Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-03-23, n. 202302978

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2023-03-23, n. 202302978
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202302978
Data del deposito : 23 marzo 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 23/03/2023

N. 02978/2023REG.PROV.COLL.

N. 04662/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4662 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati F S e S F, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato F S in Roma, Lungotevere delle Navi, 30

contro

la Corte dei conti, in persona del Presidente pro tempore , la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore , il Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore , la Corte dei conti - Segretariato Generale, in persona del Segretario Generale pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
l’Istituto nazionale di previdenza e assistenza sociale - INPS, in persona del Direttore pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato Dario Marinuzzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sezione Prima, n. 1403/2021, resa tra le parti, in materia di applicabilità del cd. divieto di cumulo di cui all'art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della Corte dei conti, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'economia e delle finanze e della Corte dei conti - Segretariato Generale;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’INPS;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 gennaio 2023 il Cons. D D C e uditi per le parti l’avvocato F S e l'avvocato dello Stato Paola De Nuntis;

Viste le conclusioni delle parti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il ricorrente ha impugnato, chiedendone l'annullamento, il provvedimento con cui il Segretariato generale della Corte dei conti ha comunicato il recupero di somme non dovute nel periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre 2014, in quanto eccedenti il limite retributivo annuale, ai sensi dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, nonché gli atti ad esso presupposti, fra cui, in particolare, la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3/2014, recante le “ Nuove disposizioni in materia di limiti alle retribuzioni e ai trattamenti pensionistici - articolo 1, commi 471 e ss. della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità per 2014) ”.

1.1. Il ricorrente ha chiesto, inoltre, l’accertamento del diritto a percepire interamente gli emolumenti connessi al servizio prestato come magistrato della Corte dei conti nel suddetto periodo, nonché a vedersi versati i relativi contributi previdenziali e gli accantonamenti ai fini del trattamento di fine servizio, con conseguente condanna dell’Amministrazione a versare quanto ancora dovuto e a restituire le somme nelle more indebitamente trattenute o recuperate.

2. Per meglio comprendere i fatti oggetto di impugnativa, è opportuno ripercorrere brevemente le vicende che hanno preceduto l’emanazione degli atti impugnati, nonché i successivi sviluppi processuali in cui si è articolato il contenzioso.

Più nel dettaglio, il ricorrente, all’epoca dei fatti, era un Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza, in congedo dal mese di febbraio 2013.

Avendo manifestato, all'atto del collocamento a riposo, la disponibilità a prestare servizio presso l'Amministrazione di appartenenza, o altra Amministrazione, nell'ambito del Comune o della Provincia di residenza, era stato inizialmente collocato nella categoria ausiliaria, ai sensi dell'art. 886, del decreto legislativo n. 66/2010.

A dicembre 2013, è transitato, a domanda, nella categoria della riserva, ai sensi del successivo art. 887, del citato decreto legislativo, in vista della sua nomina governativa a consigliere della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 7, del R.D. n. 1214/1934 e del d.P.R. n. 385/1977, nomina che è poi in effetti avvenuta nello stesso mese.

Nell’anno 2014, ha percepito la retribuzione di consigliere della Corte dei conti, oltre ad un trattamento economico provvisorio erogato dal Comando Generale della Guardia di Finanza, in sostituzione del trattamento pensionistico per l'attività lavorativa svolta in passato.

Solo a far data dal 1° gennaio 2015, ha iniziato a ricevere il trattamento di quiescenza definitivo.

Ad un certo punto, è accaduto che il Segretariato generale della Corte dei conti gli ha comunicato di ritenere applicabile nei suoi confronti il regime concernente il cd. divieto di cumulo di cui all'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, e gli ha chiesto la restituzione degli emolumenti percepiti nel corso dell'anno 2014, eccedenti il limite retributivo annuale.

In particolare, l’Amministrazione gli comunicava che “ risulta una somma percepita eccedente il limite retributivo annuale, pari ad euro 75. 399,79 ” e che “ al fine di consentire la corretta emissione della certificazione dei redditi da lavoro dipendente (CUD), regolarizzando la Sua posizione fiscale per l'anno 2014, il versamento dell'importo non dovuto, al netto delle ritenute previdenziali e fiscali relative all'anno di competenza 2014, dovrà essere effettuato entro il 15 dicembre p.v.;
(…) qualora il versamento delle somme non dovute sia effettuato in data successiva a quella del 31 dicembre 2014, l'importo complessivo da restituire sarà pari ad euro 120.254,47, comprensivo delle ritenute fiscali che l'amministrazione, in qualità di sostituto d'imposta, non potrà compensare in assenza di capienza sui cedolini mensili del 2015
”, e motivava la doverosità del recupero sulla base dell’applicazione dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, che, in combinato disposto con l’art. 23-ter del decreto legge n. 201/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 214/2011, e con l’art. 13, comma 1, del decreto legge n. 66/2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 89/2014, vieta alle Amministrazioni pubbliche di erogare, a beneficio di soggetti già titolari di trattamenti pensionistici a carico di gestioni previdenziali pubbliche, retribuzioni che, sommate alle pensioni percepite, superano l'importo della retribuzione annua onnicomprensiva spettante al Primo Presidente della Corte di cassazione.

In conseguenza di ciò, egli si è trovato a dovere restituire le mensilità retributive percepite nell’anno 2014, a non percepire alcuna retribuzione per l’anno 2015 e, dimessosi dal servizio nel mese di marzo 2015, a non ricevere il trattamento di fine rapporto o altro trattamento pensionistico, neanche in forma una tantum.

