Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-12-17, n. 202108409

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-12-17, n. 202108409
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202108409
Data del deposito : 17 dicembre 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 17/12/2021

N. 08409/2021REG.PROV.COLL.

N. 04951/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4951 del 2021, proposto dal signor
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato O P, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l’avvocato A N in Roma, via Cassiodoro n.19

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la -OMISSIS- (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’impugnativa del provvedimento prot. 51575 del 15 luglio 2020 (fascicolo 333-D/122.M.2.1), ed ogni atto o parere ad esso presupposto, ivi compreso il provvedimento prot. 316 del 4 marzo 2020, e per l’accertamento del diritto a svolgere liberamente e manifestare il proprio credo in tutte le sue forme e attività di culto previste anche dal rango clericale conferitogli sacramentalmente.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2021 il Cons. C A e udito, per l’appellante, l’avvocato Andrea Serraino, in sostituzione dell’avvocato O P;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il signor -OMISSIS-, assistente capo della Polizia di Stato, in servizio presso il Reparto prevenzione crimine -OMISSIS- centrale di -OMISSIS-, il 12 febbraio 2020, comunicava al Capo del Reparto di appartenenza e alla Direzione centrale Risorse umane del Dipartimento di Pubblica sicurezza di essere stato ordinato presbitero della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia e di ricevere un sussidio dall’Arcidiocesi per lo svolgimento di tale funzione equiparato solo a fini fiscali, in base alla Intesa tra Stato e confessione religiosa, ad un reddito da lavoro dipendente;
richiamando, poi, la legge 30 luglio 2012, n. 126 di approvazione della Intesa con l’Arcidiocesi Ortodossa, ai sensi dell’art. 8 della Costituzione, e i principi costituzionali della libertà religiosa e di culto, esprimeva la volontà di “ svolgere liberamente e manifestare il proprio credo in tutte le sue forme e attività di culto, previste anche dal rango clericale conferito sacramentalmente, come anche usufruire del sussidio previsto ” “ salvo contrario avviso ” del Ministero.

Con nota del 18 febbraio 2020 il Capo del Reparto prevenzione crimine -OMISSIS- centrale di -OMISSIS- trasmetteva l’istanza al Ministero rappresentando la mancanza di motivi ostativi al suo accoglimento.

Con parere del 4 marzo 2020 la Direzione centrale delle Risorse umane - Servizio Sovrintendenti, Assistenti, Agenti - del Ministero dell’Interno rilevava l’insussistenza di profili formali di incompatibilità, non essendo previsti limiti all’esercizio dell’attività di ministro di culto, ma esprimeva “ forti perplessità, sotto il profilo dell’opportunità ”, sul fatto che “ un appartenente alla Polizia di Stato che esercita funzioni di polizia assolva contestualmente alle funzioni tipiche del sacerdozio, peraltro nello stesso territorio dove presta servizio”; l’Amministrazione richiamava, altresì, la norma dell’art. 3 della legge n. 126 del 2012 che prevede l’esonero, per i ministri di culto, dall’obbligo di fornire ai magistrati o ad altre autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragioni del proprio ministero, in contrasto, quindi, con gli obblighi gravanti sugli agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria. Pertanto, anche facendo riferimento ad un caso analogo, senza ulteriore specificazione, negava la possibilità di svolgere l’attività di ministro di culto.

Il 7 maggio 2020 l’Assistente capo -OMISSIS- presentava istanza di riesame in autotutela di tale determinazione, richiamando il principio pluralista, pluriconfessionale e neutrale dello Stato italiano come sancito dalla Carta costituzionale nonché dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale;
rilevava che le disposizioni dell’art. 8 della Costituzione relative all’autonomia della confessioni religiose sono state attuate, quanto ai rapporti con la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, con la legge 30 luglio 2012 n. 126, di approvazione dell’Intesa con la detta confessione religiosa, nella quale si dà atto dell’autonomia della confessione religiosa anche nelle nomine dei ministri di culto;
contestava il parere del 4 marzo 2020 sia per quanto riguarda lo svolgimento delle funzioni di presbitero nel medesimo territorio in cui svolge le funzioni di Polizia, “ non avendo l’Amministrazione contezza in ordine al luogo in cui esercita o andrebbe ad esercitare il proprio ministero ”;
sia per il riferimento alle norme del codice di procedura penale relative all’esonero dalla testimonianza, in quanto l’Amministrazione avrebbe dovuto verificare in concreto tale eventuale incompatibilità rispetto agli specifici aspetti dell’attività di ministro di culto della Arcidiocesi ortodossa, nella quale i ministri di culto possono anche rinunciare ad amministrare il sacramento della confessione;
ha poi contestato il riferimento ad un caso analogo non avendo questo riguardato un ministro di culto dell’Arcidiocesi ortodossa e non potendo essere estese per analogia ad altre fattispecie regolate da altre Intese. Richiamava, infine, le norme del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, del d.lgs. 9 luglio 2003 e della direttiva comunitaria n. 78/2000, “ Direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” , sui divieti di discriminazione anche per motivi religiosi che sarebbero stati violati nel caso di specie.

Con nota del 14 maggio 2020 la Direzione centrale delle risorse umane - Servizio Sovrintendenti, Assistenti, Agenti - del Ministero dell’Interno richiedeva un parere all’Ufficio affari generali e giuridici della medesima Direzione, che, con nota del 13 luglio 2020, sulla base dell’art. 3 comma 2 della legge 126 del 2012, per cui i ministri di culto non sono tenuti a fornire informazioni ai magistrati o ad altra Autorità, evidenziava possibili situazioni di conflitto per un appartenente alla Polizia di Stato.

