Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-10-02, n. 201805657

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-10-02, n. 201805657
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201805657
Data del deposito : 2 ottobre 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 02/10/2018

N. 05657/2018REG.PROV.COLL.

N. 09016/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9016 del 2014, proposto da signori P A, M M, R N, M B, D M, R M, I M, C M, G G, F V, N G, A M, M A, M R P, M B, S G, C R, D C, M S S, L M, F P, R T, S M, I R, M G, G R, S R, F L, R V, G Z, S M, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato G P M, presso il cui studio sono elettivamente domiciliati in Roma, corso d’Italia, n. 102;

contro

il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero dell'economia e delle finanze e la Presidenza del consiglio dei Ministri-Dipartimento per la pubblica amministrazione e la semplificazione, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore , rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domiciliano per legge in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. III, 6 maggio 2014 n. 4695, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista la costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate in sede di appello e i documenti prodotti;

Visti tutti gli atti della causa

Relatore nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2018 il Cons. Stefano Toschei e uditi l’avvocato Giovanni Pasquale Mosca e l’avvocato dello Stato Alberto Giua;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. – La vicenda fatta oggetto del presente contenzioso in grado di appello fa riferimento alla domanda proposta in sede giurisdizionale al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, dagli odierni appellanti, meglio indicati in epigrafe, tutti dipendenti con contratto a tempo indeterminato presso l’Istituto per la promozione industriale (d’ora in avanti, per brevità, IPI) al momento della soppressione di detto ente provocata dalla disposizione contenuta nell’art. 7, comma 20, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modifiche nella l. 30 luglio 2010, n. 122, volta a vedere annullato per illegittimità il D.M. 11 febbraio 2011 con il quale è stato previsto il loro inquadramento nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico (d’ora in poi, per brevità, MISE) nell’Area II, posizione economica F3, del vigente CCNL, comparto Ministeri 2006/2009, piuttosto che il loro (corretto) inquadramento nell’Area III, posizione economica F1 e respinta, con la sentenza qui gravata, dai giudici di primo grado.

2. – Riferiscono gli appellanti che, in epoca precedente rispetto all’entrata in vigore della norma che ha dato luogo alla soppressione dell’IPI, essi erano stati distaccati presso il MISE nei cui uffici hanno continuato a svolgere, senza soluzione di continuità, le precedenti mansioni e ciò anche successivamente alla soppressione dell’ente di provenienza.

Puntualizzano che l’IPI (ex IASM) era stato istituito dall’art. 17 d.l. 8 febbraio 1995, n. 32, convertito con modifiche nella l. 7 aprile 1995, n. 104, quale organo di consulenza ed assistenza tecnica del MISE per l'elaborazione e l'attuazione di politiche volte a sostenere e a sviluppare il sistema produttivo italiano. L’IPI era dunque un ente strumentale del MISE che, operando sotto la sua vigilanza ed attenendosi agli indirizzi di politica di sviluppo economico del Ministero, si occupava, in particolare, dell'analisi, della ideazione, dell’attuazione e della valutazione delle politiche e degli interventi per lo sviluppo, l'innovazione e la competitività del sistema produttivo nazionale. L’IPI era dunque l’ente di supporto tecnico del predetto Ministero al quale era affidato il compito di porre in essere tutte le iniziative e le attività necessarie per il pieno assolvimento dei compiti istituzionali e, in particolare, la prestazione di servizi di assistenza tecnica e di gestione di strumenti pubblici, anche finanziari, a favore del MISE e, previa autorizzazione del medesimo Ministero, anche di altri soggetti pubblici.

Al fine di garantire il conseguimento degli scopi istituzionali, come sopra tratteggiati, all’IPI era assegnata una dotazione organica costituita da personale in possesso di elevate competenze specialistiche nei diversi ambiti di intervento affidati all’Istituto (ad esempio: ingegnerizzazione dei nuovi strumenti di politica industriale, politiche ed interventi per lo sviluppo industriale e la competitività, innovazione e trasferimento tecnologico, cooperazione internazionale nei settori dell’industria e dell’energia, programmazione comunitaria e qualificazione della governance , incentivi pubblici e strumenti finanziari per le imprese, interventi per la concorrenza e la tutela dei consumatori, attività di studio e analisi, formazione e comunicazione).

Ricordano gli appellanti che il citato articolo 7 d.l. 78/2010, convertito nella l. 122/2010, nel prevedere la soppressione di alcuni enti, vi ha ricompreso l’IPI, i cui compiti ed attribuzioni in tutti i rapporti attivi e passivi sono stati, con la medesima disposizione normativa, trasferiti al MISE. A quest’ultimo era trasferito anche il personale dell’IPI con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il cui inquadramento sarebbe stato realizzato sulla base di una tabella di corrispondenza approvata con decreto interministeriale.

Lamentano gli appellanti (dipendenti inquadrati nel livello B del CCNL applicabile all’IPI al momento del passaggio al MISE) che tale decreto interministeriale, adottato in data 11 febbraio 2011 dai Ministeri oggi appellati, ha previsto il loro inquadramento nell’Area II, posizione economica F3 (del CCLN comparto Ministeri 2006/2009), ponendo in essere una illegittima corrispondenza, atteso che l’inquadramento corretto sarebbe stato in Area III, posizione economica F1.

Da qui la proposizione del ricorso giurisdizionale dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che, dopo una prima fase nel corso della quale si era pronunciato per il difetto di giurisdizione (con sentenza n. 5189/2011), poi superata dalla sentenza del Consiglio di Stato (con sentenza n. 5861/2011) che ha, invece, acclarato la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo a conoscere la controversia, lo ha definito in primo grado con la sentenza di rigetto qui appellata.

3. – Con tre complessi motivi di appello gli ex dipendenti dell’IPI, meglio indicati in epigrafe, sostengono la erroneità della sentenza del sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sez. III, 6 maggio 2014 n. 4695, per non avere colto la correttezza dei motivi di censura dedotti con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e con il quale si impugnava, chiedendone l’annullamento, il decreto interministeriale 11 febbraio 2011.

Con un primo motivo gli appellanti si soffermano su una evidente contraddittorietà nella quale sono incorsi i giudici del Tribunale amministrativo, nella parte della sentenza nella quale prima affermano (correttamente) che il trasferimento dei dipendenti dall’IPI al MISE avrebbe dovuto assicurare il mantenimento del trattamento economico goduto nell’Istituto di provenienza, da attuarsi, quanto al trattamento economico, attraverso il mero calcolo di quanto in atto percepito, per poi puntualizzare (non correttamente e contraddittoriamente) che l’inquadramento giuridico sarebbe stato attuabile solo attraverso una “ operazione di carattere squisitamente discrezionale di comparazione dei diversi profili di inquadramento, per individuare la corrispondenza tra le qualifiche possedute dal personale trasferito e quelle del personale già in servizio nel Ministero ricevente ” (così, testualmente, a pag. 4 dell’atto di appello, ove è in parte riprodotto quanto si legge nella motivazione della sentenza qui appellata).

Sostengono sul punto gli appellanti che, sebbene effettivamente l’art. 7, comma 20, d.l. 78/2010 non fornisca spunti significativi al fine di comprendere i parametri dell’operazione di comparazione che avrebbe dovuto effettuarsi nel passaggio dei dipendenti dall’IPI al MISE (infatti la norma così recita, per quanto è qui di interesse: “ Il personale a tempo indeterminato (...) è inquadrato sulla base di un ‘apposita tabella dì corrispondenza approvata con decreto (...) ”), la predisposizione della tabella di corrispondenza avrebbe dovuto tenere in attenzione la norma generale (in materia di pubblico impiego c.d. contrattualizzato) recata dall’art. l'art. 31 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 che disciplina il passaggio di dipendenti tra amministrazioni in caso di trasferimento di attività e competenze da una amministrazione all’altra. Il citato art. 31 dispone infatti che “ (…) nel caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende (...) al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applica (…) l'articolo 2112 del codice civile " di talché, nei confronti del personale dell’IPI, nel definire in sede interministeriale la tabella di corrispondenza, avrebbe dovuto farsi applicazione del principio recato dall’art. 2112 c.c., a mente del quale, " In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua (...) ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano " .

Quindi, ad avviso degli appellanti, l’affermazione del Tribunale amministrativo sopra richiamata è solo in parte corretta, giacché ciascun ex dipendente IPI aveva diritto di mantenere, all’esito dell’operazione di trasferimento al MISE, non solo la propria posizione economica goduta nell’Istituto di provenienza, bensì anche quella giuridica e di conseguenza la posizione collegata all'inquadramento nelle aree previste dai contratti collettivi vigenti nell'amministrazione di destinazione.

In altri termini, sulla scorta delle suindicate coordinate normative, la predisposizione del decreto interministeriale approvativo della tabella di corrispondenza soggiaceva al rispetto di taluni vincoli e non era lasciato, come invece ha erroneamente sostenuto il Tribunale amministrativo, alla discrezionalità dei dicasteri coinvolti (MISE, MEF e Dipartimento della funzione pubblica). Tali vincoli “(…) imponevano di garantire ad ogni lavoratore trasferito dall’IPI al Ministero che, nell'amministrazione di destinazione, fosse inquadrato nell'area che, per declaratoria di mansioni, responsabilità, professionalità, titolo di accesso, ecc., corrispondesse al (e rispecchiasse il) livello di provenienza ex IPI ” (così, testualmente, a pag. 6 dell’atto di appello), come d’altronde era avvenuto in alcuni precedenti ed analoghi episodi di trasferimento di dipendenti dello IASM (al quale si sostituì l’IPI).

La sentenza non solo erra nell’affermare che ai Ministeri, che avrebbero dovuto predisporre il decreto interministeriale, era stato attribuito un potere ampiamente discrezionale nell’inquadramento del personale ex IPI, ma anche nel sostenere che, proprio per la presenza di un elevato tratto di discrezionalità nell’effettuazione della corrispondenza giuridica, il potere di sindacato del giudice amministrativo si deve arrestare al giudizio di verifica sulla evidente irragionevolezza o sul macroscopico errore nei quali sarebbero incorse le amministrazioni nell’assumere la decisione condivisa, piuttosto che esercitare un potere giurisdizionale significativamente più penetrante teso a cogliere i rilevanti deficit istruttori ed il palese difetto di motivazione, accompagnato da un altrettanto evidente eccesso di potere, che caratterizzano l’operazione di inquadramento degli odierni appellanti.

Questi ultimi soggiungono, a tale proposito, che non è irrilevante considerare come grazie al

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