Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-11-30, n. 202007546

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-11-30, n. 202007546
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202007546
Data del deposito : 30 novembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 30/11/2020

N. 07546/2020REG.PROV.COLL.

N. 05679/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5679 del 2013, proposto da R M, rappresentata e difesa dagli avvocati A L e Francesca D’Alessandro, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato A Z in Roma, Lungotevere dei Mellini, n. 44;

contro

Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati F M F, B R e G D, con domicilio eletto presso lo Studio Grez e Associati in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 18;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sede di Napoli (Sezione Quarta), n. 1535/2013, resa tra le parti e concernente: ordinanza di demolizione;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 16 luglio 2020, il consigliere Bernhard Lageder. L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.-l. n. 18/2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.

L’avvocato Francesca D’Alessandro, ai sensi dell’art. 4 d.-l. n. 28/2020, ha depositato istanza di passaggio in decisione.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il TAR per la Campania respingeva il ricorso n. 2432 del 2009 – proposto da R M avverso il provvedimento del Comune di Napoli, Servizio Antiabusivismo Edilizia, n. 8 del 9 gennaio 2009, con il quale le era stata ordinata la demolizione del manufatto in muratura della superficie di mq 18 e dell’altezza media di m 2,10 costruito sul terrazzo di copertura e collegato da scala interna all’appartamento sottostante, realizzato sull’immobile di proprietà sito in Napoli, via Vergini n. 10 –, provvedendo come segue:

(i) respingeva il primo e il terzo motivo di ricorso – secondo cui il manufatto in muratura rilevato sul terrazzo sarebbe preesistente al 1942, e sicuramente già esistente alla data del 1° agosto 1995 (data della denuncia penale), e la ricorrente si sarebbe limitata, nel 2008, a porre in essere interventi di manutenzione (sostituzione delle preesistenti finitura e riparazioni) rientranti nell’ambito dell’attività libera ai sensi dell’art. 6 d.P.R. n. 380/2001 e comunque, al massimo, subordinati alla presentazione di D.I.A. –, sulla base dei seguenti rilievi:

- non è stata provata l’asserita risalenza dell’opera a un periodo anteriore al 1942, in tesi comunque irrilevante a fronte del regolamento edilizio del Comune di Napoli del 1935 che già esigeva una licenza per interventi edilizi sull’intero territorio comunale;

- irrilevante deve ritenersi anche l’eventuale risalenza all’agosto 1995, attesa l’infondatezza della deduzione della ricorrente per cui non sarebbe stato necessario il permesso di costruire, costituendo invero il manufatto de quo una struttura costruttiva stabile, autonoma e parzialmente chiusa, idonea a creare volumetria e a modificare la sagoma o il prospetto del fabbricato, integrante quanto meno un intervento di ristrutturazione edilizia necessitante di permesso di costruire, il che varrebbe anche in caso di qualificazione del manufatto come tettoia;

(ii) respingeva il secondo motivo di ricorso – con il quale era stata dedotta la carenza di motivazione del gravato provvedimento –, rilevando che lo stesso era sorretto da adeguata motivazione attraverso l’esplicitazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche, che avevano determinato l’ordine di demolizione, e attraverso la specifica indicazione delle opere abusive, la loro qualifica come opere necessitanti di permesso di costruire ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e1), d.P.R. n. 380/2001 e il richiamo del regime sanzionatorio ex art. 33 d.P.R. n. 380/2001, a prescindere dal rilievo che si trattava di atto vincolato che non esigeva motivazione alcuna in ordine alla scelta della sanzione o all’interesse pubblico alla demolizione, né era configurabile la formazione di una situazione di legittimo affidamento per effetto del lungo tempo trascorso;

(iii) respingeva il quarto motivo – con cui era stata dedotta la violazione dell’art. 7 l. n.241/1990 per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento –, trattandosi di atto vincolato e stante l’applicabilità dell’art. 21- octies l. n. 241/1990.

