Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2020-12-09, n. 202007766

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2020-12-09, n. 202007766
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202007766
Data del deposito : 9 dicembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 09/12/2020

N. 07766/2020REG.PROV.COLL.

N. 02271/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2271 del 2020, proposto da
G A, rappresentato e difeso dagli avvocati E L e G R, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;

contro

Ministero della giustizia, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Csm - Consiglio Superiore della Magistratura, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, sez. I, n. 650 del 2019, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Csm - Consiglio Superiore della Magistratura;

Viste le memorie delle parti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza del giorno 26 novembre 2020, tenuta da remoto secondo quanto stabilito dall'art. 25, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2020, n. 137, il Cons. E Q;

Ai sensi dell’art. 4, comma 1, ultimo periodo, d.l. n. 28 del 2020 e dall'art. 25 d.l. n. 137 del 2020, è data la presenza dell'avvocato E L;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il dottor G A, giudice di pace presso la sede di Savona, ha proposto appello nei confronti della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria n. 650 del 2019, che ha respinto il suo ricorso teso all’accertamento del diritto ad ottenere lo status giuridico di pubblico dipendente a tempo pieno o part-time nell’ambito della magistratura, od in subordine nell’ambito del personale del Ministero della giustizia, con conseguente condanna dell’amministrazione alla ricostruzione della posizione giuridica, economica, assistenziale e previdenziale, oltre che al risarcimento del danno derivante dall’illegittima reiterazione di contratti a termine.

L’appellante assume che il rapporto, benchè qualificato onorario dalla legge, sia in realtà di pubblico impiego, essendo il giudice di pace sottoposto al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del competente Presidente del Tribunale;
la retribuzione corrisposta è inserita, dal punto di vista fiscale, nella sezione “altri redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente”;
la stessa riforma della magistratura onoraria, di cui al d.lgs. n. 116 del 2017, ha ribadito la natura onoraria ed inderogabilmente temporanea dell’incarico, ma al contempo ha accentuato l’inserimento stabile dei magistrati onorari nell’apparato dell’amministrazione, previsto la relativa dotazione organica, ampliato le competenze, consentito una sostanziale stabilizzazione del rapporto fino a quattro quadrienni con cessazione al compimento del sessantottesimo anno di età.

Con il ricorso di primo grado aveva dedotto, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale della legge n. 374 del 1991 e della legge n. 57 del 2016 per violazione degli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione nella parte in cui non riconoscono ai giudici di pace il trattamento retributivo, assistenziale e previdenziale dei magistrati ordinari e dei pubblici impiegati, ed anche in relazione all’art. 117 della Costituzione per contrasto tra la legge nazionale e l’art. 12 e l’art E della Carta sociale europea (ratificata con la legge n. 30 del 1999), laddove non prevede un sistema di sicurezza sociale per i pubblici dipendenti che non dispongono di copertura sociale alternativa.

Come detto, la sentenza appellata ha respinto il ricorso.

L’appello è affidato ai seguenti motivi di diritto:

I) errata qualifica del rapporto di lavoro come onorario invece che come rapporto di pubblico impiego;
violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronunzia sulla dedotta violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione;
violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione;
richiesta di rinvio alla Corte Costituzionale;

II) violazione dell’art. 117 della Costituzione per contrasto tra la legge nazionale e l’art. 12 e l’art. E della Carta sociale europea riveduta, ratificata con legge n. 30 del 1999;
violazione della raccomandazione CM/REC (2010) del CEDS dei Ministri del Consiglio d’Europa;
richiesta di rinvio alla Corte Costituzionale;

III) violazione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito nella direttiva 1999/70/CE ed in particolare della clausola 2, della clausola 4, commi 1 e 2, e della clausola 5, punto 1;
violazione della clausola 4, commi 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale recepito dalla direttiva 1997/81/CE;
violazione dell’art. 7 della direttiva 2003/88/CE sull’orario di lavoro, in combinato disposto con la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito nella direttiva 1999/70/CE e della clausola 4, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale recepito dalla direttiva 1997/81/CE;
violazione degli artt. 1, 2, c. 2, lett. a), e 6 delle direttiva 2000/78/CE;
richiesta di rimessione della questione pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE;

IV) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 137 della Costituzione in combinato disposto con l’art. 1 legge n.1 del 1948;
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, con particolare riferimento al mancato riconoscimento dello status di pubblico dipendente;

V) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., sotto il profilo del mancato riconoscimento dello svolgimento di fatto di un rapporto di lavoro subordinato ed il conseguente diritto alle differenze retributive ed alla regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale;

VI) violazione e/o falsa applicazione della direttiva 99/70/CE, clausola 5, punto 1, lett. a)-c), in correlazione con l’art. 36 TUPI;

VII) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 ed E della Carta Sociale e delle direttive UE con particolare riferimento al principio di non discriminazione in combinato disposto con il diritto alla sicurezza sociale.