Il 15 luglio 2020 la Direzione centrale delle risorse umane, Sevizio Sovrintendenti, Assistenti, Agenti comunicava al signor -OMISSIS- che l’Ufficio affari generali e giuridici, interpellato sulla richiesta di riesame, aveva confermato l’orientamento già espresso dalla Direzione con la nota del 4 marzo 2020.

Avverso tali determinazioni e per l’accertamento del diritto ad esercitare l’attività di ministro di culto è stato proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale della -OMISSIS-, sede di -OMISSIS-, premettendo la natura non meramente confermativa dell’atto del 15 luglio 2020, essendo stato adottato a seguito di una nuova ponderazione di interessi, e formulando censure di “ violazione e falsa applicazione dei principi costituzionali e comunitari nonché delle norme speciali in materia di libero esercizio della religione e del culto;
eccesso di potere per omessa, carente, insufficiente motivazione, difetto di istruttorie e ponderazione, travisamento dei fatti, ingiustizia manifesta e violazione dell’obbligo di non discriminazione”.
In particolare, con il primo motivo, si lamentava sostanzialmente il difetto di motivazione e di istruttoria, sostenendo che l’Amministrazione non avrebbe valutato il profilo della incompatibilità territoriale, meramente affermata senza conoscenza delle circostanze di fatto né del luogo ove sarebbe svolta l’attività di ministro di culto, deducendo, in punto di fatto che tale incarico sarebbe stato svolto nella provincia di -OMISSIS-, quindi, al di fuori della sede di servizio;
né l’Amministrazione avrebbe considerato lo specifico ordinamento della Chiesa ortodossa per cui il ministro di culto può rinunciare ad amministrare la confessione, evitando l’asserito contrasto con l’obbligo di riferire all’Autorità giudiziaria;
riproduceva poi le argomentazioni dell’istanza di riesame relative all’erroneo richiamo da parte dell’Amministrazione ad un caso analogo.

Con il secondo motivo si lamentava una discriminazione per motivi religiosi, in violazione delle norme del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 e del d.lgs. 9 luglio 2003 n. 215 e della direttiva comunitaria 78/2000, sui divieti di discriminazione in relazione alle condizioni personali.

Il Ministero si costituiva in giudizio depositando una relazione dell’Amministrazione e documentazione allegata.

In particolare, nella relazione dell’Ufficio contenzioso e affari legali della direzione delle risorse Umane del Dipartimento di Pubblica sicurezza del 22 gennaio 2021, inviata all’Avvocatura dello Stato per le difese in giudizio, si rilevava l’irrilevanza del compimento dello svolgimento del ministero in sede diversa da quella di servizio, in quanto comunque ad una distanza inferiore a cento chilometri, sia con riferimento ai profili di incompatibilità per conflitto di interessi sia in relazione all’impegno richiesto per lo svolgimento di tale ulteriore attività.

Con la sentenza n. -OMISSIS-, il ricorso è stato respinto per la infondatezza della censura di difetto di motivazione e di istruttoria, avendo il provvedimento del 15 luglio 2020 richiamato il parere del 4 marzo 2020, che aveva specificamente indicato le motivazioni del diniego;
inoltre, la norma dell’art. 3 della legge n. 126 del 2012, analoga a quelle relative alle altre confessioni religiose e all’art.4 dell’Accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, relativa all’esonero dell’obbligo di dare informazioni all’Autorità giudiziaria o ad altre Autorità, costituisce espressione di un principio generale a tutela della libertà religiosa del fedele che si affida al ministro di culto e della libertà di quest’ultimo di vedere garantito il libero esercizio del proprio ministero, che si esplica al di là delle informazioni acquisite tramite il sacramento della confessione, ma abbraccia qualunque informazione, relativa a persone o materie, che sia stata appresa a motivo dell’esercizio del proprio ministero senza una perimetrabilità di tale esenzione a singoli momenti o a singoli atti, più o meno tipici, propri del ministero esercitato;
il giudice di primo grado ha, altresì, richiamato l’art. 28 del D.P.R. n. 782 del 28 ottobre 1985 (Regolamento di servizio dell’amministrazione della Pubblica sicurezza) che prevede un obbligo generale per il personale della pubblica sicurezza di riferire “ su ogni fatto di particolare rilievo avvenuto durante l'espletamento del servizio deve riferire con apposita segnalazione al responsabile dell'ufficio, reparto o istituto ”. Sulla base di tali indicazioni di carattere generale, il giudice di primo grado ha ritenuto pertanto irrilevante sia il mancato esame del contesto territoriale di svolgimento del ministero sia la questione della possibile rinuncia alla amministrazione del sacramento della confessione nella Chiesa ortodossa, ritenendo quindi sussistente un profilo generale di incompatibilità tra lo status del ministro di culto e quello di appartenente alla Polizia di Stato;
ha poi ritenuto generica la seconda censura relativa alla discriminazione, affermandone, altresì, la infondatezza, non essendo possibile configurare una discriminazione per motivi religiosi.