3. Ritenendosi leso nella propria sfera giuridica ed economica, il ricorrente ha impugnato le suddette determinazioni amministrative, deducendo i seguenti motivi:

i) violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, in quanto il ricorrente, nell’anno 2014, ha percepito un trattamento erogato dal Comando Generale della Guardia di Finanza, mentre la norma limita la propria applicazione ai “ soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche ”;

ii) violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per non avere, l'Amministrazione, applicato la deroga concernente “ i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza ”, nonostante il ricorrente fosse un pubblico funzionario già in carica all'entrata in vigore della previsione di legge;

iii) in via subordinata, illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per violazione degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., in riferimento all'art. 6 della CEDU, in ragione del trattamento irragionevolmente deteriore riservato al ricorrente rispetto a quello degli altri funzionari e dipendenti al servizio delle Pubbliche Amministrazioni, nonché per l'irragionevole lesione del suo legittimo affidamento (tutelato dall'art. 6 CEDU), non giustificato né sul piano del contenimento della spesa pubblica, né da altro interesse di rilievo costituzionale;

iv) ancora in via subordinata, illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per violazione degli artt. 3, 4, 36, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., in quanto il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comporta la forte decurtazione o addirittura l’azzeramento della remunerazione della funzione di consigliere della Corte dei conti, in violazione degli artt. 4 e 36 Cost., determinando altresì un vulnus allo status di indipendenza e autonomia garantito ai magistrati dagli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost., risolvendosi nell'imposizione di un prelievo fiscale speciale illegittimo, in quanto contrastante con gli artt. 3 e 53 Cost.

Inoltre, essendo la nomina a consigliere della Corte dei conti riservata, ai sensi art. 7, del R.D. n. 1214 del 1934, a coloro che hanno già conseguito, quanto meno, la qualifica di direttore generale o ispettore generale nell'Amministrazione statale o nelle Amministrazioni ad essa equivalenti, ovverossia a persone che hanno normalmente già conseguito il diritto al trattamento di quiescenza, la disposizione risulterebbe altresì irragionevolmente contraddittoria e in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto penalizza e disincentiva l'assunzione nei ruoli della magistratura contabile dei migliori curricula disponibili;

v) ancora, illegittimità dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013 per violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost., dato che, alla diminuzione della retribuzione, consegue la decurtazione dei contributi previdenziali e, quindi, del trattamento pensionistico derivante dall'accumulo di tale montante contributivo;

vi) illegittima applicazione in senso retroattivo dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, dato che il provvedimento impugnato, adottato solo nel mese di dicembre 2014, ha invece prodotto effetti a far data dal gennaio 2014;

vii) violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, per avere l'Amministrazione ritenuto rilevanti, ai fini del tetto massimo degli emolumenti percepibili, anche l’indennità integrativa speciale e l’indennità giudiziaria di cui all'art. 3, della legge n. 27 del 1981, nonostante le medesime non abbiano natura retributiva.

4. Con l’ordinanza n. 5833 del 17 aprile 2015, il TAR del Lazio, sede di Roma, preliminarmente prospettando il rigetto dei motivi volti a far valere la violazione della normativa di riferimento, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo rilevanti e non manifestamente infondate alcune delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente (in particolare, quelle relative agli articoli 3, 4, 36, 38, 97, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione).

In particolare, il TAR poneva in luce come “ il meccanismo del tetto massimo degli emolumenti comporta che la remunerazione della funzione di consigliere della Corte dei conti risulti fortemente ridotta o del tutto azzerata ” e che “ la scelta dello Stato, mediante la disposizione di legge in esame, di continuare ad avvalersi del pieno apporto professionale dei ricorrenti (...), pur avendo esso Stato chiesto agli interessati di svolgere tale funzione mediante la proposta di nomina alla funzione (retribuita) di Consigliere della Corte dei Conti –dichiaratamente motivata dalla loro eccellenza professionale in ragione della delicatezza e quindi dell’impegno delle funzioni da svolgere– appare costituzionalmente irragionevole, con la conseguente possibile violazione dell’articolo 36, primo comma, della Costituzione, quanto al diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità (oltreché alla qualità) del lavoro, nonché, indirettamente, dell’articolo 38 della Costituzione, in quanto la drastica riduzione o addirittura l'azzeramento della retribuzione – e quindi della relativa contribuzione - precludono la conseguente implementazione della tutela assistenziale e previdenziale garantita dall'ordinamento ”.

Con la medesima ordinanza, il TAR riteneva invece insussistente il presupposto della non manifesta infondatezza delle censure di costituzionalità concernenti l'immediata applicabilità della disciplina in questione ai rapporti di lavoro in corso, formulate con riferimento al principio del legittimo affidamento e all'art. 3 Cost.

Infine, il TAR si riservava di esaminare i residui motivi concernenti le errate e ingiuste modalità con cui la norma era stata applicata, all’esito della pronuncia della Corte.

5. La Corte si è pronunciata con la sentenza n. 127 del 2017, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.

6. Il giudizio è stato riassunto dal ricorrente e nuovamente sospeso dal TAR con l’ordinanza del 10 dicembre 2018, n. 11890, in attesa che la Corte di Giustizia si pronunciasse sulla pregiudiziale europea sollevata dal medesimo TAR, in cause analoghe, con le ordinanze del 4 dicembre 2018, n. 11755/2018 e n. 11756/2018, con le stesse dubitandosi della compatibilità rispetto al diritto UE di una normativa nazionale che “ di fatto comporta la vanificazione del sinallagma lavorativo e con essa la violazione del principio di proporzionalità tra qualità e quantità del lavoro svolto e relativa retribuzione, nonché del principio secondo cui ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro dignitose, di qualità eque e paritarie ”.

7. La Corte di Giustizia, con l’ordinanza della Settima Sezione del 15 maggio 2019 (cause riunite C-798 e C-790/18), ha ritenuto la suddetta domanda irricevibile, non rinvenendo nelle controversie in relazione alle quali era stata proposta alcun “ elemento di collegamento con le disposizioni del Trattato FUE relative alla libera circolazione dei lavoratori che renda l'interpretazione in via pregiudiziale richiesta necessaria ” ai fini della decisione del giudizio principale.

8. Riassunto nuovamente il giudizio, il TAR ha definitivamente deciso il ricorso, respingendolo, sia alla luce delle considerazioni già illustrate nella propria precedente ordinanza n. 5715/2015, sia in considerazione della declaratoria di infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 124/2017.

