Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-12-23, n. 202211277

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2022-12-23, n. 202211277
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202211277
Data del deposito : 23 dicembre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 23/12/2022

N. 11277/2022REG.PROV.COLL.

N. 03512/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3512 del 2022, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato A P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ufficio Territoriale del Governo Potenza, Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ufficio Territoriale del Governo Potenza e di Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

L’odierno appellante, cittadino nigeriano titolare di un permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale, è destinatario delle misure di accoglienza previste dal d.lgs. n. 142/2015 riservate ai richiedenti asilo privi di mezzi sufficienti a garantire il proprio sostentamento.

Con relazione del 4 marzo 2020 la Questura di Potenza ha comunicato alla Prefettura della Provincia di Potenza che il cittadino straniero, già tratto in arresto per il reato di produzione e traffico di sostanze stupefacenti, in data 26 febbraio 2020 è stato arrestato dalla Guardia di Finanza, in flagranza di reato, per la detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e tradotto nella casa circondariale di quel capoluogo di provincia. A seguito della udienza di convalida dell’arresto, il Tribunale ha disposto la scarcerazione senza l’applicazione di alcuna misura cautelare.

A seguito della segnalazione, la Prefettura di Potenza ha avviato nei confronti dell’appellante il procedimento di revoca delle misure di accoglienza, senza tuttavia comunicare l’avvio del procedimento, in considerazione del fatto che, a fronte della gravità dei fatti contestati, il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso. In data 5 marzo 2020, l’Autorità prefettizia ha concluso il procedimento con l’adozione del decreto indicato in epigrafe, con cui sono state revocate le misure di accoglienza disposte in favore dell’interessato.

Contro il provvedimento in esame è insorto il cittadino straniero, che ha formulato innanzi al Tar Basilicata, a supporto del gravame, le doglianze di violazione di legge ed eccesso di potere, sotto il profilo del difetto di motivazione. Il ricorrente ha, in primo luogo, lamentato la violazione delle garanzie partecipative di cui all’art. 7 della l.n. 241/1990 e, in secondo luogo, dedotto la violazione dell’art. 23, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 142/2015, in quanto le condotte evocate a fondamento della revoca non sarebbero riconducibili nel novero dei comportamenti violativi delle regole di accoglienza o, comunque, dei reati gravemente violenti menzionati dalla citata disposizione e neppure sarebbero state definitivamente accertate in sede penale.

L’adito Tribunale ha rigettato il ricorso, ritenendo immune dai prospettati vizi il provvedimento impugnato. In particolare, il Giudice di prime cure ha escluso il carattere invalidante dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento, ritenendo che l’apporto dell’interessato non avrebbe potuto ragionevolmente orientare l’Amministrazione verso un diverso esito;
il Tar ha altresì considerato lo spaccio di sostanza stupefacente, a maggior ragione se reiterato, evenienza incompatibile con la permanenza dello straniero all’interno della struttura ricettizia e causa di revoca delle misure di accoglienza.

Il cittadino straniero ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado e ne ha chiesto la riforma, riproponendo le censure non accolte in primo grado, in chiave critica nei confronti della gravata sentenza.

A fronte dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato presentata dal cittadino straniero, la competente Commissione presso il Consiglio di Stato ha considerato che, alla stregua della certificazione esibita, ricorressero le condizioni di reddito cui l’ammissione al beneficio è subordinata. Ha, infine, rigettato, in via anticipata e provvisoria, l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio, sulla base di una sommaria valutazione delle circostanze di fatto e di diritto riferite, dalle quali ha evinto la manifesta infondatezza delle prospettazioni attoree.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura della Provincia di Potenza, senza articolare difese.

Alla pubblica udienza del 10 novembre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

L’appello è fondato.

Giova premettere in punto di diritto che, con ordinanza n. 8540 del 30 dicembre 2020, la Terza sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Ue la questione pregiudiziale di legittimità europea dell’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015, posto a fondamento del decreto avversato in prime cure.