Avverso tale sentenza è stato proposto il presente appello formulando un primo motivo di “ violazione e falsa applicazione degli artt. 200, 331 e 347 c.p.p. e dell’art. 361 c.p., relativi all’imposizione di obblighi e di facoltà attribuiti dalla legge, rispettivamente ai ministri di confessioni religiose e ai pubblici ufficiali;
erronea interpretazione del ministero sacerdotale e della garanzia di riservatezza conferita ai clerici, in correlazione con l’obbligo di riferire la notizia criminis e i poteri officiosi dell’autorità giudiziaria;
violazione della riserva di legge in materia di incompatibilità, difetto di motivazione”,
in quanto la sentenza di primo grado avrebbe erroneamente operato una qualificazione formale del rapporto con le confessioni religiose, mentre si dovrebbe valutare in concreto il sacramento della confessione che il -OMISSIS- non è autorizzato ad impartire, ciò sulla base anche dell’art. 331 c.p.p. che prevede l’obbligo di denuncia nell’esercizio delle pubbliche funzioni o di un pubblico servizio;
dell’art. 200 c.p.p. che esclude l’obbligo della testimonianza solo per i fatti appresi nell’esercizio del ministero e delle disposizioni “ canoniche ”, che non tutelerebbe qualsiasi conoscenza di informazioni da parte del ministro di culto;
sono state richiamate, a tal proposito, alcune disposizioni vaticane e della conferenza episcopale italiana relative alla attività di trasmissione delle notizie di reato all’autorità giudiziaria;
il giudice di primo grado avrebbe dovuto, quindi, valutare specificamente la circostanza della possibilità di non essere autorizzato all’amministrazione del sacramento della confessione, che renderebbe irrilevante la tutela del segreto.

Con un secondo motivo è stata dedotta la “ violazione e falsa applicazione degli artt. 7,8 e 19 della Costituzione, degli artt. 9 e 10 della CEDU dell’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, dell’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici;
la illegittima imposizione di restrizioni alla libera manifestazione - nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti- della religione e del credo;
l’omessa ponderazione tra diritti costituzionali potenzialmente in conflitto e mancata applicazione del principio del bilanciamento;
violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità, in relazione alle conseguenze prodotte nella sfera giuridica dei contraddittori, motivazione insufficiente e contraddittoria”
, sostenendosi l’erroneità della sentenza, in quanto, in base ai principi internazionali e costituzionali, la libertà religiosa in tutte le sue manifestazioni potrebbe essere limitata solo in presenza di specifiche circostanze di fatto e valutazioni di esigenze da parte dell’Amministrazione, non sussistenti e comunque non considerate nel caso di specie;

Con il terzo motivo è stata lamentata la “ violazione dell’art. 3 della Costituzione, in correlazione con gli artt. 7 e 8, mancata applicazione del principio di laicità dello Stato, di equidistanza e imparzialità delle diverse confessioni religiose;
violazione dell’obbligo di non discriminazione;
omessa interpretazione sistematica delle disposizioni di cui alle leggi n. 126, 127 e 128 del 2012, con conseguente applicazione di trattamenti differenziati a fattispecie sostanzialmente analoghe, omessa ponderazione tra diritti costituzionali potenzialmente in conflitto
, motivazione insufficiente in ordine all’applicazione del trattamento meno favorevole nel quadro della normative europee sulla non discriminazione, contestandosi le argomentazioni della sentenza in ordine alla mancanza di una discriminazione e richiamando le leggi n. 127 e n. 128 del 2012, di approvazione rispettivamente della Intesa con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’ultimo giorno, e con la Chiesa apostolica in Italia, che prevederebbero espressamente la compatibilità tra la funzione di ministro di culto e l’appartenenza alle forze armate, mentre le medesime Intese esonerano il Ministro di culto dall’obbligo di dare informazioni ai magistrati o ad altre autorità;
è stata richiamata poi la figura del cappellano militare integrato nell’esercito italiano e sacerdote cattolico, con discriminazione quindi rispetto alle altre confessioni religiose.

E’ stato poi formulato un quarto motivo, di “ violazione dell’art. 2 della Costituzione, in correlazione con gli artt. 13, 19 e 21 della Costituzione, omessa valutazione delle circostanze di fatto e di diritto atte a determinare la confliggenza tra il provvedimento impugnato e i diritti della personalità”, sostenendosi che la limitazione imposta all’espressione della libertà religiosa avrebbe comportato una lesione della personalità e delle libertà fondamentali, nonché della propria identità.

Nell’appello, oltre alla domanda cautelare, anche monocratica, è stata proposta istanza, in via subordinata, in caso di non accoglimento dei motivi di appello, per il deferimento della questione all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.

Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio con atto di stile e ha depositato la documentazione già prodotta in primo grado.

Con decreto cautelare n. -OMISSIS- è stata respinta l’istanza di misure cautelari monocratiche.

Con ordinanza n. -OMISSIS-, a seguito della camera di consiglio del 22 giugno 2021, fissata per l’esame della domanda cautelare, è stata fissata l’udienza pubblica per la trattazione del merito del giudizio.

All’udienza pubblica del 19 ottobre 2021 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

Ritiene il Collegio, in via preliminare, di evidenziare che con l’atto di appello sono state formulate censure nuove non proposte nel giudizio di primo grado, ampliando l’ambito dei motivi proposti oltre le argomentazioni critiche alla sentenza appellata - ammissibili nel giudizio di appello- e introducendo motivi del tutto nuovi, in particolare con riguardo al confronto con le altre intese con le confessioni religiose, in particolare quelle approvate con le leggi 30 luglio 2007, n. 127 e n. 128, e con la disciplina dei cappellani militari dell’esercito (terzo motivo) sia con riguardo alla limitazione delle libertà fondamentali (quarto motivo).

Tali motivi andrebbero, quindi, dichiarati inammissibili per la violazione dell’art. 104 c.p.a..

In ogni caso, come per gli altri motivi, ritiene il Collegio di procedere all’esame del merito in relazione alla evidente infondatezza di tutte le censure.

Con il primo motivo è stata in parte riproposta la censura del primo grado relativa al difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto - secondo la ricostruzione della difesa appellante - il giudice di primo grado avrebbe dovuto specificamente considerare in concreto l’incompatibilità e ritenerla insussistente dal momento che il ministero di presbitero si svolge a -OMISSIS- al di fuori della sede di servizio dell’appellante (-OMISSIS-);
inoltre, il profilo del rispetto del segreto sarebbe stato considerato solo in astratto in base all’assetto normativo ma non in concreto con riferimento allo specifico ministero prestato, per cui il -OMISSIS- non è autorizzato alla confessione, mentre gli obblighi informativi delle norme penali e del codice di procedura penale sussisterebbero solo nell’ambito dello svolgimento delle funzioni e del servizio;
non vi sarebbe quindi obbligo di denuncia per tutti i fatti appresi nell’esercizio del ministero mentre la tutela del segreto anche negli ordinamenti religiosi riguarderebbe solo i fatti appresi nella confessione e non qualsiasi informazione conosciuta nell’ambito dell’attività di ministro di culto.

La ricostruzione della difesa appellante non può essere condivisa essendo avulsa dalle coordinate normative di riferimento.

In primo luogo, ritiene il Collegio di richiamare la disposizione dell’art. 53 del d.lgs. 31 marzo 2001, n. 165, per cui “ Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3”.

Il comma 7 dell’art. 53 prevede poi che “ i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi”.

Ai sensi del comma 6, il comma 7 e i seguenti “si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all'articolo 3” (ovvero il personale in regime di diritto pubblico, tra cui le Forze di polizia).

Inoltre, il medesimo comma 6 definisce incarichi retribuiti, “ tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso”; prevedendo l’esclusione della disciplina di commi da 7 a 13 dell’art. 53 solo per i compensi derivanti:

“a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;

b) dalla utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali;

c) dalla partecipazione a convegni e seminari;

d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate;

e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;

f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;

f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica ”.

L’art. 60 del TU del 1957 prevede, infatti, un generale principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego affermando che “ l’impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente”.

La giurisprudenza sia della Cassazione, con riferimento al pubblico impiego privatizzato, sia del Consiglio di Stato, per il personale in regime di diritto pubblico, è costante nel ritenere che il rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni sia caratterizzato dall’obbligo di esclusività, che trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 98 della Costituzione, che, nel prevedere che “ i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione ”, ha voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività. (Cassazione, Sez. lavoro, 3 agosto 2021, n. 22188;
25 giugno 2020, n. 12626;
7 maggio 2019, n. 11949;
6 febbraio 2019, n. 3467;
10 gennaio 2019, n. 427, nell’ambito del rapporto di pubblico impiego privatizzato).

Dal principio di esclusività, sancito dall’art. 98 della Costituzione nei confronti di tutti i pubblici impiegati, e dai principi di buon andamento e imparzialità, che l’art. 97 impone siano assicurati nell’organizzazione dei pubblici uffici, discende il dovere di dedicare interamente all’ufficio la propria attività lavorativa senza disperdere le proprie energie in attività esterne ed ulteriori rispetto al rapporto di impiego (C.G.A.R.S., 10 settembre 2019, n. 794 per il personale della Polizia di Stato).

In particolare, dalla lettura combinata e complessiva dell’art. 53 del d.lgs. 165 del 2001 con l’art. 60 del T.U. 3/1957 deriva che si possono distinguere tre ipotesi: 1) attività assolutamente incompatibili: sono le attività inibite, che non si possono esercitare nemmeno con autorizzazione (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 );
2) attività consentite: sono le attività per cui non è necessaria l’autorizzazione (indicate dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 6);
3) attività consentite previa autorizzazione: tutte le altre attività comprese nella sfera di applicabilità dell’art. 53 del d.lgs. 165.

Tranne i casi espressamente indicati al comma 6 dell’art. 53 e i divieti dell’art. 60 o gli altri espressamente previsti, la regola generale posta dal d.lgs. 165 del 2001 e dal T.U. del 1957 è, quindi, quella secondo cui vige un principio generale di esclusività, che può essere derogato con l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.

Poiché lo scopo dell’autorizzazione è di verificare ex ante la mancanza di situazioni anche potenziali di conflitto di interessi, la situazione di incompatibilità deve essere valutata in astratto, sul presupposto che la norma mira a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente anche dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 5 maggio 2021, n. 3521;
C.G.A.R.S., 10 settembre 2019, n. 794).

L’ordinamento ha, infatti, inteso prevenire, con il regime delle incompatibilità, il concretarsi del contrasto inibendo le condizioni favorevoli al suo insorgere, con un giudizio prognostico ex ante , ciò indipendentemente dall’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio (Cass. Sez. lavoro, 3 agosto 2021, n. 22188;
29 novembre 2019 n. 31277).

L’art. 53 comma 7 vieta, dunque, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, con rapporto di lavoro a tempo pieno, l’espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un compenso, salvo che lo svolgimento dell’incarico sia stato preventivamente autorizzato dall’amministrazione di appartenenza per le specifiche attività consentite dalla legge (Cons. Stato, Sez. II, 24 settembre 2020, n. 5594).

Inoltre, la giurisprudenza ritiene rilevante non tanto la remunerazione che il dipendente ottenga da un’attività esterna ma la sussistenza di un centro di interessi alternativo all’ufficio pubblico rivestito, implicante un’attività che per le sue caratteristiche pregiudichi il rispetto del dovere di esclusività, potenzialmente idonea a turbare la regolarità del servizio o ad attenuare l’indipendenza del lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della pubblica amministrazione (Cass., Sez. lav., 1° dicembre 2020, n. 27420).

Il provvedimento oggetto del presente giudizio è sostanzialmente il diniego dell’autorizzazione, ai sensi dell’art. 53 comma 7.

Si deve, pertanto, fare applicazione della disciplina del comma 7 e della sua consolidata applicazione giurisprudenziale;
si deve, altresì, rilevare che nell’ambito del pubblico impiego non privatizzato, caratterizzato dalla particolare rilevanza delle funzioni pubbliche ricoperte, le esigenze di evitare conflitti di interesse anche solo potenziali o che una situazione di conflitto di interessi sia potenzialmente percepibile all’esterno sono anche più stringenti.

Vieppiù tali argomentazioni devono essere considerate per gli appartenenti alle Forze di Polizia, sotto i vari profili che caratterizzano la specificità delle funzioni.

La disciplina che regolamenta l’ordinamento della Polizia di Stato impone prescrizioni più restrittive, atte a introdurre una sorta di incompatibilità assoluta con altre attività, indipendentemente dalla natura privata o pubblica che connota le stesse;
ne deriva, quindi, l’obbligo di operare esclusivamente a favore della Polizia di Stato, anche in considerazione della particolare gravosità riconosciuta alle relative funzioni, con la conseguenza che l’eventuale esercizio di ulteriori funzioni non può che assumere indiscusso carattere eccezionale, nel rispetto della salvaguardia primaria della dedizione del dipendente ai propri compiti di appartenente alla Polizia di Stato (cfr. Cons. Stato Sez. III, 4 agosto 2015, n. 3843).

Infatti, il D.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782, “ Approvazione del regolamento di servizio dell'Amministrazione della pubblica sicurezza ” prevede espressamente all’art. 24 il “ divieto di svolgere compiti non attinenti al servizio ”, disponendo che “ il personale della Polizia di Stato non può fornire prestazioni lavorative che non siano attinenti al servizio di istituto ”.

In base al comma 2 “ Salvo quanto previsto dagli ordinamenti dei rispettivi ruoli, le situazioni di incompatibilità e il cumulo di impieghi del personale di cui al precedente comma sono disciplinati dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3” .

Ne deriva, in linea generale, un divieto di svolgere altre funzioni oltre quelle del servizio di Polizia.

Sotto tale profilo, se anche nel caso di specie non si può ritenere una attività propriamente lavorativa, essa peraltro può essere ragionevolmente assimilata ad una attività del genere considerato il compenso attribuito, il quale è espressamente assimilato, ai sensi dell’art. 22 della legge 30 luglio 2012, n. 126, “ Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Sacra arcidiocesi ortodossa d'Italia ed Esarcato per l'Europa Meridionale, in attuazione dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione ”, anche se solo a fini fiscali, ad un reddito da lavoro dipendente, in base all’Intesa con la Arcidiocesi ortodossa;
inoltre, il comma 2 del detto art. 22, dispone che l’Arcidiocesi operi le trattenute, come un sostituto di imposta, sull’assegno attribuito ai Ministri di culto e che provveda per i ministri di culto che vi siano tenuti, al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali previsti dalle leggi vigenti. Infatti, la disposizione del comma 4 dell’art. 3 della legge n. 126 del 2012 prevede la facoltà per i ministri di culto di essere iscritti nel Fondo speciale di previdenza e assistenza per i ministri di culto.

Tale disciplina del trattamento economico dei ministri di culto dell’Arcidiocesi Ortodossa, a prescindere dalla qualificazione del rapporto, denota, ad avviso del Collegio un impegno evidentemente di carattere non sporadico o saltuario.

Peraltro, in base all’art. 53 comma 6, sopracitato, applicabile anche ai rapporti di lavoro di diritto pubblico, rileva un compenso percepito “a qualunque titolo ”, quindi non vi sono elementi per non farvi rientrare anche l’assegno previsto dall’art. 22 della legge n. 126 del 2012.

La specificità del rapporto dell’appartenenza alla Polizia di Stato, che la distingue dagli altri rapporti di pubblico impiego, risulta poi dalla subordinazione gerarchica espressamente prevista dagli artt. 65 e 66 della legge 1 aprile 1981 n. 121, dal possesso e dall’uso delle armi, dalla disposizione dell’art. 68 della medesima legge, per cui “ gli appartenenti ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza sono comunque tenuti, anche fuori dal servizio, ad osservare i doveri inerenti alla loro funzione ”, che rende incompatibili altre attività se non in limitati e ristretti ambiti secondo le valutazioni effettuate dall’Amministrazione.

Ne deriva che, anche in mancanza di una espressa previsione legislativa di divieto, comunque ricavabile ad avviso del Collegio dal citato art. 24 del D.P.R. 782 del 1985, il principio generale è quello della incompatibilità di altri incarichi con l’attività del personale della Polizia di Stato, con la conseguenza che l’Amministrazione non era tenuta neppure ad una specifica motivazione del diniego, quanto se mai ad una espressa motivazione in caso di rilascio dell’autorizzazione.

In ogni caso, non era tenuta ad alcuna considerazione in concreto delle circostanze di fatto, quali la mancata autorizzazione al sacramento della confessione e lo svolgimento dell’attività nella provincia di -OMISSIS-, dovendo valutare in astratto i profili di incompatibilità.

Si deve, peraltro, evidenziare che tali circostanze non sono state indicate dall’odierno appellante né nella istanza originaria né in quella per riesame, ma solo nel ricorso di primo grado, mentre deve essere il dipendente ad evidenziare i profili che, in fatto, potrebbero condurre ad un giudizio di compatibilità, trattandosi di una deroga al regime generale della esclusività.

La prevalenza del principio di esclusività del pubblico impiego non viene, poi, meno in relazione alla diritto di manifestare la propria fede religiosa né il diniego può costituire una forma di discriminazione, secondo quanto sostenuto dalla difesa appellante.

Non si tratta, infatti, di un impedimento all’esercizio della libertà religiosa in tutte le sue forme, che anche il personale della Polizia di Stato, come i militari, può esercitare sia in forma individuale che collettiva secondo le manifestazioni e i riti della propria confessione religiosa.

Come è noto, nella giurisprudenza costituzionale è ormai consolidato il principio per cui l’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal principio di laicità, da intendersi non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità, come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale: compito della Repubblica è garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione, la quale rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2 Cost., anche il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato (sentenze n. 63 del 2016, n. 67 del 2017).

Nel caso di specie, si tratta della verifica di compatibilità di uno specifico incarico - anche retribuito con un compenso- di ministro di culto, il quale per ogni confessione religiosa, come correttamente rilevato dall’Amministrazione e dal giudice di primo grado, ha un regime di tutela previsto dall’ordinamento, giudicato, nel caso di specie, incompatibile con l’appartenenza alla Polizia di Stato.

Premesso che le valutazioni della Amministrazione in sede di autorizzazione allo svolgimento di un incarico sono connotate anche da un ambito di discrezionalità rispetto alla valutazione dell’interesse pubblico, comunque prevalente in relazione alla esclusività del rapporto di pubblico impiego, le argomentazioni dell’appellante sono infondate anche con riferimento all’ambito ristretto degli obblighi informativi e della tutela del segreto in relazione allo specifico atteggiarsi delle norme in materia.

Deve essere richiamata la norma già citata dell’art. 68 della legge n. 121 del 1981, per cui “ gli appartenenti ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza sono comunque tenuti, anche fuori dal servizio, ad osservare i doveri inerenti alla loro funzione”.

La giurisprudenza ha costantemente affermato che gli agenti e gli ufficiali della polizia, così come i carabinieri, sono da considerare in servizio permanente: nel senso che, anche nei periodi di permesso o di licenza, sono obbligati ad assumere l'esercizio attuale delle funzioni, allorché se ne verifichino le condizioni di legge (Cass. pen., n. 21730 del 2001;
Cass. civ., Sez. I, 8 luglio 2005, n. 14390).

Ne deriva che gli obblighi di riferire le notizie di reato e gli obblighi di denuncia si estendono anche al di fuori del predeterminato orario di servizio, rimanendo costantemente in capo al personale della Polizia.

Sono, dunque, anche considerati permanentemente in servizio quali agenti e ufficiali di polizia giudiziaria, ai sensi dell’art. 57 c.p.p, con i conseguenti obblighi di denuncia, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., e di riferire al pubblico ministero la notizia di reato, ai sensi dell’art. 347 c.p.p.

Inoltre, in base all’art. 56 c.p.p. le funzioni di polizia giudiziaria, sono svolte, dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria “ alle dipendenze e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria ”.

La Cassazione penale ritiene, infatti, integrato il delitto di favoreggiamento personale, in caso di omessa denuncia di reato da parte di un appartenente alla polizia di Stato che abbia appreso la “ notitia criminis” nel corso di una conversazione informale, in quanto gli appartenenti ai ruoli dell'amministrazione della pubblica sicurezza sono gravati dell’obbligo di denuncia anche in relazione a notizie acquisite fuori dell’attività di servizio (Cass. pen. Sez. VI 4 dicembre 2013, n. 51508).

La permanenza degli obblighi di informazione e denuncia anche al di fuori dell’orario di servizio comporta la irrilevanza, nel caso di specie, sia dello svolgimento dell’attività di ministro di culto al di fuori del servizio, sia del luogo di svolgimento del ministero, permanendo gli obblighi del servizio sempre vigenti, anche in un luogo diverso dalla sede di servizio.

Né possono rilevare le specifiche normative interne delle confessioni religiose, a prescindere dalla circostanza che la difesa appellante fa riferimento sotto tale profilo ad atti del Vaticano e della conferenza episcopale italiana, irrilevanti rispetto alla confessione ortodossa.

Rileva, altresì, la norma citata anche dal giudice di primo grado dell’art. 28 del D.P.R. 782 del 1985, per cui “ Il personale su ogni fatto di particolare rilievo avvenuto durante l'espletamento del servizio deve riferire con apposita segnalazione al responsabile dell'ufficio, reparto o istituto, per gli adempimenti di legge, fatto salvo l'obbligo del dipendente di redigere gli ulteriori atti prescritti dalle disposizioni vigenti ”.

E’ pertanto, evidente sotto vari profili, la sussistenza di una incompatibilità con la funzione di ministro di culto della confessione ortodossa, per la quale la legge 126 del 2012, “ Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Sacra arcidiocesi ortodossa d'Italia ed Esarcato per l'Europa Meridionale, in attuazione dell'articolo 8, terzo comma, della Costituzione ”, all’art. 3 comma 2, prevede che “ i ministri di culto non sono tenuti a dare ai magistrati o ad altre autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragioni del proprio ministero ”, non potendosi consentire da parte dell’Amministrazione della pubblica sicurezza che un proprio dipendente abbia una sfera di attività in cui non siano pienamente operanti gli obblighi posti permanentemente a carico degli agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria.

Peraltro, a conferma della sussistenza della incompatibilità, deve essere richiamata altresì la norma del comma 3 dell’art. 3 della legge 126, per cui “ nel caso di ripristino del servizio obbligatorio di leva, i ministri di culto dell'Arcidiocesi hanno diritto, su loro richiesta, ad essere esonerati dal servizio militare o essere assegnati al servizio civile ”. Tale disposizione indica chiaramente la volontà di entrambe le parti che hanno sottoscritto l’Intesa (Stato italiano e Sacra Arcidiocesi ortodossa d'Italia ed Esarcato per l'Europa Meridionale) di escludere la compatibilità per i ministri di culto dell’Arcidiocesi dell’uso obbligatorio di armi o di attività offensive nei confronti di altre persone, sotto tale profilo escludendo la compatibilità anche con l’attività di polizia.

Con riferimento alle intese, stipulate ai sensi dell’art. 8 comma 3 della Costituzione, il Collegio ritiene di richiamare la giurisprudenza costituzionale, per cui la disposizione costituzionale ha esteso alle confessioni non cattoliche, il “ metodo della bilateralità ”, nella materia dei rapporti tra Stato e confessioni non cattoliche, ove il riferimento a tale metodo evoca l'incontro della volontà delle due parti in vista dell'elaborazione della disciplina di ambiti collegati ai caratteri peculiari delle singole confessioni religiose. Il regime pattizio previsto dagli artt. 7 e 8 della Costituzione si basa sulla concorde volontà del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale. Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l'esercizio della libertà religiosa, ma le intese sono volte a riconoscere, bilateralmente, e dunque in modo differenziato, i rapporti con le singole confessioni religiose, in base alle esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose, ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni ovvero ancora a dare rilevanza, nell'ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa (Corte costituzionale n. 67 del 2017;
n. 63 del 2016;
n. 52 del 2016). Secondo tale ultima pronuncia, infatti, “ Tale significato dell’Intesa, cioè il suo essere finalizzata al riconoscimento di esigenze peculiari del gruppo religioso, deve restare fermo, a prescindere dal fatto che la prassi mostri una tendenza alla uniformità dei contenuti delle intese effettivamente stipulate, contenuti che continuano tuttavia a dipendere, in ultima analisi, dalla volontà delle parti . Ciò che la Costituzione ha inteso evitare è l'introduzione unilaterale di una speciale e derogatoria regolazione dei rapporti tra lo Stato e la singola confessione religiosa, sul presupposto che la stessa unilateralità possa essere fonte di discriminazione: per questa fondamentale ragione, gli specifici rapporti tra lo Stato e ciascuna singola confessione devono essere retti da una legge sulla base di intese ” (Corte Costituzionale n. 52 del 2016).

Sulla base del quadro normativo e giurisprudenziale richiamato risulta palese l’infondatezza degli ulteriori motivi di appello, in diparte la questione della novità delle questioni poste nel secondo grado di giudizio.

Infatti, mentre con l’art. 19 della Costituzione è riconosciuto a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, l’organizzazione delle confessioni religiose è disciplinata dall’art. 8, prevedendo la libertà di organizzarsi secondo propri statuti ma ponendo il limite che tali statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico dello Stato;
il terzo comma ha poi stabilito che i rapporti di dette confessioni con lo Stato siano da regolarsi con leggi, sulla base di intese con le relative rappresentanze (Corte costituzionale n. 59 del 1958).

La questione dell'organizzazione delle confessioni religiose, con le connesse garanzie e tutele, disciplinata dall’art. 8 della Costituzione è cosa diversa dal diritto fondamentale di ciascun individuo di scegliere se e quale confessione religiosa professare, nonché di poterla liberamente praticare in pubblico e in privato, ai sensi dell’art. 19 della Costituzione (Cons. Stato Sez. IV, 18 novembre 2011, n. 6083).

Sono, quindi, del tutto irrilevanti i richiami alle norme interne e internazionali in materia di discriminazione per il proprio credo religioso, non essendo posto in dubbio che un appartenente alla Polizia di Stato possa liberamente professare la propria fede religiosa.

La qualifica di ministro di culto, però, comporta lo svolgimento di funzioni tipiche previste dall’ordinamento della confessione religiosa.

Le intese hanno, infatti, specificamente regolamentato i vari aspetti dell’organizzazione delle confessioni religiose, anche quelli in cui potrebbe sussistere un contrasto tra il diritto di libertà religiosa e la laicità dello Stato, cercando di contemperare tali interessi ed esigenze.

Le intese sono, inoltre, basate sulla volontà delle parti, Stato e confessione religiose, di regolamentare i loro rapporti;
pertanto, se anche nella prassi, come ricordato dalla Corte Costituzionale, le intese hanno contenuti simili, si deve ritenere che le differenze di disciplina derivino proprio dalle valutazioni operate dalle parti in ordine alla compatibilità o meno dei vari aspetti della professione e della organizzazione della confessione religiosa.

Pertanto, venendo al caso di specie, se non è stata specificamente disciplinata nella Intesa una particolare deroga, che consenta ai ministri di culto lo svolgimento di tale attività nell’ambito di un rapporto di impiego quale agente di polizia, non si può ritenere ammessa tale possibilità in base ai principi generali di tutela della libertà religiosa, che non arrivano a disciplinare ogni tipo di manifestazione di tale diritto, anche in contrasto con altri principi fondamentali dell’ordinamento quale quello dell’art. 98 della Costituzione e con altre norme positive.

E’ quindi irrilevante, sotto tale profilo, che altre intese prevedano discipline differenti come quelle citate dalla difesa appellante, mentre, anzi la differente previsione per i ministri di culto di altre confessioni religiose di fare parte delle forze armate o delle Forze di polizia conduce proprio a ritenere tale possibilità esclusa per i ministri di culto dell’Arcidiocesi ortodossa per cui non è prevista una analoga disciplina.

Ciò trova conferma proprio nella normativa citata dalla difesa appellante riguardante i cappellani militari dell’esercito italiano, i quali sono espressamente previsti nell’Accordo del 1984 (art. 11), con una disciplina di recente confermata con lo Scambio di Lettere tra la Repubblica italiana e la Santa Sede sull’assistenza spirituale alle Forze armate 13 febbraio 2018, ratificato con L. 22 aprile 2021, n. 70.;
né se ne può inferire una disparità di trattamento (in disparte la questione che tale censura è stata proposta solo in appello), in relazione al rango delle fonti di tale disciplina, di natura pattizia e con la copertura costituzionale dell’art. 7 della Costituzione.

Quindi è irrilevante rispetto alla presente vicenda che la legge 30 luglio 2012, n. 127, “ Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, in attuazione dell'articolo 8 della Costituzione” - citata dalla difesa appellante a sostegno delle sue argomentazioni - preveda espressamente al comma 5 dell’art. 8 che “ I ministri di culto della Chiesa appartenenti alle Forze armate, alle Forze di polizia o ad altri servizi assimilati, sono posti in condizione di poter svolgere, unitamente agli obblighi del servizio, anche il ministero di assistenza spirituale nei confronti degli appartenenti ai rispettivi corpi che lo richiedano ”, da cui deriverebbe la possibilità di ministri di culto nell’ambito delle Forze armate e di polizia.

Si deve rilevare che se la medesima disposizione non è stata prevista nella Intesa con la confessione ortodossa, una tale possibilità è stata evidentemente stata ritenuta incompatibile dalle parti (o anche da una sola di esse non essendosi trovata una volontà sul punto) l’appartenenza alle Forze armate e alle Forze di polizia per i ministri del culto ortodosso.

A conferma di tale interpretazione, la medesima legge 127 relativa alla Intesa con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, all’art. 6, prevede che “ in caso di ripristino del servizio obbligatorio di leva, i membri della Chiesa, di cittadinanza italiana, che prestano servizio come missionari a tempo pieno possono, su loro richiesta vistata dall'autorità ecclesiastica, usufruire del rinvio dal servizio militare durante il tempo in cui sono missionari in attività, per un periodo non superiore ai trenta mesi ”, con una disciplina radicalmente diversa da quella prevista per la Chiesa ortodossa, per cui “ nel caso di ripristino del servizio obbligatorio di leva, i ministri di culto dell'Arcidiocesi hanno diritto, su loro richiesta, ad essere esonerati dal servizio militare o essere assegnati al servizio civile”.

Inoltre l’art.4 comma 4 della legge 127 del 2012 prevede per i ministri di culto “ il diritto di mantenere il segreto d'ufficio su quanto conosciuto per ragione del proprio ministero ”, con una disciplina, quindi, quella del segreto d’ufficio, molto più limitata dell’ampia nozione prevista all’art. 3 della legge 216 del 2012, sulla base della Intesa con l’Arcidiocesi Ortodossa.

Infatti, l’art. 201 c.p.p. che riguarda il segreto d’ufficio fa salvi i casi in cui sussista l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria, e comunque, tramite il richiamo ai commi 2 e 3 dell’art. 200 c.p.p. il giudice può obbligare a deporre.

Ancora differente è la disciplina della Intesa con la Chiesa apostolica in Italia (legge n. 128 del 2012), per cui, “ I magistrati o altre autorità non possono richiedere ai ministri di culto di deporre o di dare informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per motivo del loro ministero”; mentre “nel caso di ripristino del servizio obbligatorio di leva, i ministri di culto della Chiesa apostolica in Italia:

a) hanno facoltà di ottenere, a loro richiesta, di essere esonerati dal servizio militare oppure assegnati al servizio civile;

b) sono dispensati dalla chiamata alle armi nel caso in cui siano ministri di culto con cura di anime” (art. 3).

Inoltre, il comma 6 dell’art. 4 prevede che “I ministri di culto della Chiesa apostolica in Italia che siano militari in servizio o prestino servizio civile sono posti in condizione di poter svolgere, unitamente agli obblighi di servizio, anche il loro ministero di assistenza spirituale nei confronti dei militari che lo richiedano”, quindi, diversamente dalla legge n. 127, relativa alla Intesa con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, prevede tale possibilità solo per i militari e non anche per le Forze di polizia.

Da tale diversificazione della disciplina posta dalle intese, in disparte la questione dell’ammissibilità del motivo sollevato per la prima volta in appello, deriva che nessuna indicazione si può trarre dalle intese con le altre confessioni religiose, che traggono origine da un diverso assetto dei rapporti posti in essere tra le parti, sulla base della volontà espressa bilateralmente, anche in relazione alle differenze proprie di ogni confessione religiosa e non possono, pertanto, condurre né ad una applicazione analogica né a configurare una disparità di trattamento, al limite da fare valere nella sede di una nuova intesa tra le parti.

In conclusione l’appello è infondato e deve essere respinto.

Non deve essere rimessa la questione all’Adunanza Plenaria, secondo quanto richiesto dall’appellante, in via subordinata in caso di reiezione dei motivi d’appello, non sussistendo i presupposti indicati dall’art. 99 c.p.a. per il deferimento alla stessa.

Ai sensi dell’art. 99 c.p.a., infatti, “1. la sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d'ufficio può rimettere il ricorso all'esame dell'adunanza plenaria. L'adunanza plenaria, qualora ne ravvisi l'opportunità, può restituire gli atti alla sezione.

2. Prima della decisione, il presidente del Consiglio di Stato, su richiesta delle parti o d'ufficio, può deferire all'adunanza plenaria qualunque ricorso, per risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali .

3. Se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall'adunanza plenaria, rimette a quest'ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”.

Nel caso di specie, non sussiste alcun contrasto giurisprudenziale sulla questione oggetto del presente giudizio né la questione appare suscettibile di contrasti giurisprudenziali, essendo, inoltre, decisa in conformità agli orientamenti giurisprudenziali sopra citati della Cassazione e del Consiglio di Stato circa le autorizzazioni agli incarichi dei pubblici impiegati, disciplina applicabile nella presente vicenda.

In relazione alla novità e particolarità della questione le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate.

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