Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2012-11-24, n. 201205947
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N. 05947/2012REG.PROV.COLL.
N. 03984/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3984 del 2012, proposto da:
Provincia Italiana Congregazione Figli dell'Immacolata Concezione in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. F R, con domicilio eletto presso F R in Roma, via Lutezia n.8;
contro
Regione Lazio in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. R M P, domiciliata in Roma, via Marcantonio Colonna n. 27;
nei confronti di
Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n.12;Ministero della Salute, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Azienda Usl Roma E, Casa Generalizia dell'Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio;
per la revocazione
della sentenza del CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V n. 01962/2012
Visti il ricorso in revocazione e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Regione Lazio e di Presidenza del Consiglio dei Ministri;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 ottobre 2012 il Cons. Roberto Capuzzi e uditi per le parti gli avvocati Rosi, Privitera e dello Stato Soldano;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La Congregazione ricorrente impugna, con ricorso in revocazione, la sentenza della Quinta Sezione del Consiglio di Stato n.6085 del 2011 che ha rigettato il ricorso in appello dalla stessa proposto avverso la sentenza del T del Lazio, sezione di Roma, n.2796 del 2006.
Oggetto della impugnativa in primo grado era la delibera della Regione Lazio n.731 del 4 agosto 2005 concernente “Ripartizione nei livelli di assistenza del fondo sanitario regionale 2005. Finanziamento del livello assistenziale ospedaliero per l’anno e definizione del sistema di remunerazione delle prestazioni ospedaliere dei soggetti erogatori pubblici e privati per l’anno 2005. Finanziamento e definizione del sistema di remunerazione delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale e delle attività di assistenza riabilitativa territoriale”, nonché l’Intesa sancita il 23 marzo 2005 tra Governo, Regione e Province Autonome di Trento e Bolzano che impegnava le Regioni ad una riduzione dell’assistenza ospedaliera erogata, da realizzarsi entro il 2007.
La Congregazione si lamentava del fatto che la Regione, con la sopradetta delibera, non aveva quantificato il tetto di spesa riconoscendo tutta la produzione effettuata dalla struttura nell’anno 2005 pur essendo, l’ospedale ricorrente, classificato ai sensi della legge n.132 del 1968, come ospedale generale di zona e pur essendo il relativo personale equiparato a tutti gli effetti a quello degli ospedali pubblici;così operando la Regione non avrebbe considerato il costo del personale e la maggiorazione degli oneri derivanti dai rinnovi dei CCNL e la indennità di esclusività medica.
La ricorrente insisteva sul fatto che, diversamente dalle strutture private classificate, le Aziende Ospedaliere pubbliche avevano ricevuto una remunerazione corrispondente al completo ripiano del disavanzo maturato, senza alcuna forma di contenimento della spesa.
Il T dichiarava in parte inammissibile ed in parte respingeva nel merito il ricorso, non mancando tra l’altro di sottolineare (ai punto 5 e 6 della sentenza) alcune perplessità in ordine allo stesso petitum dell’azione intrapresa non risultando chiaro se la Congregazione denunziava il trattamento remunerativo asseritamente deteriore riservato dalla delibera agli ospedali classificati ovvero la mancata previsione di un distinto sistema tariffario che consentisse agli ospedali appartenenti agli enti ecclesiastici di recuperare i costi di produzione sopportati nel passato come condizione per ottenere l’equiparazione alle strutture pubbliche.
In ogni caso la sentenza del T concludeva sottolineando che la delibera n.731 del 2005 per quanto atteneva alla determinazione del budget da assegnare alle strutture ospedaliere prevedeva criteri di carattere generale da applicare in maniera identica ad ogni singolo soggetto erogatore pubblico e privato e cioè il rispetto del tasso di ospedalizzazione programmato, l’appropriatezza organizzativa delle prestazioni e il miglioramento del livello di complessità assistenziale delle prestazioni e quindi in sostanza non si perpetrava alcuna disparità di trattamento.
La sentenza del Consiglio di Stato, dopo avere qualificato il tipo di azione intrapresa dalla Congregazione come diretta alla definizione del budget assegnato, rilevava che le specifiche doglianze riferite a particolarità operative della medesima struttura, pur avendo la loro autonomia, assumevano rilevanza sempre in relazione alla suddetta fissazione del budget, come elementi costitutivi della medesima struttura.
Nel merito la sentenza revocanda sottolineava, confermando in tal modo le conclusioni del primo giudice, che non vi era stata, da parte della delibera regionale, alcuna differenzazione tra strutture pubbliche e private mentre il ripianamento dei disavanzi delle sole strutture pubbliche si giustificava per il fatto che le medesime, tenute a rendere comunque il servizio, dovevano essere per quanto possibile messe in condizione di operare, il che giustificava che le perdite di esercizio fossero accollate al soggetto che ne aveva la proprietà.
Nel ricorso in revocazione la Congregazione critica sotto molteplici profili la sopradetta sentenza del Consiglio di Stato, in particolare dolendosi del fatto che il giudice di appello aveva espressamente assorbito specifiche doglianze riferite a particolarità operative della medesima struttura (classe A chirurgica, esclusività medica, pazienti residenti in altre regioni) ritenendole ricomprese nell’ambito della fissazione del budget come elementi costituivi dello stesso;tali doglianze, a detta della Congregazione ricorrente, avrebbero dovuto essere affrontate in modo autonomo e non considerate assorbite alla presunta ripartizione del budget.
La Congregazione si duole altresì dell’esclusivo riferimento effettuato in sentenza alla legge n.833 del 1978, individuata come norma riformatrice del sistema senza che il giudice di appello avesse fatto alcuna menzione né ai contenuti del d.lgs. n.502 del 1992 e ss.mm., né alla legge n.724/1994 e al D.M. 30 giugno 1997, né all’art. 7 della legge n.241 del 1990;la mancata conoscenza della normativa di riferimento in materia sanitaria avrebbe portato alla erronea affermazione della sentenza revocanda che le strutture non pubbliche ma classificate sono “… complementari..” al servizio sanitario nazionale e alla affermazione che “ .. le strutture pubbliche, tenute comunque a rendere il servizio, debbono essere per quanto possibile messe in condizioni di operare”. La sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto, diversamente da quanto statuito dalla normativa e ritenuto dalla giurisprudenza formatasi in materia che sarebbe stata del tutto pretermessa, del fatto che l’ospedale ricorrente, in quanto classificato, al pari delle strutture pubbliche, è tenuto comunque a rendere il servizio in quanto ospedale generale di zona ed anche sotto tale profilo la sentenza ed ancor prima la sentenza di primo grado e la delibera regionale non avrebbero in alcun modo giustificato la mancata remunerazione delle prestazioni effettivamente erogate.
La ricorrente insiste particolarmente nel già sopra evidenziato errore in cui sarebbe incorsa la sentenza revocanda là dove ha ritenuto che : “Relativamente a tutte le altre censure particolari avanzate dall’appellante e non prese specificamente in considerazione dal primo giudice, va ribadito quanto considerato anche in precedenza, e cioè che tutte le diverse censure proposte dall’appellante (e nel ricorso di primo grado) non possono che riferirsi al “petitum” del ricorso, che è solo quello dell’errata ripartizione del “budget” fra le diverse articolazioni sanitarie -pubbliche e private- per cui le stesse vanno ricondotte alla corretta ripartizione dello stesso “budget” come sopra specificata e alla sufficienza della istruttoria posta in essere dalla Regione nella suddetta determinazione, incentrata sulle classi di operatività delle strutture sanitarie, sia pubbliche che private, anche classificate”.
L’errore sarebbe duplice, sia in relazione alla mancato esame di numerosi motivi avanzati in primo grado e non esaminati dal T e riproposti in appello ma semplicemente assorbiti dalla sentenza, sia in relazione alla carenza di istruttoria in ordine alla determinazione del budget di spesa in relazione al quale era stata emanata una ordinanza istruttoria nel gennaio 2011 dallo stesso Consiglio di Stato non adempiuta dalla Regione Lazio.
Si è costituita la Regione Lazio chiedendo una pronunzia di inammissibilità della azione revocatoria intrapresa sostenendo che tutte le questioni sollevate in appello dalla Congregazione erano state affrontate nella sentenza di appello per cui il ricorso in revocazione, nella sostanza, sarebbe finalizzato a provocare un inammissibile terzo grado di giudizio.
La Congregazione ricorrente ha quindi depositato una ulteriore memoria difensiva, sintetizzando ulteriormente gli errori revocatori commessi dal giudice di appello.
Anche la Regione ha depositato una ulteriore memoria difensiva insistendo per una pronunzia di inammissibilità del ricorso.
Alla pubblica udienza del 26 ottobre 2012, dopo la discussione orale da parte della Congregazione ricorrente, la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
2. Il Collegio richiama preventivamente il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui l' errore di fatto che può dar luogo all’eccezionale istituto della revocazione, ora disciplinato dall’art. 106 cod. proc. amm., si sostanzia in una falsa percezione, da parte del giudice di appello, della realtà risultante dagli atti di causa, consistente in una svista materiale, il c.d. abbaglio dei sensi, che lo abbia indotto ad affermare l'esistenza di un fatto incontestabilmente inesistente oppure a considerare inesistente un fatto la cui verità risulti, al contrario, positivamente accertata.
In entrambi i casi, ciò vale solo se il fatto erroneo sia stato un elemento decisivo della pronuncia revocanda e sempre che non attenga ad un punto controverso sul quale la sentenza abbia pronunciato, perché in tale caso sussiste un errore di diritto;inoltre l' errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di elaborate argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche;pertanto non può consistere in un preteso, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze e documenti processuali, ovvero in un'anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, vertendosi, in questo caso, in una ipotesi di errore di giudizio attinente all'attività valutativa del giudice, che come tale esula dall'ambito della revocazione, pena la trasformazione dello strumento revocatorio in un inammissibile terzo grado di giudizio (ex plurimis Cons. Stato, V, 26 marzo 2012, n. 1725).
In sintesi, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che per aversi errore di fatto revocatorio devono sussistere, contestualmente, tre distinti requisiti: a) attinenza dell'errore ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;b) pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale di atti ritualmente prodotti nel giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso o inesistente un fatto documentalmente provato;c) valenza decisiva dell'errore sulla decisione essendo necessario che vi sia un rapporto di causalità tra l' erronea supposizione e la pronuncia stessa (ex multis, Cons. di Stato, sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503).
Devono, invece, ritenersi vizi logici e dunque errori di diritto quelli consistenti nell' erronea interpretazione e valutazione dei fatti e, in più in generale, delle risultanze processuali (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599;id., sez. VI, 5 settembre 2011, n. 4987).
3. Calando tali principi al caso di specie risulta evidente che il ricorso in revocazione proposto dalla Congregazione ricorrente è inammissibile.
Occorre infatti considerare che le questioni sollevate nel ricorso ed i motivi di appello avverso la sentenza del T del Lazio, segnatamente con riferimento alla ripartizione dei fondi e ai disavanzi del settore pubblico e privato, alla natura e prerogative degli enti ecclesiastici privati, alla carenza di istruttoria, all’assorbimento di ulteriori motivi, sono stati esaminati dal giudice di appello che, ponendosi in una prospettiva diversa, se non antitetica a quella nella quale si muoveva la ricorrente, come è nelle facoltà del secondo giudice quando è chiamato a decidere in sede di impugnazione su una decisione del T, ha ritenuto che non si era determinata alcuna discriminazione a danno delle strutture private in quanto l’assegnazione del budget di spesa era stato effettuato dalla delibera di Giunta regionale n.731 del 2005 sulla base di criteri di carattere generale ed oggettivo, cioè sulla base di classi di operatività, con assoluta equiparazione, sotto tali profili, delle strutture pubbliche e private, con la regressione delle tariffe al raggiungimento di un determinato importo, ivi comprendendo tutti gli elementi che caratterizzavano la attività della struttura stessa.
La doglianza sulla quale nei due gradi di giudizio si incentravano massimamente le critiche della Congregazione religiosa alla delibera di Giunta impugnata era quella che si sarebbe finito per utilizzare una larga parte della spesa corrente, finanziata dallo Stato nel 2005 come LEA, per pagare la sovraproduzione oltre il tetto, di tutte le strutture sanitarie pubbliche, nonché per finanziare gli enormi disavanzi pubblici prodotti senza alcuna forma di controllo.
Proprio rispondendo a tale doglianza, la sentenza revocanda ha posto una serie di principi di carattere generale che hanno condotto a conclusioni diverse rispetto quelle sostenute dalla appellante, basati sul presupposto che le strutture portanti del servizio sanitario nazionale sono rappresentate dagli ospedali pubblici in quanto solo a carico di questi ultimi esiste un incondizionato obbligo di prestare assistenza ospedaliera a favore di chiunque necessiti di cure urgenti, indipendentemente dal fatto che disponga o meno di forme di assicurazione sanitaria.