Il rinvio pregiudiziale, che attiene essenzialmente alla compatibilità europea della scelta del Legislatore nazionale di sanzionare le condotte previste dalla disposizione cui si è fatto cenno con la revoca delle condizioni materiali di accoglienza, consente al Collegio di prescindere dall’esame delle censure articolate dalla parte appellante, in quanto di per sé idoneo – come si vedrà – a far venire meno la base legale del provvedimento impugnato in prime cure.

Il principale parametro di giudizio della compatibilità euro-unitaria della disciplina interna di cui all’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015, applicato dalla Prefettura di Potenza nel caso di specie, è costituito dall’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, intitolato «riduzione o revoca delle condizioni materiali di accoglienza», che dispone testualmente:

«1. Gli Stati membri possono ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora il richiedente:

a) lasci il luogo di residenza determinato dall’autorità competente senza informare tali autorità, oppure, ove richiesto, senza permesso;
o

b) contravvenga all’obbligo di presentarsi alle autorità o alla richiesta di fornire informazioni o di comparire per un colloquio personale concernente la procedura d’asilo durante un periodo di tempo ragionevole stabilito dal diritto nazionale;
o

c) abbia presentato una domanda reiterata quale definita all’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32/UE.

In relazione ai casi di cui alle lettere a) e b), se il richiedente viene rintracciato o si presenta volontariamente all’autorità competente, viene adottata una decisione debitamente motivata, basata sulle ragioni della scomparsa, nel ripristino della concessione di tutte le condizioni materiali di accoglienza revocate o ridotte o di una parte di esse.

2. Gli Stati membri possono inoltre ridurre le condizioni materiali di accoglienza quando possono accertare che il richiedente, senza un giustificato motivo, non ha presentato la domanda di protezione internazionale non appena ciò era ragionevolmente fattibile dopo il suo arrivo in tale Stato membro.

3. Gli Stati membri possono ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora un richiedente abbia occultato risorse finanziarie, beneficiando in tal modo indebitamente delle condizioni materiali di accoglienza.

4. Gli Stati membri possono prevedere sanzioni applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ai comportamenti gravemente violenti.

5. Le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti.

6. Gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza non siano revocate o ridotte prima che sia adottata una decisione ai sensi del paragrafo 5».

Tale disposizione si inserisce nel più ampio contesto delle norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, al fine di assicurare l’osservanza dei principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché il pieno rispetto della dignità umana.

A livello pratico, i principi richiamati dalla direttiva europea 2013/33/Ue si traducono nell’impegno, da parte degli Stati ospiti, a consentire condizioni materiali di accoglienza alle persone vulnerabili, assicurando al contempo una qualità di vita adeguata alla loro specifica situazione, che ne garantisca il sostentamento e ne tuteli la salute fisica e mentale.

A tal proposito, l’art. 17 della medesima direttiva, intitolato «Disposizioni generali relative alle condizioni materiali di accoglienza e all’assistenza sanitaria», così dispone:

«1. Gli Stati membri provvedono a che i richiedenti abbiano accesso alle condizioni materiali d’accoglienza nel momento in cui manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale.

2. Gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza assicurino un’adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale.

Gli Stati membri provvedono a che la qualità di vita sia adeguata alla specifica situazione delle persone vulnerabili, ai sensi dell’articolo 21, nonché alla situazione delle persone che si trovano in stato di trattenimento.

3. Gli Stati membri possono subordinare la concessione di tutte le condizioni materiali d’accoglienza e dell’assistenza sanitaria, o di parte delle stesse, alla condizione che i richiedenti non dispongano di mezzi sufficienti a garantire loro una qualità della vita adeguata per la loro salute, nonché ad assicurare il loro sostentamento.

4. Gli Stati membri possono obbligare i richiedenti a sostenere o a contribuire a sostenere i costi delle condizioni materiali di accoglienza e dell’assistenza sanitaria previsti nella presente direttiva, ai sensi del paragrafo 3, qualora i richiedenti dispongano di sufficienti risorse, ad esempio qualora siano stati occupati per un ragionevole lasso di tempo. Qualora emerga che un richiedente disponeva di mezzi sufficienti ad assicurarsi le condizioni materiali di accoglienza e l’assistenza sanitaria all’epoca in cui tali esigenze essenziali sono state soddisfatte, gli Stati membri possono chiedere al richiedente un rimborso.