Si sono costituiti per resistere all’appello il Ministero della Giustizia, il Csm e la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

All’udienza del 26 novembre 2020, tenuta da remoto secondo quanto stabilito dall'art. 25, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2020, n. 137, l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato.

Le censure sollevate con il gravame in trattazione (indipendentemente dalla loro numerazione nel libello di appello) sono state tutte puntualmente esaminate e decise dalla Sezione con la sentenza 21 febbraio 2020, n. 1326, alla quale si rinvia ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 74 c.p.a. e dalle cui adeguate e condivisibili motivazioni e conclusioni non vi è ragione di discostarsi, non essendo d’altra parte emerse, né essendo stati prospettati, nuovi e/o diversi elementi o circostanze da valutare.

Ragioni di completezza espositiva suggeriscono di riportare integralmente qui di seguito il testo della decisione richiamata.

Con il primo motivo viene dedotta l’omessa pronuncia sulla censura di violazione, da parte della normativa sui giudici di pace, degli artt. 3, 36 e 38 Cost.;
allega in particolare come anche in sede di riforma della magistratura onoraria con d.lgs. n. 92 del 2016 e con d.lgs. n. 116 del 2017 non sia mutata la disciplina economica relativa ai giudici di pace in servizio, che rimane contenuta nella legge n. 374 del 1991, senza alcun riconoscimento di tutela previdenziale ed assistenziale a carico del datore di lavoro. Al contrario, il rapporto di servizio del giudice di pace enuclea molteplici elementi di similitudine con il rapporto di impiego pubblico;
si tratta comunque di un giudice “professionalizzato”, che appartiene all’ordine giudiziario, ed è reclutato attraverso un concorso per titoli all’esito di un tirocinio con prova attitudinale finale;
è sottoposto agli obblighi ed alle responsabilità del magistrato togato, ma riceve solamente un’indennità che non comprende alcuna tutela previdenziale ed assistenziale. Di conseguenza, ad avviso dell’appellante, sia l’art. 11 della legge n. 374 del 1991, che l’art. 25 della legge n. 57 del 2016, che l’art. 31 del d.lgs. n. 116 del 2017, laddove affermano l’onorarietà dell’incarico, escludendo in radice la sussistenza di un rapporto di pubblico impiego, non prevedendo alcuna tutela previdenziale ed assistenziale ad esso correlata, devono ritenersi in contrasto con gli artt. 3 (sotto il profilo della non ragionevole disciplina penalizzante rispetto ai magistrati togati a fronte di una parità di mansioni), 36 (che afferma il principio di proporzionalità tra la retribuzione e la qualità e quantità del lavoro, non soddisfatto da un mero trattamento basato sulla corresponsione di indennità), e 38 Cost. (stante la mancata previsione di ferie e del trattamento di malattia).

Il motivo è infondato.

Anche in relazione al dedotto vizio di omessa pronuncia, va rilevato come il primo giudice abbia unitariamente trattato gli eccepiti profili di illegittimità costituzionale, anche dunque quelli denunciati assumendo a parametro gli artt. 36 e 38 Cost., risolvendoli in senso negativo in ragione di una differenza tra magistrato onorario e magistrato togato rinvenibile, più che nella diversità delle funzioni svolte, nel distinto sistema di reclutamento, riveniente il proprio fondamento nell’art. 106 Cost., con ricaduta anche sul trattamento economico e previdenziale.

Ciò posto sul piano formale, giova richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nei confronti del giudice di pace si instaura un rapporto di servizio non coincidente con quello di pubblico impiego, seppure con sue proprie peculiarità, connesse alla peculiarità delle funzioni svolte.

In particolare, è stato osservato che il funzionario onorario (categoria della quale fa parte il giudice di pace secondo l’espressa previsione di cui all’art. 1, comma 2, della legge istitutiva 21 novembre 1991, n. 374) ricorre allorchè esiste un rapporto di servizio volontario, con attribuzione di funzioni pubbliche, ma senza la presenza degli elementi caratterizzanti l’impiego pubblico ed i due rapporti si distinguono in base ai seguenti elementi : 1) la scelta del funzionario che, nell’impiego pubblico, viene effettuata mediante procedure concorsuali ed è dunque di carattere tecnico-amministrativo, mentre per le funzioni onorarie è di natura politico-discrezionale;
2) l’inserimento nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione che è strutturale e professionale per il pubblico impiegato e meramente funzionale per il funzionario onorario;
3) lo svolgimento del rapporto che, nel pubblico impiego, è regolato da un apposito statuto, mentre nell’esercizio delle funzioni onorarie è privo di specifica disciplina, quest’ultima potendo essere individuata unicamente nell’atto di conferimento dell’incarico e nella natura di tale incarico;
4) il compenso, che consiste in una vera e propria retribuzione, inerente al rapporto sinallagmatico costituito tra le parti, con riferimento al pubblico impiegato e che invece, riguardo al funzionario onorario, ha carattere meramente indennitario ed, in senso lato, di ristoro degli oneri sostenuti;
5) la durata del rapporto che, di norma, è a tempo indeterminato nel pubblico impiego ed a termine (anche se vi è possibilità di rinnovo dell’incarico) quanto al funzionario onorario.

Applicando tali coordinate ermeneutiche, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che il giudice di pace sia un magistrato onorario (Cass., sez. lav., 9 settembre 2016, n. 17862;
Cass., SS.UU., 31 maggio 2017, n. 13721;
Cass., sez. lav., 4 gennaio 2018, n. 99).

La giurisprudenza ha altresì chiarito che l’art. 54 Cost., costituendo l’unica fonte della disciplina costituzionale dell’attribuzione di funzioni pubbliche al cittadino al di fuori del rapporto di pubblico impiego, esclude qualsiasi connotato di sinallagmaticità tra esercizio delle funzioni e trattamento economico per tale esercizio. Ne consegue la natura indennitaria dell’erogazione erariale per l’esercizio di una funzione pubblica, così che il rapporto con il Ministero della Giustizia si colloca al di fuori del perimetro del rapporto di lavoro, e dunque anche al di fuori dell’ambito assistenziale e previdenziale previsto dall’art. 38 Cost.

Non vi è, dunque, un contrasto con gli artt. 36 e 38 Cost. delle norme di rango primario intervenute a disciplinare il giudice di pace;
si può anzi evidenziare che l’art. 2, comma 13, lett. l), della legge 28 aprile 2016, n. 57 (recante la delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria ed altre disposizioni sui giudici di pace), sensibile alle tematiche della sicurezza sociale di un funzionario onorario con connotati parzialmente professionali, indica, come principio direttivo, per il futuro, quello di «individuare e regolare un regime previdenziale ed assistenziale compatibile con la natura onoraria dell’incarico, senza oneri per la finanza pubblica, prevedendo l’acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull’indennità».

3. - Il secondo motivo di appello deduce poi la violazione, da parte delle predette norme recanti la disciplina del giudice di pace, dell’art. 117 Cost. per contrasto tra la legge nazionale e l’art. 12 e l’art. E della Carta sociale europea (ratificata con la legge n. 30 del 1999);
in particolare l’appellante censura la sentenza che ha ritenuto prevalente l’art. 106 Cost. sulla fonte internazionale interposta, nell’assunto che il Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS), organo che sovrintende alla corretta applicazione della Carta sociale europea, fonte internazionale priva di effetto diretto e la cui applicazione richiede dunque l’intervento della Corte costituzionale (adita in via incidentale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.), con decisione del 16 novembre 2016 ha accolto il reclamo dell’ANGdP, proprio constatando la violazione dell’art. 12 della Carta, che prevede il diritto di ciascun lavoratore alla sicurezza sociale, e dell’art. E della Carta, ai sensi del quale il godimento dei diritti riconosciuti (dalla Carta) deve essere garantito senza alcuna distinzione. Assume dunque l’appellante che il primo giudice avrebbe dovuto rimettere alla Corte costituzionale il giudizio di prevalenza tra l’art. 106 e l’art. 117 Cost. in relazione alla norma interposta degli artt. 12 ed E della Carta sociale europea.

Il motivo, pur nella sua complessità, non appare suscettibile di positiva valutazione.

