimenti previsti dalle leggi vigenti, con ciò prevendo specifiche sanzioni in caso di inosservanza sull’attività di somministrazione di alimenti e bevande”.

Ebbene, poiché la tutela della sicurezza pubblica è garantita mediante la prevenzione contro tutti i pericoli che possono minacciare - oltre alla tutela dei beni - la incolumità fisica dei cittadini, è evidente che il mancato rispetto della normativa Covid-19 - nella parte in cui si applica agli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande - concreta quella situazione di abuso che certamente, come già rilevato, giustifica l’adozione della revoca delle autorizzazioni di polizia ex art. 10 T.u.l.p.s. da parte dell’autorità comunale.

Evidente è, infatti, il pericolo alla cui prevenzione è diretto il gravato provvedimento tutorio, in relazione alla possibilità che il locale divenisse un focolaio dell’epidemia che, secondo il normale nesso eziologico (corroborato dai pareri tecnici del Comitato Tecnico Scientifico), avrebbe potuto essere foriero di conseguenze dannose per la collettività (oltre che, naturalmente, per gli avventori).

La prospettazione della appellante porterebbe a conclusioni irragionevoli, nel senso che la normativa sulla prevenzione dal Covid finirebbe, nella sostanza, per costituire una sorta di scudo protettivo per eludere le ulteriori misure sanzionatorie che l’ordinamento appresta per la tutela della sicurezza pubblica. La tesi dell’appellante non risulta condivisibile anche perché, diversamente argomentando, non può affatto escludersi che dall’omessa adozione delle misure in contestazione si sarebbe potuto produrre - circostanza statisticamente non improbabile - presso l’esercizio commerciale della ricorrente un focolaio.

Di qui l’infondatezza della censura in esame, che indugia in una lettura non sempre coerente e lineare delle disposizioni normative sopra richiamate, sistematicamente interpretate, specie là dove si contesta la possibilità di irrogazione di provvedimenti tutori in presenza di condotte indiscutibilmente di abuso.

12. Con il terzo e quarto motivo di appello, che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, si lamenta l’erroneità della sentenza impugnata per avere dichiarato l’inammissibilità del ricorso frutto, a suo dire, di un equivoco sia nell’individuazione dell’atto gravato (recte: revoca delle licenze), sia nel comprendere l’esatta ragione per la quale era stata scrupolosamente illustrata - dalla difesa della appellante - la normativa emergenziale, ossia di sollecitare… “il potere officioso del Giudice di disapplicare le norme illegittime contenute nel d.l. n. 19 del 2020 e nei d.P.C.M. applicativi dello stesso”.

La tesi dell’appellante non può essere condivisa.

La doglianza così come articolata non è condivisibile perché, quand’anche si volesse seguire nell’individuazione dei provvedimenti impugnati innanzi al Giudice amministrativo un criterio di natura sostanziale, rimane il fatto, come ha ben rilevato sul punto anche la sentenza impugnata, che l’art. 40, comma 1, c.p.a., nell’indicare il contenuto del ricorso, prevede che esso “deve contenere distintamente ... i) l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi compreso l’atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza;
... ii) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso;
...” con la conseguenza che “...i provvedimenti impugnati devono essere puntualmente inseriti nell'oggetto della domanda e a questi devono essere direttamente collegate le specifiche censure;
ciò perché solo l'inequivoca indicazione del petitum dell'azione di annullamento consente alle controparti la piena esplicazione del loro diritto di difesa”.

Ne discende, quindi, che la omessa menzione dei decreti, nell’epigrafe e nelle conclusioni del ricorso, inducono in tutta evidenza a ritenere che la domanda di annullamento non abbia ad oggetto tali atti, proprio perché tali atti non risultano formalmente impugnati”.

13. Con il quinto ed ultimo motivo di censura, la parte appellante reitera, infine, la violazione del “diritto eurounitario”, rilevando anzitutto il contrasto del d.l. 25 marzo 2020, n. 19 e dei d.P.C.M. emanati in ossequio dello stesso, con i “diritti fondamentali inviolabili consacrati dalla CDFUE”. Inoltre lamenta la ricorrente le limitazioni all’esercizio dell’attività commerciale imposte dalla normativa Covid-19, avrebbero a suo dire richiesto la notifica alla Commissione Europea, in aderenza a quanto disposto nel d.lgs. n. 59 del 2010, di attuazione della c.d. direttiva Bolkestein.

Pure in questo caso il motivo si limita a riproporre, tali e quali, le censure svolte in primo grado senza sviluppare alcuna nuova argomentazioni critica contro il percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata.

In ogni caso, prescindendo da tale profilo di inammissibilità, la motivazione espressa dal primo giudice va esente da qualsivoglia censura perché, come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato la mancata notifica alla Commissione Europea delle limitazioni imposte alle attività commerciali, posto che si è trattato di limitazioni temporanee e parziali funzionali alla tutela della salute e dell’incolumità pubblica. Così pure è stato ancora chiarito da questo Consiglio di Stato (sez. I, adunanza di Sezione del 28 aprile 2021, n. 850/2021 del 13 maggio 2021, affare n. 115/2021) in ipotesi analoghe riguardanti la legittimità dei d.P.C.M. che “si rivela altresì infondata la censura secondo la quale i d.P.C.M. avrebbero violato la ‘legge fondamentale che disciplina l’attività anche per il servizio ristorazione, e cioè il d.lgs. n. 59 del 26 marzo 2010, il cui art. 12, comma 1, lett. a) subordina le restrizioni quantitative all’esercizio dell’attività di prestazione dei servizi alla previa notifica alla Commissione europea, secondo il disposto dell’art. 13”.

La censura si fonda, invero, sull’erroneo presupposto interpretativo secondo il quale le misure contestate, introdotte con i d.P.C.M. impugnati, costituirebbero regole atte a limitare la concorrenza ovvero la libera circolazione dei servizi.

Si tratta, al contrario, di misure restrittive temporanee e parziali, aventi il fine di tutelare la salute e l’incolumità pubblica, valide in modo generale, omogeneo e indifferenziato per ciascuna categoria merceologica interessata, in quanto tali del tutto inidonee ad alterare la concorrenza e il mercato, come del resto chiarito dall’art. 8, d.lgs. n. 59 del 2010.

Rafforza tale conclusione il disposto dell’art. 2, d.lgs. n. 59 del 2010, in base al quale: “Le disposizioni del presente decreto non si applicano: a) alle attività connesse con l'esercizio di pubblici poteri, quando le stesse implichino una partecipazione diretta e specifica all'esercizio del potere pubblico e alle funzioni che hanno per oggetto la salvaguardia degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche’”. Ne discende, dunque, l’insussistenza dell’obbligo di notifica invocato dalla appellante.

14. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, l’appello della signora -OMISSIS- deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Le spese e gli onorari di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

Resta definitivamente a carico della signora -OMISSIS- il contributo unificato richiesto per la proposizione dell’appello.

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