5. Qualora gli Stati membri forniscano le condizioni materiali di accoglienza in forma di sussidi economici o buoni, l’ammontare dei medesimi è fissato sulla base del livello o dei livelli stabiliti dallo Stato membro interessato, secondo la legge o la prassi, in modo da garantire una qualità di vita adeguata ai propri cittadini. Gli Stati membri possono accordare ai richiedenti un trattamento meno favorevole di quello che accordano ai loro cittadini, in particolare nei casi in cui un sostegno materiale è parzialmente fornito in natura o quando il livello o i livelli, applicati ai cittadini, sono intesi ad assicurare un tenore di vita più elevato di quello prescritto per i richiedenti ai sensi della presente direttiva».

Il legislatore italiano, con il d.lgs. n. 142 del 2015, ha dato attuazione alla citata direttiva, disciplinando le condizioni dell’accoglienza per i richiedenti protezione internazionale.

In particolare, l’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, della cui compatibilità europea si discute, prevede quanto segue:

«1. Il prefetto della provincia in cui hanno sede le strutture [di prima accoglienza] dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure di accoglienza in caso di:

[…]

e) violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti.

2. Nell’adozione del provvedimento di revoca si tiene conto della situazione del richiedente con particolare riferimento alle condizioni [riguardanti l’accoglienza delle persone portatrici di esigenze particolari] […]».

Merita osservare che la revoca delle misure di accoglienza, privando il richiedente protezione internazionale della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari – quali nutrirsi, vestirsi, lavarsi e disporre di un alloggio – è un provvedimento a carattere altamente afflittivo, rispetto al quale assume un valore particolarmente pregnante il principio di proporzionalità.

È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità – compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. – si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.

Ebbene, la Corte di Giustizia, nella citata sentenza e per i fini che qui interessano, ha rilevato che:

- Per quanto riguarda la questione se l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33 osti all’irrogazione, a un richiedente protezione internazionale che abbia posto in essere un comportamento gravemente violento nei confronti di pubblici funzionari, di una sanzione consistente nel revocare le condizioni materiali di accoglienza, si deve constatare che l’imposizione di una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, il beneficio di tutte le condizioni materiali di accoglienza o delle condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario è incompatibile con l’obbligo, derivante dal citato articolo 20, paragrafo 5, della menzionata direttiva, di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso, giacché tale sanzione lo priverebbe della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari, quali nutrirsi, vestirsi, lavarsi e disporre di un alloggio.

- Una sanzione del genere equivale altresì a violare il requisito di proporzionalità stabilito dall’art. 20, paragrafo 5, seconda frase, della direttiva 2013/33, in quanto anche le sanzioni più severe intese a contrastare, in ambito penale, le violazioni o i comportamenti di cui all’art. 20, paragrafo 4, di tale direttiva non possono privare il richiedente della possibilità di provvedere ai suoi bisogni più elementari.

- Alla luce di tali considerazioni, neppure rileva la circostanza secondo cui il comportamento da sanzionare può presentare un carattere particolarmente grave e riprovevole.

- Resta in ogni caso ferma la possibilità degli Stati membri di irrogare altre sanzioni, in ossequio all’art. 20, paragrafo 4, che devono in ogni caso e a prescindere dalla gravità della condotta posta in essere dallo straniero rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 del medesimo articolo, per quel che concerne in particolare il rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana.

- Tali principi si applicano, infine, a qualsiasi richiedente protezione internazionale e non ai soli richiedenti che sono persone vulnerabili ai sensi dell’art. 21 della direttiva 2013/33.

La Corte di Giustizia, con la citata pronuncia, ha dunque rafforzato la tutela dello standard minimo di vita, che era già stato affermato nella sentenza della Corte di Giustizia – Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C-233/2018) – estendendolo a qualsiasi richiedente protezione internazionale, a prescindere cioè dall’appartenenza alle categorie delle persone vulnerabili ai sensi dell’art. 21 della direttiva 2013/33/Ue.

Dai principi di diritto affermati dai Giudici di Lussemburgo deriva che la revoca delle misure di accoglienza, laddove non consente di graduare la risposta sanzionatoria alla gravità del fatto commesso, non soltanto risulta – a conti fatti – eccessivamente gravosa rispetto alla convenienza del risultato ottenibile, ma altresì rivela la sua non necessarietà, vale a dire la sua sostituibilità con altro mezzo meno gravoso per la realizzazione altrettanto efficace dell’interesse pubblico.

La norma, prevedendo che in caso di comportamenti gravemente violenti del cittadino extracomunitario l’unica sanzione da applicare consista nella revoca, peraltro definitiva, delle misure di accoglienza originariamente riconosciute in favore dello straniero, si pone pertanto in netto contrasto con l’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della menzionata direttiva, come interpretato dalla Corte di Giustizia. Infatti, la sanzione prevista dal Legislatore italiano e attuata dall’Amministrazione, da un lato, non lascia spazio ad alcuna graduazione, contravvenendo perciò al principio di proporzionalità, e, dall’altro, non consente di predisporre una tutela delle esigenze elementari dello straniero attinto dalla misura sanzionatoria, contrastando così con la necessaria tutela della dignità umana.

Sul punto, la Corte di Giustizia, nella citata sentenza della Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C-233/2018), ha del resto sottolineato la possibilità degli Stati membri di imporre, a seconda delle circostanze del caso e fatto salvo il rispetto dei requisiti di cui all’art. 20, paragrafo 5, della direttiva 2013/33/Ue, sanzioni che non hanno l’effetto di privare il richiedente delle condizioni materiali di accoglienza, come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, unitamente al divieto di contatto con taluni residenti del centro o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio.

Ai fini della decisione del caso in esame, si deve ricordare che per costante giurisprudenza le pronunce della Corte di Giustizia dell’Ue hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive, vincolando sia le Amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse confliggenti (v. Corte Cost. sentenze n. 113 del 1985 e 389 del 1989;
ordinanze n. 274 del 1986 e 132 del 1990).

Da ciò discende che la regula che disciplina il caso in esame deve rinvenirsi non solo nella normativa di cui alla direttiva 2013/33/Ue e al d.lgs. n. 142/2015, ma anche nella sentenza della Corte di Giustizia del 1° agosto 2022 (resa nella causa C-422/2021).

Applicando le sopra riportate coordinate ermeneutiche alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, deve essere disapplicata nel caso concreto la disposizione di cui alla lettera e) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, siccome contraria al diritto dell’Unione europea, e affermarsi dunque l’illegittimità del provvedimento di revoca delle misure di accoglienza gravato in primo grado, in quanto avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari, in primis il diritto all’alloggio e tutti i diritti che da esso derivano.

Il Collegio è consapevole che la declaratoria di illegittimità europea e la conseguente disapplicazione della normativa nazionale in contrasto con il diritto euro-unitario creano un vuoto normativo, in quanto l’ordinamento non prevede alcuna sanzione alternativa alla revoca a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale che si siano resi responsabili di comportamenti gravemente violenti. Né, allo stato, risulta alcun intervento del Legislatore atto a colmare il vuoto normativo venutosi a creare già per effetto della richiamata sentenza Corte di Giustizia dell’Ue – Grande Sezione del 12 novembre 2019 (resa nella causa C-233/2018).

Rimane tuttavia riservato al Legislatore, nel rispetto del principio costituzionale della separazione dei poteri, il compito di apprestare una disciplina che adegui il regime delle sanzioni sia alle esigenze di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, sia al particolare status dei richiedenti protezione internazionale, intervento divenuto ormai indifferibile, non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto europeo come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Ue.

In conclusione, l’appello deve essere accolto.

Le spese di giudizio, in ragione del complessivo andamento della vicenda processuale e dei profili di novità della questione che hanno reso necessario l’intervento della Corte di Giustizia, possono essere compensate tra le parti.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi