Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2012-05-30, n. 201203245

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2012-05-30, n. 201203245
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201203245
Data del deposito : 30 maggio 2012
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00418/2001 REG.RIC.

N. 03245/2012REG.PROV.COLL.

N. 00418/2001 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 418 del 2001, proposto da:
Casa di Cura Santa Chiara S.p.A., rappresentata e difesa dall'avv. A R, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;

contro

Regione Toscana, in persona del Presidente pro tempore , rappresentata e difesa dagli avv.ti V V, F L ed E B, con domicilio eletto presso F L in Roma, via del Viminale, 43;
Azienda Sanitaria Locale di Firenze;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. TOSCANA, sezione I n. 317/2000, resa tra le parti, concernente il risarcimento dei danni per la ritardata erogazione di prestazioni specialistiche in regime di accreditamento


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 maggio 2012 il Cons. Hadrian Simonetti, presente per la parte appellata l’Avvocato Meloni su delega di Lorenzoni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La Casa di cura S.Chiara, già autorizzata dal 27.9.1996 ad aprire al pubblico i servizi per l’erogazione delle prestazioni specialistiche di tomografia assiale computerizzata (TAC) e di risonanza magnetica (RMN), ottenne l’accreditamento per gli stessi servizi solamente il 14.9.1997, dopo che inizialmente l’accreditamento le era stato negato, con provvedimento del 22.10.1996 prima sospeso e poi annullato dal Tar Toscana con sentenza n. 346 del 1998.

2. La Casa di cura S. Chiara chiese quindi, allo stesso Tar, il risarcimento dei danni conseguenti all’iniziale diniego di accreditamento, danni che sarebbero originati dalla mancata attività svolta nel periodo compreso tra il settembre del 1996 ed il luglio del 1997, per un ammontare complessivo pari a cinque miliardi di vecchie lire.

3. Costituitasi la Regione Toscana, il Tar accolse solamente in parte la domanda risarcitoria, liquidando alla Casa di Cura la somma di 187.935.329 di vecchie lire, maggiorata di interessi e rivalutazione.

Il danno fu liquidato in via equitativa, senza disporre consulenza tecnica d’ufficio, assumendo come parametro i conteggi effettuati dalla Regione Toscana circa le prestazioni che la Casa di cura avrebbe potuto erogare nel periodo di forzata inattività, sul rilievo che detti conteggi non fossero stati contestati dalla ricorrente e che gli stessi fossero “esaurienti e ragionevoli”.

4. Con il presente appello la Casa di cura ha impugnato la sentenza sostenendo che, nel liquidare il danno, il Tar non avrebbe tenuto conto del costo dei finanziamenti contratti per l’acquisto dei macchinari, nonché del fatto che la Casa di cura fosse già avviata e che, quindi, nei nove mesi di inattività avrebbe potuto conseguire ricavi maggiori di quelli presuntivamente calcolati dalla Regione. Insiste, inoltre, sulla necessità di disporre una CTU.

Si è costituita la Regione, con articolata memoria difensiva nella quale ha osservato, tra l’altro, che i conteggi effettuati non furono oggetto di contestazione specifica in primo grado e che la richiesta di CTU sarebbe meramente esplorativa.

All’udienza pubblica del 4.5.2012, in vista della quale le parti hanno depositato ulteriori memorie, anche di replica, la causa è passata in decisione.

5. L’appello è infondato e va respinto, per le seguenti ragioni.

5.1. Deve sottolinearsi, in via preliminare, sulla scorta delle distinzioni largamente seguite in dottrina e giurisprudenza, come quello invocato dalla Casa di Cura sia un “tipico” danno da ritardo, legato ai circa nove mesi durante i quali alla struttura privata fu negato l’accreditamento dalla Regione Toscana e, quindi, “il convenzionamento” con il sistema sanitario pubblico, sulla base di un atto di diniego di cui il giudice amministrativo accertò l’illegittimità annullandolo e, in tal modo, ponendo le basi per il successivo rilascio del provvedimento favorevole.

5.2. Il rilievo non è secondario perché vale ad escludere, in radice, che la Casa di cura potesse e possa fondatamente chiedere il ristoro di spese e di costi che, in ogni caso, avrebbe sostenuto e che, presumibilmente, avrà ampiamente ammortizzato nel non poco tempo da allora trascorso. Sicché il danno da valutare è essenzialmente quello del mancato guadagno (v. art.l’art. 1223 c.c. richiamato dall’art. 2056 c.c.) che coincide con l’utile ovvero con il profitto che la Casa di cura avrebbe potuto ritrarre ove, a suo tempo, le fosse stato riconosciuto tempestivamente l’accreditamento richiesto e ad essa spettante.

5.3. Detto in altri termini, muovendo da una nozione patrimonialistica di danno, tanto più giustificata se riferita ad un ente avente natura imprenditoriale qual è l’odierna appellante, si tratta di ricostruire attraverso un giudizio probabilistico la situazione che si sarebbe determinata ove il fatto illecito non si fosse verificato (cd. ipotesi della differenza). Nel caso di specie si tratta quindi di ricostruire quella che sarebbe stata la – differente (nel senso di migliore) - situazione patrimoniale della Casa di cura se, a suo tempo, avesse ottenuto tempestivamente l’accreditamento dalla Regione Toscana, senza aspettare circa nove mesi. Ciò al fine evidente di porre il privato nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’illecito non fosse stato commesso, così compensandolo della perdita ingiustamente subita.

5.4. Sempre in premessa, è appena il caso di sottolineare come in questa sede non si controverte (più) sull’ an del risarcimento del danno – profilo sul quale si è oramai formato il giudicato, non avendo la Regione impugnato la sentenza di primo grado - quanto, piuttosto, sulla misura della sua liquidazione, ossia sulla sua esatta determinazione, che la Casa di cura contesta.

5.5. Parte appellante lamenta, in particolare, che nella quantificazione del danno, il giudice di primo grado, per un verso, non avrebbe considerato il costo dei finanziamenti a suo tempo contratti per l’acquisto dei macchinari;
e, per un altro verso, avrebbe sottostimato le capacità di prestazioni (di TAC e di RMN) della Casa di cura, anche considerando che per il 1997 il Tar ha fatto riferimento ad un tetto di spesa commisurato ad un fatturato puramente teorico, poiché riferito all’anno precedente, il 1996, nel quale la Casa di cura non era ancora operativa.

5.6. La Regione replica osservando come i costi e le spese siano da imputare, più in generale, all’attività imprenditoriale privata della Casa di cura e, quindi, a prescindere dal suo inserimento nell’elenco delle strutture accreditate con il sistema sanitario;
come la stima delle capacità prestazionali, per i nove mesi di illegittimo ritardo nell’accreditamento, sia stata effettuata sulla base di conteggi non contestati dalla Casa di cura nel giudizio di primo grado;
come, infine, l’accreditamento non sia da solo elemento sufficiente ai fini della remunerazione delle prestazioni eseguite, a carico del servizio sanitario nazionale, occorrendo anche che intercorra un rapporto contrattuale con l’azienda sanitaria locale.

6. Se queste sono le contrapposte tesi di parte, è necessario ricordare anche come nel giudizio risarcitorio non possa avere ingresso il metodo acquisitivo, applicato tradizionalmente al giudizio impugnatorio. Ciò sul rilievo che, nelle controversie risarcitorie, il privato ha la piena disponibilità degli elementi di prova sui quali fonda la propria domanda di condanna e che, quindi, è suo onere esclusivo introdurli in giudizio, facendosi piena applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 c.c. (v. art. 64 comma 1 c.p.a. e, in giurisprudenza, Cons. St., sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124).

6.1. Detto in altri termini, l’autonomia del giudizio risarcitorio rispetto a quello impugnatorio, affermata con particolare forza dalla Corte di Cassazione e di recente riconosciuta anche dal Consiglio di Stato al suo massimo livello (v. Ad. Plen. n. 3/2011), comporta che il primo giudizio debba svolgersi secondo canoni processuali in parte diversi ed originali rispetto alla tradizione del processo amministrativo, come risulta evidente proprio sul terreno dell’istruzione probatoria, dove è a carico della parte attrice l’onere di allegare e provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito (condotta, evento, nesso di causalità, colpa e danno).

6.2. Al lume di tale principio generale, nel caso di specie è evidente lo scarto tra la misura elevata del risarcimento chiesto dal privato, pari a circa cinque miliardi di vecchie lire, e la stringatezza delle allegazioni poste a fondamento dell’atto di appello, così come a suo tempo del ricorso introduttivo nel giudizio di primo grado.

6.3. Secondo la prospettazione di parte appellante, tali allegazioni sarebbero suffragate, quanto al danno emergente (costi sostenuti per l’acquisto dei macchinari), essenzialmente dalla documentazione prodotta in giudizio, e, per quanto attiene al lucro cessante, dovrebbero essere confermate ( rectius , dimostrate) dall’esito di una CTU che si chiede al Collegio di disporre.

6.4. Ciò posto, quanto alla prima voce di danno (emergente), si è già osservato come la Casa di cura avrebbe in ogni caso sostenuto tali spese anche se l’accreditamento le fosse stato riconosciuto tempestivamente, il che equivale a dire che tali costi non sono imputabili all’illecito ritardo provocato dall’amministrazione, ma sono strettamente legati all’attività imprenditoriale della Casa di cura. Per tacere del fatto che, a distanza di tempo, quelle stesse spese sono state presumibilmente ammortizzate e che la maggior parte dei documenti – che dovrebbero attestare il loro effettivo pagamento - sono stati prodotti solo nel giudizio di appello, in violazione del divieto di cui all’art. 104, comma 2, c.p.a. (il solo documento depositato in primo grado, n. 7, era un semplice elenco di costi ad uso interno).

6.5. Per quanto attiene, invece, alla seconda voce, ossia il mancato guadagno, la richiesta di CTU, cui in tutto questo tempo non si è mai accompagnata la produzione di relazioni peritali di parte, si conferma come del tutto esplorativa oltre che, a distanza di molti anni, di dubbia utilità pratica. Del resto, come ben noto, la consulenza tecnica non è un mezzo di prova in senso stretto ma, piuttosto, uno strumento di valutazione, ovvero di misurazione, di una prova già acquisita per altra via, e che quindi non può mai supplire al difetto di allegazione e di dimostrazione della parte onerata a farlo (v. Cons. St., V, n. 1739/2011 e 6688/2010).

6.6. Nella vicenda in esame, quindi, la sola prova del lucro cessante raggiunta è stata quella, di natura presuntiva, originata dai conteggi “volontariamente” offerti in primo grado dalla Regione, conteggi peraltro in tale circostanza neppure contestati dalla Casa di cura, in un tempo in cui il principio di non contestazione cominciava già ad essere teorizzato ed applicato dalla giurisprudenza della Cassazione, prima ancora che fosse codificato anche dal legislatore (v. ora art. 64 comma 2 c.p.a.).

6.7. Tutto questo è sufficiente per ritenere che la liquidazione in via equitativa disposta dal Tar, sulla base dei conteggi della Regione, sia immune da vizi logici e resista alle censure dell’appello.

7. In conclusione, per queste ragioni, l’appello è infondato e va respinto.

8. Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate con il dispositivo.

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