Da qui la necessità che le strutture pubbliche, “..tenute comunque a rendere il servizio..”, debbano essere messe in condizione di operare con conseguente logica necessità di un intervento pubblico nel ripianamento dei disavanzi.
E’ evidente che pur senza effettuarne espressa menzione, la sentenza di appello ha tenuto conto ed interpretato implicitamente la complessità della normativa applicabile alla fattispecie ed in specie la legge n.132/68, per la quale la partecipazione degli enti ecclesiastici classificati al circuito del servizio sanitario pubblico costituisce una eventualità legata alla stipula di specifiche convenzioni con gli enti ospedalieri in mancanza delle quali essi possono operare solo come enti privati con costo a carico degli assistiti o degli enti mutualistici e assicurativi ai quali fossero stati iscritti. Ed ancora ha tenuto conto, anche qui senza esplicita menzione, dell’articolo 8 co.5 del d.l.vo n.502/92, che ha stabilito che il servizio sanitario è assicurato da strutture pubbliche, venendo in considerazione quelle private solo al fine di “integrare”, le attività prestate dalle strutture pubbliche e dell’art. 5 del ripetuto decreto legislativo n. 502/92 a mente del quale, se le strutture pubbliche sono in disavanzo, gli enti che hanno la gestione e la proprietà dei presidi ospedalieri sono tenuti a coprire il disavanzo in base ai principi generali della responsabilità patrimoniale del debitore.
Quale che sia la condivisibilità o meno di tali conclusioni del giudice di appello, resta il fatto che si trattava di punti assolutamente controversi in ordine ai quali la sentenza si è esplicitamente pronunziata mentre il mancato riferimento normativo non assume alcun rilievo sul piano revocatorio.
Risulta quindi evidente che ciò che la ricorrente lamenta non è la mancata o erronea percezione degli atti di causa da parte del giudice di appello, il c.d. abbaglio dei sensi, quanto dall’angolazione interpretativa in cui si è mosso il giudice nella complessità della normativa di riferimento.
Tant’è che la ricorrente, al fine di dimostrare l’errore revocatorio, è costretta a ripercorrere, in maniera, invero defatigante, l’iter argomentativo sostenuto nel gravame, soffermandosi a lungo sulla normativa, sulla sua interpretazione e sulla giurisprudenza sulla medesima formatasi.
Sennonché, così facendo, la ricorrente si pone in evidente contrasto con gli approdi già sopra evidenziati in materia di revocazione, per i quali l' errore revocatorio deve apparire con immediatezza ed essere di semplice ed immediata rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o complesse indagini ermeneutiche e soprattutto non può cadere su questioni che sono state oggetto di valutazione del giudice, mentre l'errore che cade sull'apprezzamento delle risultanze processuali o sulla interpretazione delle norme, per essere errore di giudizio, non costituisce motivo di revocazione.
Si aggiunga poi che nell’ottica in cui si era posta la sentenza, non assumeva alcun rilievo la mancata acquisizione di documenti in un primo momento richiesti dal Consiglio di Stato con la ordinanza istruttoria del 2011.
E’ evidente che la sentenza infatti aveva ritenuto implicitamente irrilevanti o privi di un valore determinante tali documenti atteso che qualificava il ricorso come “errata ripartizione del budget” (così la parte finale della sentenza);con l’effetto che le ulteriori censure non esaminate in primo grado e quelle che nel contempo venivano assorbite, ivi comprese quelle di carattere procedimentale (violazione dell’art. 7 della legge 241 del 1990), andavano comunque ricondotte alla corretta ripartizione dello stesso budget nei termini specificati in sentenza connotati da assoluto automatismo e che poteva conseguentemente ritenersi sufficiente la istruttoria posta in essere dalla Regione incentrata sulle classi di operatività delle strutture sanitarie pubbliche o private. In sostanza la mancata acquisizione e valutazione dei documenti in un primo tempo richiesti era una semplice conseguenza della loro irrilevanza.
4. In conclusione, le argomentazioni contenute nel ricorso, avuto riguardo agli indirizzi consolidati della giurisprudenza di questo Consiglio in materia, costituiscono presunti vizi logici della decisione, in quanto tali incompatibili con le connotazioni processuali del giudizio di revocazione.
Il ricorso pertanto deve essere dichiarato inammissibile.
5. La ricorrente è condannata, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese processuali che si liquidano in euro 5.000, 00 (cinquemila,00) da corrispondere alla Regione Lazio.