9. Nel censurare la legittimità del ragionamento logico-giuridico posto dal TAR a sostegno della reiezione del ricorso, il ricorrente ha lamentato:

i) l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, confermando e rinviando all'ordinanza n. 5833/2015, ha ritenuto applicabile l'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, malgrado la norma riferisca il proprio ambito soggettivo di applicazione ai soli titolari di trattamenti pensionistici erogati da “ gestioni previdenziali pubbliche ”, mentre il ricorrente, nell’anno 2014, ha percepito un trattamento economico provvisorio erogato dal Comando Generale della Guardia di Finanza;

ii) l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui, sempre confermando e rinviando all'ordinanza n. 5833/2015, ha ritenuto non applicabile al ricorrente la disposizione contenuta nel terzo periodo dell’art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, ai sensi della quale “ sono fatti salvi i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi ”, interpretando la norma nel senso, non previsto, che la stessa si riferirebbe soltanto ai “ rapporti (…) che a quel momento (...) non solo erano già in corso, bensì erano anche individuati da un naturale termine di “scadenza”, e non già, quindi, per l’esercizio in atto di una funzione giurisdizionale “togata” e non onoraria, ovverosia svolta a seguito dell’inserimento a pieno titolo in un plesso giurisdizionale, con la conseguente creazione di un rapporto d’ufficio caratterizzato non già da una prefissata temporaneità bensì - al contrario - dalla stabilità ed anzi dalla garanzia di inamovibilità ”.

iii) L’erroneità della sentenza per avere ribadito le ragioni di manifesta infondatezza già prospettate nella ordinanza n. 5833/2015, anche in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. con riferimento agli artt. 1 e 6 CEDU, non avvedendosi dell’illegittimità, posta in essere dal legislatore, di riservare un trattamento irragionevolmente deteriore e discriminatorio ai dipendenti pubblici non contrattualizzati, rispetto a quelli titolari di incarichi o contratti a tempo determinato, oltre che per la violazione del principio del legittimo affidamento.

In ordine ad entrambi i parametri, l’appellante ha espressamente richiesto un nuovo vaglio della questione di legittimità costituzionale.

iv) Ancora, l’erroneità della sentenza impugnata per non avere ravvisato sussistenti i presupposti neppure per la rimessione alla Corte della questione di illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost.

Anche in questo caso, l’appellante ha insistito per un nuovo vaglio della questione adducendo, a fortiori, l'illegittimità della misura per il suo carattere permanente e definitivo.

v) Inoltre, l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimo il mancato accantonamento di contributi previdenziali e relativi al trattamento di fine servizio, con conseguente illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013 in relazione all'art. 38 Cost.

Sotto questo profilo, invero, l’appellante non si è lamentato, come per i precedenti motivi, della mancata rimessione della questione alla Corte, bensì del fatto che il TAR, nel respingere il motivo, non si sia avveduto del fatto che la Corte non si era pronunciata sul suddetto profilo, assorbendolo in quello di cui all’art. 36 Cost., il solo, a suo avviso, ad essere stato vagliato.

L’appellante ha dunque insistito per una nuova rimessione alla Corte, per il caso in cui il Collegio decida di non riformare nemmeno in tale parte la sentenza.

vi) L’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza pure per non essersi avveduta dell’illegittima applicazione retroattiva della normativa, in tal modo lesiva del principio del legittimo affidamento circa la remuneratività delle prestazioni lavorative già svolte, trasformate unilateralmente in prestazioni sostanzialmente a titolo gratuito.

vii) Infine, l’appellante ha dedotto la erroneità della sentenza nella parte in cui la stessa ha ritenuto legittima l'inclusione, nel calcolo della retribuzione onnicomprensiva, dell'indennità integrativa speciale e dell'indennità giudiziaria, così entrando in conflitto con l'insopprimibile diritto dei magistrati all'indennità giudiziaria, che costituisce una “ componente del trattamento economico collegata ai principi di autonomia ed indipendenza della magistratura ”, di cui agli artt. 100, 101, 104 e 108 Cost.

10. Nel costituirsi in giudizio, l’INPS ha preliminarmente eccepito il difetto della propria legittimazione passiva, comunque insistendo per la reiezione del gravame nel merito.

11. Si sono costituiti in giudizio anche il Segretariato Generale della Corte dei conti, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’economia e delle finanze e la Corte dei conti, preliminarmente insistendo per la declaratoria di inammissibilità dei motivi di appello ripropositivi delle corrispondenti censure di primo grado già respinte dal TAR con l’ordinanza n. 5833/2015, e chiedendo anch’essi il rigetto dell’appello nel merito.

12. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive, mediante il deposito di documenti e di memorie difensive.

13. All’udienza pubblica del 31 gennaio 2023, la causa è stata trattenuta in decisione.

14. In via preliminare, va esaminata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dall’INPS, riguardando, la stessa, la corretta instaurazione del rapporto processuale.

Il Collegio ritiene che l’eccezione sia fondata e che, pertanto, l’INPS debba essere estromessa dal giudizio, in quanto la stessa non è l’Autorità che ha emanato l’atto impugnato (l’atto è stato infatti adottato dal Segretariato generale della Corte dei conti), né ha concorso in alcun modo ad emanarlo (l’atto di indirizzo presupposto, ossia la circolare esplicativa delle modalità di applicazione dell’art. 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, è stato adottato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri).

Inoltre, come risulta per tabulas dagli atti processuali versati al giudizio, la parte ricorrente non ha formulato conclusioni nei confronti dell’INPS, instando per la sola condanna dell’Amministrazione di appartenenza al pagamento delle somme asseritamente dovute.

Non va sottaciuta la circostanza, infine, che qualora il limite di 240.000,00 euro annui sia superato, la riduzione, sul piano amministrativo, deve essere operata dall'amministrazione che eroga il trattamento economico, e non dall'amministrazione che si occupa del trattamento previdenziale (in tal senso, Corte costituzionale, sentenza n. 124/2017, paragrafo 9.1.).

15. Ancora in via preliminare, va esaminata l’eccezione di inammissibilità per tardività dei primi due motivi di appello.

Il Collegio ritiene che l’eccezione debba essere disattesa, in considerazione della natura interlocutoria e provvisoria delle argomentazioni contenute nell’ordinanza n. 5833/2015, la cui funzione principale è stata quella di rimettere alla Corte costituzionale alcune questioni, e non già quella di decidere una parte delle domande proposte con statuizioni definitive, suscettibili di passare in cosa giudicata.

Non sussistono i presupposti, inoltre, per fare applicazione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, il quale, attesa la sua origine pretoria e la portata derogatoria rispetto alla tassonomia delle classificazioni dei provvedimenti giurisdizionali, ha natura eccezionale ed è assoggettato a stringenti limiti di verifica circa l’effettiva volontà del giudice di pronunciare su parte soltanto della domanda, con statuizioni suscettibili di essere immediatamente impugnate.

Infine, elementi argomentativi di segno contrario non possono essere desunti neppure dal comportamento processuale tenuto dal ricorrente.

Più in particolare, l’affermazione del ricorrente contenuta nella memoria datata 10 dicembre 2020, secondo cui “ All’evidenza, dopo la sentenza della Corte n. 124/2017 e l'ordinanza della Corte di Giustizia del 15 maggio 2019, la materia del contendere, per lo meno in questa sede, si restringe ai motivi di ricorso non ancora esaminati da codesto Ecc.mo T.A.R. ”, va intesa, in assenza di oggettivi riscontri, univoci ed inequivoci nel senso di palesare una sopravvenuta rinuncia ai motivi di ricorso originario, quale mera necessità di prendere atto dei pronunciamenti delle Corti superiori.

Ad ogni modo, i suddetti riproposti motivi sono pure infondati nel merito, sicché si sarebbe anche potuto prescindere dall’esaminarne il profilo di rito (Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014;
e Ad. plen., n. 9 del 2014 e n. 5 del 2015, secondo cui è possibile derogare alla naturale rigidità dell’ordine di esame quando è preferibile risolvere la lite rigettando il ricorso nel merito o nel rito in base ad una ben individuata ragione più liquida, sulla scorta del paradigma sancito dagli artt. 49, co. 2, e 74 c.p.a., sempre che il suo esercizio non incida sul diritto di difesa delle parti e consenta un’effettiva accelerazione della definizione della lite).

16. Venendo ora al merito della controversia, il Collegio espone le seguenti considerazioni.

17. Il primo motivo di appello, con cui si censura la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, sotto il profilo della non corretta individuazione dell’ambito soggettivo di efficacia della disposizione, non è fondato.

Il TAR ha motivato la reiezione della censura con l’argomentazione che “ la previsione normativa introdotta dall’art 23 ter del decreto-legge n. 201/2011 e rafforzata dalla legge di stabilità per il 2014 (legge 27.12.2013, n. 147, in particolare per quanto d’interesse con l'art. 1, commi 471 e ss), così come chiarito dalla definizione degli ambiti applicativi della norma risultanti dalla circolare n. 8/2012 del Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione e dalla circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3/2014, è volta a limitare la soglia massima dei trattamenti retributivi e pensionistici che fanno comunque carico a risorse pubbliche, riguardando l'ambito soggettivo di applicazione del decreto tutti i titolari di rapporto di lavoro subordinato o autonomo con "le pubbliche amministrazioni", e ciò –in un sistema pensionistico ancora essenzialmente retributivo come quello del ricorrente, e quindi non legato ad uno specifico rapporto sinallagmatico con i contributi versati durante la vita lavorativa- non appare né in contrasto con alcuna disposizione dell’ordinamento né irragionevole, a condizione peraltro di estendere il limite a tutti i soggetti posti nelle medesime condizioni sotto il predetto profilo, alla stregua dell’art. 3, primo comma, della Costituzione ”.

Il ragionamento logico-giuridico seguito dal TAR si è sviluppato, dunque, lungo due fondamentali direttrici esegetiche, e precisamente quella letterale, frutto dell’interpretazione testuale, e quella teleologica, frutto dell’interpretazione sistematica, facendo corretta applicazione, ad avviso del Collegio, della disposizione contenuta nell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale (cd. Preleggi), “ Interpretazione della legge ”, che prevede che “ Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore. Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe;
se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato
”.

Nell’ordine, pertanto, i canoni ermeneutici di cui l’interprete deve fare applicazione sono:

a) l’interpretazione letterale palesata dal significato proprio delle parole;

b) l’interpretazione sistematica delle parole secondo la connessione di esse;

c) la analogia iuris e la analogia legis , per i casi simili o le materie analoghe;

d) se il caso rimane ancora dubbio, i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.

Il Collegio ritiene che il primo giudice, nell’interpretare ed applicare la norma contenuta nell’art. 1, comma 489, della legge n. 147/2013, abbia effettivamente individuato la ratio iuris della disposizione, che è quella, in sostanza, di “ limitare la soglia massima dei trattamenti retributivi e pensionistici che fanno comunque carico a risorse pubbliche ”, traendo così l’unica conseguenza logico-giuridica possibile, ossia che l'ambito soggettivo di applicazione del decreto riguarda tutti i titolari di rapporto di lavoro subordinato o autonomo con le pubbliche amministrazioni.

In quest’ottica prospettica, il riferimento testuale alla erogazione di trattamenti pensionistici da parte di “gestioni previdenziali pubbliche” trova il suo necessario completamento nella interconnessione teleologica rispetto al tessuto normativo nel quale la previsione si innesta.

Tale tessuto, come correttamente illustrato dal TAR, va individuato nell’art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011, solo rafforzato dall’art. 1, comma 489, legge n. 147/2013, e che prevede quanto segue:

1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è definito il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni, stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione. Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui al presente comma devono essere computate in modo cumulativo le somme comunque erogate all'interessato a carico del medesimo o di più organismi, anche nel caso di pluralità di incarichi conferiti da uno stesso organismo nel corso dell'anno. ”.

Inoltre, ad avviso del TAR, l’individuazione della ratio della disposizione non può prescindere da considerazioni sistematiche di carattere più generale, che attengono cioè alla natura del sistema pensionistico applicabile all’interessato, ancora essenzialmente retributivo, e quindi non legato ad uno specifico rapporto sinallagmatico con i contributi versati durante la vita lavorativa (cfr. anche la sentenza n. 124/2017 con cui la Corte costituzionale, nell’evidenziare che la disciplina di cui al comma 489, dell'art. 1, della legge n. 147/2013 “ rappresenta lo sviluppo della disciplina del limite retributivo”, ha ritenuto la stessa legittima in un'ottica di “tutela sistemica, non frazionata, dei valori costituzionali in gioco ”).

A fortiori, pertanto, si giustifica una esegesi ampia ed inclusiva della norma.

A queste condivisibili argomentazioni di ordine sistematico, l’appello ha contrapposto, invece, argomenti esegetici di ordine puramente letterale, incentrati sul solo dato testuale del riferimento alle “ gestioni previdenziali pubbliche ”.

In particolare, l’appellante, pur ammettendo che il trattamento economico di cui gode ha carattere sostitutivo della pensione ed è ad esso assimilabile (v. la pagina 8 del ricorso in appello), ha continuato ad insistere sulla tesi ‘formalistica’ secondo cui non si rientrerebbe comunque a pieno titolo nell'ambito di applicabilità della norma in esame, in quanto il Comando Generale della Guardia di Finanza non è tecnicamente qualificabile come una “ gestione previdenziale pubblica ”.

Nel sostenere ciò, in definitiva, l’appello ha trascurato di considerare sia l’addentellato normativo preesistente, sia la specifica finalità di contenimento del carico sulla finanza pubblica, omettendo così anche di formulare specifiche censure (doverose ai sensi dell’art. 101, comma 1, c.p.a.) avverso tutti i passaggi logico-argomentativi in cui si è articolato il capo di pronuncia impugnato.

In definitiva, ad avviso del Collegio, fra le due interpretazioni proposte, l’unica corretta e da condividersi è quella applicata dall’Amministrazione, così come vagliata dal TAR.

Ad ulteriore supporto di quanto già detto, può aggiungersi anche che la norma dell'art. 1, comma 471, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, come successivamente modificata dall' art. 13, comma 2, lettera a), del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, a decorrere dal 1º gennaio 2014, prevede che le disposizioni di cui al presente articolo in materia di trattamenti economici si applicano a chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti comunque denominati in ragione di rapporti di lavoro subordinato o autonomo intercorrenti con le autorità amministrative indipendenti, con gli enti pubblici economici e con le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale di diritto pubblico di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo.

Tale previsione, sebbene ratione temporis successiva rispetto alla fattispecie esaminata, avvalora però sul piano esegetico la correttezza dell’interpretazione fornita dal TAR sulla norma della cui applicazione si tratta, in quanto rende ragione della idoneità della norma a ricomprendere nel suo ambito soggettivo di efficacia chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche retribuzioni o emolumenti, comunque denominati e gestiti [cfr. anche Corte costituzionale n. 124 e n. 127 del 2017;
secondo quest’ultima pronuncia, in particolare, “ La componente oggettiva (rapporto di lavoro dipendente o autonomo con amministrazioni statali) si combina con quella soggettiva (emolumenti a carico delle finanze pubbliche), nel senso che, ove sia integrato il requisito oggettivo, sul piano soggettivo qualsiasi prestazione a carico dello Stato incide sulla definizione del trattamento economico annuo onnicomprensivo ”].

18. Il secondo motivo di appello, che censura ancora la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, questa volta però sotto il profilo della mancata applicazione al ricorrente della deroga concernente “ i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza ”, è anch’esso infondato.

Il TAR ha respinto la censura con la motivazione che “ Si è quindi in presenza, osserva il Collegio, di una questione controversa concernente non una vera e propria retroattività della legge (con tutti i conseguenti divieti e limiti costituzionali a tutela della certezza del diritto, dell’affidamento e della

ragionevolezza del legislatore, ampiamente affrontati anche dalla Corte Costituzionale), bensì una

questione di diritto intertemporale connessa all’entrata in vigore della nuova disciplina, disposta dal legislatore –nell’ambito del legittimo esercizio della proprio spazio di discrezionalità riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, senza la previsione di un periodo transitorio, fatta eccezione per la tassativa deroga prevista per "i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza", ovverosia per tutti i rapporti –indifferentemente di diritto privato o pubblico, così come affermato dal ricorrente - che a quel momento, peraltro, non solo erano già in corso, bensì erano anche individuati da un naturale termine di “scadenza”, e non già, quindi, per l’esercizio in atto di una funzione giurisdizionale “togata” e non onoraria, ovverosia svolta a seguito dell’inserimento a pieno titolo in un plesso giurisdizionale, con la conseguente creazione di un rapporto d’ufficio caratterizzato non già da una prefissata temporaneità bensì -al contrario- da particolari garanzie di stabilità. ”.

L’appello ha incentrato le sue contestazioni intorno a due argomentazioni:

i) il presupposto interpretativo da cui ha preso le mosse il TAR sarebbe privo di aggancio testuale e sistematico, in quanto non è vero che il legislatore ha selezionato “ chirurgicamente ” i rapporti in corso di esecuzione, esclusi dall'applicazione immediata della disposizione in esame: in questo senso, l'espressione utilizzata dal legislatore “ contratti e incarichi in corso ” non indicherebbe una specifica categoria di rapporti con la pubblica amministrazione, ma sarebbe anzi talmente generica da ricomprendere rapporti di varia natura e durata, e cioè tutte le attività contrattualizzate, di diritto pubblico ovvero di diritto privato, e tutte quelle ulteriori attività affidate tramite il conferimento di incarichi;

ii) il ragionamento del TAR sarebbe errato anche nella parte in cui ha individuato il discrimine dell’applicazione della normativa nel fatto che i rapporti di lavoro esclusi sono solo quelli che prevedono una naturale scadenza, e cioè una durata limitata nel tempo, così da non gravare sine die sulle casse dell’erario.

Ad avviso del Collegio, entrambe le argomentazioni difensive prospettate non colgono nel segno.

In primo luogo, il quadro normativo di riferimento è sufficientemente chiaro, certo ed adeguato nel prevedere che vengono eccettuati dall’applicazione della disposizione soltanto “ i contratti e gli incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza prevista negli stessi ”, con disposizione testuale che non lascia adito a dubbi circa il fatto che il contratto o l’affidamento debbano essere assoggettati ad un termine che conduca il rapporto a cessare naturalmente, e cioè alla relativa scadenza.

Anche sul piano sistematico, l’esegesi del TAR si conferma senza dubbio come quella più convincente, logica e razionale.

La disposizione normativa si riferisce, infatti, sia alla “ naturale scadenza ”, e cioè al concetto giuridico della efficacia, presupponendo che la stessa, ad un certo punto, venga a cessare;
sia a quello che la naturale scadenza debba essere “ prevista negli stessi ”, cioè nei medesimi contratti o incarichi eccettuati dall’ambito di applicazione della norma.

In quest’ottica prospettica, prova dunque troppo la tesi del ricorrente secondo cui anche il suo rapporto giuridico sarebbe naturalmente sottoposto a scadenza, perché arriverà il giorno in cui il medesimo rapporto cesserà per sopraggiunti limiti di età.

Piuttosto, sulla base della interconnessione delle parole utilizzate, deve concludersi che la volontà del legislatore sia stata quella di eccettuare dall’ambito applicativo oggettivo della norma, in mancanza di norme regolanti il periodo transitorio, i soli contratti e gli incarichi di durata che abbiano già avuto un inizio di svolgimento, che siano ancora in corso di esecuzione e che prevedano, essi stessi, un termine di cessazione dell’efficacia, certo e predeterminato.

In questo senso, si chiarisce anche meglio la circostanza di come sia assente, nella predetta norma, qualsivoglia profilo di discriminazione o disparità di trattamento delle situazioni giuridiche, siccome il legislatore ha ricompreso nella fattispecie da sottrarre all’applicazione del principio del divieto di cumulo indifferentemente tutti i rapporti giuridici, siano essi di diritto privato o di diritto pubblico, essendo il comune denominatore la prefissata temporaneità.

Proprio in ciò, del resto, si coglie la razionalità della norma, ossia la possibilità di approssimare, in assenza di una disciplina transitoria e per un tempo ragionevolmente circoscritto, un calcolo ipotetico di quello che sarà il carico gravante sulle casse dell’erario, essendo i rapporti assoggettati a termine finale, certi e determinati nel loro preciso ammontare, e ragionevolmente prossimi a scadere.

Se nel suddetto calcolo venissero ricompresi anche i contratti e gli incarichi ‘naturalmente destinati a scadere’ per definitivo collocamento a riposo, la razionalità dell’impianto verrebbe certamente compromessa, non tanto perché non sarebbe possibile effettuare un calcolo approssimativo del carico gravante sulla finanza pubblica, quanto perché, invece, verrebbe meno la finalità di contenere immediatamente la fuoriuscita di risorse pubbliche.

Nel bilanciamento degli interessi, pertanto, si appalesa ragionevole, razionale e non arbitraria la scelta del legislatore, per un verso, di non introdurre una disciplina transitoria per regolare gli effetti di tutti i contratti impattanti sulla finanza pubblica (rapporti a tempo indeterminato, a tempo determinato o parziale, di diritto pubblico o di diritto privato), e per un altro verso di eccettuare dal raggio applicativo della norma i soli rapporti destinati a scadere entro un termine certo e predeterminato dai contratti o dagli affidamenti, e non i rapporti caratterizzati, invece, da tendenziali garanzie di stabilità a lungo termine.

Non va sottaciuto, infine, che anche secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale non è implausibile la premessa ermeneutica alla base del giudizio di rilevanza, secondo cui “ La clausola non si applicherebbe, dunque, a un rapporto di ufficio, tendenzialmente stabile e svincolato da un termine di durata precostituito ” e che “ Da questo angolo visuale, il concetto di incarico, significativamente accostato al vocabolo "contratto", evocherebbe, anche secondo il significato proprio delle parole (art. 12 delle preleggi), una prospettiva di temporaneità. La scadenza dell'incarico, indicata nell'incarico stesso, differisce dalla durata massima legale di un rapporto di ufficio, determinata in ragione dei limiti d'età di volta in volta stabiliti dalla legge ” (Corte costituzionale, sentenza n. 124/2017).

19. Ad avviso del Collegio sono manifestamente infondate, inoltre, le riproposte questioni di legittimità costituzionale della norma.

20. Più in particolare, in relazione ai parametri degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., in riferimento all'art. 6 della CEDU, non sussiste il presupposto della non manifesta infondatezza della questione.

Non si coglie, per la precisione, la paventata ragione di “ trattamento irragionevolmente deteriore riservato al ricorrente rispetto a quello degli altri funzionari e dipendenti al servizio delle Pubbliche Amministrazioni ”, dal momento che, come si è illustrato nel punto precedente, l’eccettuazione dall’ambito di efficacia della norma dei soli contratti e incarichi in corso fino alla loro naturale scadenza, prevista negli stessi, ha riguardato tutti i rapporti giuridici in essere con la Pubblica Amministrazione.

Non si può parlare, dunque, come pure viene prospettato dall’appellante, di discriminazione, nel senso che il legislatore abbia voluto riservare un trattamento deteriore, e quindi ingiusto, a coloro che sono titolari di uffici tendenzialmente stabili e che assai probabilmente giungeranno alla naturale scadenza per sopraggiunti limiti di età.

Semmai, la fattispecie va interpretata alla luce del principio di differenziazione, ossia nel senso, logico e razionale, di incidere immediatamente sull’impatto dei rapporti in essere sulle casse dell’erario, eccettuando solo quelli in corso e prossimi alla scadenza da essi stessi prevista.

In quest’ottica prospettica, nemmeno si coglie l’ulteriore profilo di irragionevolezza lamentato dall’appellante, ossia la lesione del principio del legittimo affidamento.

In particolare, tale principio, che ha origine e tutela nel diritto europeo, incontra anche in quell’ordinamento, così come in quello interno, le naturali limitazioni derivanti dalla necessità, per un verso, di contemperare i diritti quesiti e, per un altro verso, di disciplinare i rapporti in corso di esecuzione, adattandoli alle sopravvenienze e ai mutamenti del contesto politico, sociale ed economico.

Ciò detto, il Collegio non ravvisa nemmeno sotto tale profilo una ragione di possibile non manifesta infondatezza della questione, dal momento che non si è trattato di fare un’applicazione retroattiva della norma con la conseguente eliminazione di diritti quesiti definitivamente entrati a far parte della sfera giuridica del destinatario e in ordine ai quali si potevano vantare posizioni di legittima aspettativa al loro mantenimento, bensì si è trattato di fare applicazione di una norma di sostenibilità di finanza pubblica riguardante, in generale, tutti i rapporti giuridici retribuiti o remunerati a vario titolo con risorse pubbliche (in tal senso, anche la sentenza n. 124/2017 della Corte costituzionale, secondo cui “ Nell'esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ben potrebbe, secondo un ragionevole contemperamento dei contrapposti interessi, modificare nel tempo il parametro prescelto, in modo da garantirne la perdurante adeguatezza alla luce del complessivo andamento della spesa pubblica e dell'economia. ”).

Infine, anche la Corte di giustizia, adita con rinvio pregiudiziale interpretativo sulla stessa questione da parte del medesimo TAR, in cause analoghe, con la succitata sentenza del 15 maggio 2019, ha dichiarato la questione addirittura irricevibile per l’insussistenza di un nesso di collegamento fra la lamentata lesione e il diritto europeo, in riferimento all'art. 6 della CEDU.

21. Ad avviso del Collegio, inoltre, non sussistono i presupposti per rimettere alla Corte una nuova verifica di costituzionalità in riferimento ai parametri degli artt. 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost., ritenendosi decisive ed esaustive le argomentazioni con cui la Corte ha già respinto le questioni sollevate dal TAR (sentenza n. 124/2017) e quelle con cui la medesima Corte ha successivamente respinto un contenzioso diverso, anche se sotto alcuni profili raffrontabile con quello per cui è causa (si tratta della sentenza n. 27/2022, riguardante il recupero, nel rispetto del limite massimo retributivo vigente, dei maggiori compensi percepiti da un magistrato amministrativo per le funzioni esercitate quale giudice tributario).

Più nel dettaglio, il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, condividendole pienamente, dalle argomentazioni della Corte, così sinteticamente compendiate:

i) la ratio legis della disciplina del limite massimo alle retribuzioni è quella di costituire il paradigma generale al quale ricondurre anche le previsioni in tema di cumulo tra pensioni e retribuzioni a carico delle finanze pubbliche;

ii) la disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico, sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente;

iii) il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un'adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.);

iv) la disciplina del cumulo tra pensioni e retribuzioni « interferisce con molteplici valori di rango costituzionale, come il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto a una prestazione previdenziale proporzionata all'effettivo stato di bisogno (art. 38, secondo comma, Cost.), la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro (art. 2 Cost.), in una prospettiva volta a garantirne un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano » (viene citata la sentenza n. 241 del 2016, punto 5. del Considerato in diritto);

v) nel settore pubblico, non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole;

vi) il fine prioritario della razionalizzazione della spesa deve tener conto delle risorse concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate;

vii) l'indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non confligge con i princìpi appena richiamati, siccome la disciplina, pur dettata dalla difficile congiuntura economica e finanziaria, trascende la finalità di conseguire risparmi immediati e si inquadra in una prospettiva di lungo periodo, volto a perseguire obiettivi di interesse generale, anche in considerazione del vincolo di destinazione impresso alle risorse derivanti dall'applicazione delle norme censurate, essendosi previsto che le stesse siano destinate annualmente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato (art. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1, comma 474, della legge n. 147 del 2013), appartenente a una contabilità speciale di tesoreria;

viii) la disciplina del limite alle retribuzioni pubbliche, come misura di contenimento della spesa, si inquadra in un disegno di riforma generale ed è assimilabile ad altri capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli àmbiti più disparati (decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante « Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica », convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122;
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, recante « Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria », convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 11;
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante « Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini », convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135;
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante « Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale », convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89;
decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, recante « Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari », convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114);

ix) la necessità del contenimento della spesa è stato avallato dalla Corte dei conti nella Relazione sul lavoro pubblico dell'anno 2012 e l'imposizione di un limite massimo alle retribuzioni non persegue la finalità di svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate, ma al contrario quella di porre rimedio alle differenziazioni, talvolta prive di una chiara ragion d'essere, fra i trattamenti retributivi delle figure di vertice dell'amministrazione;

x) la non irragionevolezza delle scelte del legislatore si combina con la valenza generale del limite retributivo, che si delinea come misura di razionalizzazione, suscettibile di imporsi a tutti gli apparati amministrativi: viene citata anche la sentenza n. 153 del 2015, con riguardo all'imposizione di tale limite alle autonomie territoriali, e la progressiva estensione della disciplina alle pubbliche amministrazioni diverse da quelle statali, quali le autorità amministrative indipendenti (art. 1, commi 471 e 475, della legge n. 147 del 2013), le società partecipate in via diretta o indiretta dalle amministrazioni pubbliche (art. 13, comma 2, lettera c, del d.l. n. 66 del 2014) e in materia di concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, la cui prestazione professionale non sia stabilita da tariffe regolamentate (art. 9, commi 1-ter e 1-quater della legge 26 ottobre 2016, n. 198);

xi) la portata generale della disciplina, che non si indirizza specificamente alla magistratura, quale « ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere » (art. 104 Cost.), e non mira a delinearne il rapporto con lo Stato nei termini di una mera dialettica contrattuale o a compromettere le garanzie di una retribuzione adeguata all'importanza della funzione svolta (sentenza n. 223 del 2012), fa perdere consistenza alle censure di violazione dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giurisdizionale, anche per quel che attiene agli aspetti retributivi (viene citata la sentenza n. 1 del 1978);

xii) il limite previsto dal legislatore non è inadeguato, in quanto si raccorda alle funzioni di una carica (quella di Primo Presidente della Corte di cassazione) di rilievo e prestigio indiscussi. Proprio in virtù di tali caratteristiche, esso non vìola il diritto al lavoro e non svilisce l'apporto professionale delle figure più qualificate, ma garantisce che il nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto sia salvaguardato anche con riguardo alle prestazioni più elevate;

xiii) la norma si armonizza con altre misure di contenimento dei trattamenti economici nel settore pubblico e si contraddistingue per la particolare latitudine. Essa si rivolge alla vasta categoria delle amministrazioni inserite nell'elenco ISTAT e menziona anche gli organi costituzionali, chiamati ad attuarla nel rispetto dei propri ordinamenti;

xiv) la norma censurata include tutte le pensioni erogate nell'àmbito di gestioni previdenziali obbligatorie, gli stessi vitalizi e tutte le voci del trattamento economico (stipendi, altre voci del trattamento fondamentale, indennità, voci accessorie, eventuali remunerazioni per consulenze, incarichi o collaborazioni a qualsiasi titolo conferiti a carico di uno o più organismi o amministrazioni enumerati nell'elenco ISTAT);

xv) il legislatore è chiamato a garantire una tutela sistemica e non frazionata dei valori costituzionali da bilanciare, anche con riguardo al cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche, ed è in questo orizzonte che si colloca anche il principio di proporzionalità tra la retribuzione e la quantità e la qualità del lavoro prestato;