2. Avverso tale sentenza interponeva appello l’originaria ricorrente, deducendo i motivi come di seguito rubricati:

a) « Error in iudicando - Violazione di legge ex art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, eccesso di potere, carenza assoluta dei presupposti per l’irrogazione dell’ordine di ripristino dei luoghi »;

b) « Error in iudicando - Erronea applicazione dell’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001, eccesso di potere per carenza si istruttoria legata alla mancata valutazione del materiale probatorio riferito a precedente giudizio penale e carenza di motivazione, eccesso di potere in riferimento alla mancata enunciazione dei motivi di pubblico interesse rispetto alla mera esigenza di ripristinare la legalità violata sorreggente l’adottata determinazione »;

c) « Error in iudicando - Violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 ».

L’appellante chiedeva pertanto, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento del ricorso di primo grado.

3. Si costituiva in giudizio il Comune di Napoli, contestando la fondatezza dell’appello e chiedendone la reiezione.

4. Disposta con l’ordinanza collegiale n. 1256/2020 l’acquisizione/ricostruzione del fascicolo di primo grado ed eseguito l’incombente istruttorio, la causa all’udienza pubblica del 16 luglio 2020, tenuta come da verbale, è stata trattenuta in decisione.

5. L’appello è infondato.

5.1 Destituiti di fondamento sono i primi due motivi d’appello sub 2.a) e 2.b), tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, sostanzialmente ripropositivi dei motivi respinti con le statuizioni sub 1.(i) e 1.(ii), sia pure adattati – peraltro in modo alquanto generico – all’impianto motivazionale postovi a fondamento.

Il TAR correttamente ha respinto le censure, secondo cui la ricorrente nel 2008 si sarebbe limitata a porre in essere meri interventi di manutenzione (sostituzione delle preesistenti finitura e riparazioni) rientranti nell’ambito dell’attività libera ai sensi dell’art. 6 d.P.R. n. 380/2001 e comunque, al massimo, subordinati alla presentazione di D.I.A. (la cui mancanza non sarebbe sanzionabile con la misura demolitoria), mentre il manufatto in sé considerato – costituito da struttura in muratura della superficie di mq 18 e dell’altezza media di m 2,10 realizzata sul terrazzo di copertura e collegato da scala interna all’appartamento sottostante di proprietà della ricorrente – risalirebbe al periodo anteriore al 1942, ossia prima dell’entrata in vigore della disciplina dello ius aedificandi recata dalla legge urbanistica n. 1150/1942 introduttiva dell’obbligo della licenza edilizia per gli interventi nei centri abitati.

Occorre al riguardo premettere, in linea di diritto, che per la costante giurisprudenza amministrativa, in materia di abusi edilizi e del relativo regime sanzionatorio l’onere di fornire la prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia e della sua consistenza incombe sulla parte privata e non sull’amministrazione, la quale, in presenza di un’opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge. Infatti, la prova circa l’epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell’interessato, dato che solo quest’ultimo può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’addotta sanabilità del manufatto e/o del suo carattere non abusivo in ragione dell’eventuale preesistenza rispetto all’epoca dell’introduzione di un determinato regime autorizzatorio dello ius aedificandi , dovendosi in ogni caso fare applicazione del generale principio processuale per cui la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio cd. della vicinanza della prova (v. in tal senso, ex plurimis , Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2018 n. 5984).

Ebbene, nel caso di specie l’odierna appellante non ha fornito neppure un principio di prova storico-documentale di data certa in ordine alla risalenza dell’opera in questione ad epoca antecedente al 1942, a prescindere dal corretto rilievo del TAR – autonomamente sufficiente a sorreggere la statuizione reiettiva del profilo di censura all’esame – che, ai sensi del regolamento edilizio del 1935 del Comune di Napoli, comunque già prima del 1942 era richiesto un titolo edilizio.

Del pari, deve escludersi che sia assistito da prova rigorosa l’assunto della preesistenza del manufatto rispetto all’agosto 1995 (data di una denunzia penale), dovendosi per contro desumere dalle risultanze del sopralluogo effettuato il 7 luglio 2007 da agenti della polizia municipale di Napoli – nel cui corso era stato constatato che sul terrazzo di copertura dell’immobile, in aderenza al torrino della cassa scale, era stato realizzati il manufatto di mq 18 di superficie e di m 2,10 di altezza media, ancora allo stato grezzo e privo di pavimentazione – che, all’epoca, i lavori non erano ancora interamente ultimati.