3.1. -Va anzitutto premesso che la Carta sociale europea (riveduta nel 1996 e ratificata e resa esecutiva con la legge n. 30 del 1999) presenta spiccati elementi di specialità che la collegano alla CEDU, della quale costituisce il naturale completamento sul piano sociale, e pertanto è stata qualificata dalla Corte costituzionale come fonte internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. (in termini Corte cost. 13 giugno 2018, n. 120;
8 novembre 2018, n. 194). Occorre aggiungere che, secondo la ricordata giurisprudenza, le pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, pur nella loro autorevolezza, non vincolano i giudici nazionali nell’interpretazione della Carta sociale europea, tanto più se l’interpretazione estensiva proposta non trova conferma nei principi costituzionali dell’ordinamento nazionale (lo si precisa in considerazione dell’allegazione dell’appellante che ricorda come il CEDS con decisione del 16 novembre 2016 abbia accolto il reclamo dell’ANGdP).

Con questa precisazione in ordine all’astratta idoneità della carta sociale europea a fungere da parametro di costituzionalità, occorre peraltro chiedersi se sia corretto l’assunto dell’appellante secondo cui, stante l’assenza di efficacia diretta della convenzione, la sua applicazione richieda sempre e comunque l’intervento della Corte costituzionale.

Il quesito impone, ad avviso del Collegio, una soluzione negativa, in quanto la Corte è adita in via incidentale allorché le venga prospettata una questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., della norma nazionale ritenuta in contrasto con la Carta.

Tale non è la situazione che caratterizza la fattispecie in esame.

Occorre muovere dalla premessa che nel caso di specie si deduce l’illegittimità costituzionale delle norme nazionali in tema di giudici di pace che non assicurano il diritto alla sicurezza sociale, peraltro configurato dalla carta sociale mediante affermazione di principi ad attuazione progressiva e con applicazione ispirata al principio di non discriminazione.

Inoltre la fonte internazionale (nella specie, la carta sociale) è invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale a condizione che la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo, mentre nel caso lo è solo con norme nazionali. Deve al riguardo sottolinearsi come il rapporto di servizio del magistrato, caratterizzato da una carriera speciale di diritto pubblico e dall’esercizio di una funzione espressiva di sovranità, non può essere assimilato ad un comune rapporto di lavoro (in termini, tra le tante, Cons. Stato, V, 21 febbraio 2018, n. 1096).

Peraltro la legge statale, in particolare l’art. 2, comma 13, lett. l), della legge n. 57 del 2016, come già ricordato, prevede, quale criterio direttivo della delega legislativa, l’individuazione di un regime previdenziale ed assistenziale compatibile con la natura onoraria dell’incarico, quindi introducendo un sistema di sicurezza sociale.

3.2. - A fronte di tali tre considerazioni, che si pongono su piani ermeneutici differenti, ma sono già di per sé idonee ad escludere una illegittimità costituzionale della normativa interna, occorre, sul piano più generale, chiarire quale sia la posizione dei trattati internazionali nel sistema delle fonti del diritto italiano.

A tale riguardo, occorre riconoscere che l’art. 117, comma 1, Cost. comporta il dovere per il legislatore ordinario di non violare le previsioni contenute in accordi internazionali;
tale previsione costituisce un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto agli obblighi internazionali, e, con essi, al parametro comunemente qualificato norma interposta, integrativa del precetto costituzionale. Detto in altri termini, le norme convenzionali, interposte tra la Costituzione e la legge ordinaria alla stregua di fonti intermedie tra leggi ordinarie e precetti costituzionali, sono idonee a fungere sia da parametro di costituzionalità ex art. 117 Cost., sia (esse stesse) da oggetto del giudizio di costituzionalità.

La giurisprudenza costituzionale, con particolare riguardo alla CEDU (ma con argomentazione estensibile anche alla carta sociale europea), ha precisato che le relative norme, rimanendo pur sempre a un livello sub-costituzionale, non si sottraggono al controllo di costituzionalità, essendo evidente, sul piano logico e sistematico, che la Costituzione non può essere integrata da fonti che ne violino i valori precettivi: la costituzionalità delle norme internazionali è, quindi, un generale controlimite, id est una precondizione ineludibile per il funzionamento del meccanismo di interposizione plasmato dall’articolo 117 citato.

Inoltre, ai fini che ora rilevano, la Corte delle Leggi ha precisato che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, in guisa da garantire un ragionevole bilanciamento con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione (Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349). In estrema sintesi, l’art. 117, comma 1, Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme (come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo) costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dall’art. 117, comma 1, Cost. e la loro violazione da parte di una legge statale o regionale comporta che tale legge deve essere dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, sempre che la norma della convenzione non risulti a sua volta in contrasto con una norma costituzionale (si tratta dell’operatività dei cc.dd.

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