xvi) in questo bilanciamento, occorre soppesare l’interesse pubblico ad approvvigionarsi di professionalità particolarmente qualificate, che già fruiscono di un trattamento pensionistico, con il carattere limitato delle risorse pubbliche: ciò per un verso giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva - e modellata su un parametro prevedibile e certo - delle risorse che l'amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni, ma per un altro verso non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico;

xvii) inquadrata in queste più ampie coordinate, e ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, la norma censurata attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto;
soprattutto, la previsione non è tale da sacrificare in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro del pensionato, libero di esplicarsi nelle forme più convenienti;

xviii) la disciplina censurata non compromette nemmeno l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, in virtù della portata generale che la contraddistingue, e non ingenera di per sé arbitrarie discriminazioni tra i consiglieri che compongono la Corte dei conti, anche perché nulla esclude che il legislatore, in un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, prefiguri soluzioni diverse e moduli in senso più duttile il cumulo tra pensioni e retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa, con una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo delle discipline restrittive;

xix) la previsione di un tetto retributivo non rappresenta un prelievo di natura tributaria, in quanto, per un verso, l’Autorità statale, legiferando, è intervenuta in veste di "datore di lavoro" dei dipendenti pubblici interessati dalla statuizione del "tetto" e non come "ente impositore";
per un altro verso, invece, la fissazione di una soglia retributiva non ha comportato una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico, né un'acquisizione di risorse al bilancio dello Stato e, pertanto, è priva degli elementi che connotano indefettibilmente la prestazione tributaria;

xx) la verifica di legittimità costituzionale delle norme in tema di trattamento economico dei dipendenti fa riferimento non alle singole componenti di quel trattamento, ma alla retribuzione nel suo complesso, avuto riguardo - in sede di giudizio di non conformità della retribuzione ai requisiti costituzionali di proporzionalità e sufficienza - al principio di onnicomprensività della retribuzione medesima;

xxi) il censurato temporaneo "blocco" della retribuzione risponde al principio di gradualità nell'attuazione dei diritti, di modo che è comunque compatibile con la Costituzione una normativa che cerchi di dare progressiva esecuzione alle disposizioni sui diritti, sulla base delle risorse in concreto disponibili;

xxii) il principio del buon andamento della pubblica amministrazione non può essere associato alle politiche di incrementi retributivi, i quali non sono legati da un vincolo funzionale all'efficiente organizzazione dell'amministrazione;
inoltre, non sussiste un rapporto diretto di causa ed effetto tra la previsione della limitazione retributiva e la dissuasione dall'espletamento di attività, la cui retribuzione comporterebbe il superamento del "tetto" massimo;
infine, quand'anche tale effetto dissuasivo si producesse, esso non è automaticamente di pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione, posto che l'efficienza della macchina amministrativa non è di per sé scalfita dal fatto che determinate funzioni siano esercitate da personale che non gode del livello retributivo massimo consentito, ma dispone comunque di adeguata competenza e professionalità.

22. Alla luce delle suddette considerazioni, inoltre, il Collegio ritiene che non siano fondate nemmeno le critiche con cui l’appellante sostiene che la sentenza impugnata non si sarebbe avveduta del fatto che Corte costituzionale non si sarebbe pronunciata su tutti i parametri, e in particolare sull’art. 38 Cost., sollecitando a tal fine una nuova rimessione.

Viceversa, il Collegio ritiene che la Corte abbia vagliato le questioni sotto tutti i parametri evocati e, in particolare, che siano state colte tutte le prospettazioni concernenti l’art. 38 Cost., in modo autonomo rispetto alla tutela derivante dall’art. 36 Cost.

Più nel dettaglio, le doglianze pertinenti alla mancata corresponsione dei contributi e degli accantonamenti ai fini del trattamento di fine servizio, nonché all’inclusione, nel calcolo ai fini del tetto massimo degli emolumenti percepibili, dell’indennità integrativa speciale e dell’indennità giudiziaria, hanno superato il vaglio di costituzionalità con motivazione piena ed esaustiva, avendo la Corte spiegato le ragioni per la quali la norma censurata include tutte le pensioni erogate nell'àmbito di gestioni previdenziali obbligatorie, gli stessi vitalizi e tutte le voci del trattamento economico (stipendi, altre voci del trattamento fondamentale, indennità, voci accessorie, eventuali remunerazioni per consulenze, incarichi o collaborazioni a qualsiasi titolo conferiti a carico di uno o più organismi o amministrazioni enumerati nell'elenco ISTAT).

Tali ragioni, in particolare, sono rappresentate dalla necessità di limitare la soglia massima dei trattamenti retributivi e pensionistici che fanno comunque carico a risorse pubbliche e da quella di interpretare le norme in tema di trattamento economico dei dipendenti in senso globale, ossia facendo riferimento non alle singole componenti di quel trattamento, ma alla retribuzione nel suo complesso, avuto riguardo al principio di onnicomprensività della retribuzione medesima.

In altre parole, contrariamente a quanto si è prospettato da parte dell’appellante, non si è verificata alcuna decurtazione dei contributi previdenziali e, quindi, del trattamento pensionistico derivante dall'accumulo del montante contributivo, dal momento che quest’ultimo, in quanto parametrato all’imponibile previdenziale, non può non tenere conto della retribuzione effettivamente percepita dal dipendente.

Trattasi di scelta discrezionale del legislatore che, come chiarito dalla Corte nella summenzionata sentenza n. 124 del 2017, comunque garantisce alla parte interessata il riconoscimento di attribuzioni patrimoniali complessive, da parte di Amministrazioni pubbliche, non inferiori alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, con ciò contemperando ragionevolmente i vari princìpi costituzionali rilevanti nella fattispecie.

Infine, non va sottaciuto che la normativa in questione non viola in alcun modo il principio generale di irretroattività dell’azione amministrativa, né quello del legittimo affidamento, in quanto, nella fattispecie concreta, a ben vedere, non viene in rilievo l’esercizio di un potere amministrativo discrezionale adottato nell’esercizio di una potestà pubblica, quanto un atto paritetico vincolato ad una norma di legge imposta alla Pubblica Amministrazione nella sua qualità di datore di lavoro.

23. In definitiva, alla luce delle suddette considerazioni, l’appello va respinto.

24. La complessità delle questioni giuridiche esaminate rappresenta un giustificato motivo per compensare integralmente fra le parti le spese del giudizio.

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