Come, poi, correttamente rilevato dal TAR, anche in caso di risalenza del manufatto ed epoca anteriore all’agosto 1995 doveva comunque ritenersi necessario il permesso di costruire, in quanto:

- dalla documentazione fotografica in atti e dal verbale di sopralluogo risulta palese che il manufatto in questione, in parte in muratura, comportava un aumento di cubatura e di superficie abitabile nonché una modifica della sagoma e del prospetto dell’immobile, per cui si risolveva quantomeno in un intervento di ristrutturazione edilizia ex artt. 31, lettera d), l. n. 457//1978 e 3, comma 1, lettera d), d.P.R. n. 380/2001, se non di nuova costruzione ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.1), d.P.R. n. 380/2001, e dunque in ogni caso necessitava di permesso di costruire;

- né la struttura può essere qualificata di natura pertinenziale, poiché la nozione di pertinenza rilevante sotto il profilo urbanistico-edilizio è meno ampia di quella civilistica, atteso che, in materia urbanistico-edilizia, sono qualificabili come pertinenze solo le opere che siano prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale senza incidere sul carico urbanistico, mentre nel caso sub iudice si versa in fattispecie di aumento di volume e di superficie (v. sopra) e, quindi, del carico urbanistico, con il conseguente assoggettamento dell’intervento a permesso di costruire (v. sul punto, in fattispecie analoghe, Cons. Stato, Sez. VI, 26 settembre 2018, n. 5541;
id., 4 gennaio 2016, n. 19).

Inconcludente è l’invocazione, da parte dell’odierno appellante, della sentenza assolutoria del Tribunale di Napoli, VII Sezione penale, n. 19845/2011, in quanto:

- la stessa non è opponibile al Comune di Napoli ed è inidonea a sprigionare efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 654 cod. proc. pen. nel presente giudizio amministrativo;

- l’assoluzione si fonda, ad ogni modo, sull’applicazione della regola di giudizio sancita dall’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., propria del processo penale, mentre nel giudizio amministrativo in materia di abusi edilizi opera la diversa regola di giudizio conseguente al regime della distribuzione dell’onere della prova nel senso sopra evidenziato, per cui la prova dell’epoca di realizzazione di un’opera edilizia e della sua consistenza deve essere fornita dalla parte privata e non dall’amministrazione e il mancato assolvimento a tale onere probatorio comporta la reiezione del motivo di gravame basato sul correlativa assunto in fatto;

- nella specie, sulla base di una valutazione unitaria e complessiva di tutte le risultanze istruttorie, compiuta ai sensi degli artt. 64 cod. proc. amm. e 116 cod. proc. civ., deve escludersi che l’odierna appellante abbia fornito la prova degli assunti fatto posti a fondamento dei profili di censura all’esame.

Altrettanto correttamente il TAR ha disatteso la censura di carenza di motivazione, in quanto:

- il provvedimento di repressione di abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né occorre una previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa , e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, non potendosi ammettere l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (v. sul punto, per tutte, Ad. Plen. n. 9/2017, affermativa del seguente principio di diritto: « Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino »);

- nel caso di specie, nel gravato provvedimento di demolizione sono stati esplicitati in modo preciso ed esauriente i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche su cui esso si fonda, risultando in particolare specificate le opere abusive e la loro qualifica come opere necessitanti di permesso di costruire ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e1), d.P.R. n. 380/2001, nonchè richiamato il regime sanzionatorio ex art. 33 d.P.R. n. 380/2001.

5.2 Privo di pregio è altresì il terzo motivo d’appello sub 2.c), poiché il TAR ha fatto corretta applicazione del combinato disposto degli artt. 7 e 22- octies , comma 2, l. n. 2421/1990, risultando palese dalle considerazioni sopra svolte che deve ritenersi comprovato che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, anche in caso di tempestiva comunicazione dell’avvio del procedimento.

5.3 Per le considerazioni tutte sopra svolte, di natura assorbente, s’impone la reiezione dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza.

6. In applicazione del criterio della soccombenza, le spese del presente grado di giudizio, come liquidate nella parte dispositiva, devono essere poste a carico dell’appellante.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi