Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-11-22, n. 201705420

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2017-11-22, n. 201705420
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201705420
Data del deposito : 22 novembre 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 22/11/2017

N. 05420/2017REG.PROV.COLL.

N. 06869/2012 REG.RIC.

N. 06450/2012 REG.RIC.

N. 07146/2012 REG.RIC.

N. 07165/2012 REG.RIC.

N. 07166/2012 REG.RIC.

N. 07243/2012 REG.RIC.

N. 07245/2012 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6869 del 2012, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

i signori E G, A P, E P, E P, A P, non costituiti in giudizio;



sul ricorso numero di registro generale 6450 del 2012, proposto dalla signora Lelia Spagnuolo, rappresentata e difesa dall’avvocato A B, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Mazzitelli in Roma, via Eudo Giulioli, n. 47/B/18;

contro

il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio;

nei confronti di

il Comune di Avellino, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;



sul ricorso numero di registro generale 7146 del 2012, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

i signori C F, G R S, Massimo G S, rappresentati e difesi dagli avvocati G R S e Michele Sandulli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Massimo G S in Roma, via della Frezza, n. 59;



sul ricorso numero di registro generale 7165 del 2012, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

la signora Lelia Spagnuolo, non costituita in giudizio;



sul ricorso numero di registro generale 7166 del 2012, proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

i signori R N, L P, M N, D M, E P, A S, G S, G S, E P S, P F, A F, G S F, C F, E S, P S, R S, rappresentati e difesi dagli avvocati A B e E P S, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato E P S in Roma, via della Frezza, n. 59;



sul ricorso numero di registro generale 7243 del 2012, proposto dai signori E G, A P, E P, E P, A P, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato E P S, presso il cui studio sono elettivamente domiciliati in Roma, via della Frezza, n. 59;

contro

il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti di

il Comune di Avellino, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;



sul ricorso numero di registro generale 7245 del 2012, proposto dai signori R N, L P, M N, D M, E P, A S, G S, G S, E S, P S, R S, E P S, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato E P S, presso il cui studio sono elettivamente domiciliati in Roma, via della Frezza, n. 59;

contro

il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti di

i signori P F, G S F, A F, C F, non costituiti in giudizio;
il Comune di Avellino, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;

per la riforma:

- quanto al ricorso n. 6450 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 220 del 2012;

- quanto al ricorso n. 6869 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 168 del 2012;

- quanto al ricorso n. 7146 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 190 del 2012;

- quanto al ricorso n. 7165 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 220 del 2012;

- quanto al ricorso n. 7166 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 221 del 2012;

- quanto al ricorso n. 7243 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 168 del 2012;

- quanto al ricorso n. 7245 del 2012, della sentenza del T.a.r. Campania – sede di Salerno – Sez. II n. 221 del 2012;


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e dei signori C F, G R S, Massimo G S, R N, L P, M N, D M, E P, A S, G S, G S, E P S, P F, A F, G S F, C F, E S, P S, R S, E G, A P, E P, E P, A P;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 ottobre 2017 il Cons. D S e uditi per le parti gli avvocati Massimo G S, A B, E P S e l’avvocato dello Stato W F;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.– Con ricorso proposto avanti al Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Salerno, i comproprietari del fabbricato sito in Avellino, al corso Vittorio Emanuele, n. 182, denominato «Palazzo Carulli», impugnavano il provvedimento del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali emesso in data 23 dicembre 1994, che aveva sottoposto il predetto immobile al vincolo indiretto previsto dall’art. 21 della legge n. 1089 del 1939, deducendo motivi di violazione di legge, elusione di giudicato ed eccesso di potere sotto diversi profili.

1.1.– Con ulteriore ricorso, veniva censurato anche il decreto del 17 maggio 2000, con cui il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali irrogava nei confronti di tutti i condomini ‒ ai sensi dell’art. 131 del d.lgs. n. 490 del 1999, vigente ratione temporis ‒ la sanzione pecuniaria di lire 1.666.570.000, poiché ritenuti responsabili dell’abbattimento della facciata e della conseguente violazione degli obblighi di conservazione imposti dal provvedimento di vincolo.

A sostegno del gravame, gli istanti deducevano la violazione del contraddittorio procedimentale, l’insussistenza dei presupposti per l’irrogazione della misura sanzionatoria, il mancato accertamento dell’effettiva responsabilità dei singoli condomini quanto all’avvenuta demolizione della facciata del palazzo.

1.2.– Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Salerno, con sentenze 21 febbraio 2002, nn. 152, 153 e 154, dichiarava irricevibile il ricorso promosso avverso il decreto ministeriale del 23 dicembre 1994, in quanto tardivo;
accoglieva invece il secondo ricorso avente ad oggetto la sanzione pecuniaria, rilevando la violazione dell’art. 131, comma 5, del decreto legislativo n. 490 del 1999, vigente ratione temporis .

Le statuizione del giudice di primo grado venivano confermate da Consiglio di Stato, sia pure con diversa motivazione.

2.– In esecuzione del predetto giudicato amministrativo, veniva adottato, con decreto ministeriale 13 settembre 2011, un nuovo provvedimento sanzionatorio per il danno arrecato al patrimonio storico seguito alla demolizione di «Palazzo Carulli».

Anche quest’ultimo provvedimento ‒ impugnato da diversi condomini con distinti ricorsi ‒ veniva annullato dal Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Salerno, con sentenze nn. 168, 190, 220, 221, del 2012, con la seguente identica motivazione redatta in forma semplificata: « Osservato che l’art. 131, comma 5, del decreto legislativo n. 490/1999 si trova oggi trasfuso, con identica valenza precettiva, nell’art. 160, comma 5, del codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con decreto legislativo n. 42/2004 (cfr. Consiglio Stato, Sez. V, 13 luglio 2006 n. 4420);
Dato atto che la violazione di legge a suo tempo rilevata da questo Tribunale si è interamente riproposta nel procedimento di rinnovazione seguito ai disposti annullamenti, apparendo evidente degli atti acquisiti come l’amministrazione intimata, pur in assenza di accettazione da parte degli obbligati, si sia limitata ad applicare propri parametri interni per il calcolo della sanzione;
Ritenuta la portata assorbente del predetto rilievo, tale di per sé da condurre all’annullamento dell’atto impugnato, con assorbimento delle restanti doglianze;
Considerato, ad ogni modo, riguardo queste ultime, che, secondo la giurisprudenza amministrativa formatasi in materia illeciti puniti con sanzione pecuniaria (in particolare, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 2006 n. 4420 e Sez. IV, 2 giugno 2000, n. 3184):

- la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689, inizia a decorrere solo dalla cessazione della situazione di illiceità, sicché, vertendosi in materia di illecito permanente, la sanzione può essere irrogata anche a distanza di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo dell’esercizio del potere;

- quanto alla valutazione della colpevolezza, occorre tenere presente che la funzione della sanzione irrogata non è meramente repressiva della condotta nell’autore dell’illecito, ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi, tant’è che può essere chiamato a subire le conseguenze dell’illecito anche chi non ne sia stato l’autore materiale ».

3.– Avverso le citate sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ha proposto gli appelli nn. 6869, 7146, 7165, 7166, del 2012, chiedendo, in loro riforma, il rigetto del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

Con un unico articolato motivo di gravame, l’Amministrazione appellante premette di avere, in sede di riedizione del potere sanzionatorio, dato comunicazione dell’avvio del procedimento a tutti i condomini dello stabile, nonché di avere esplicitamente replicato alle osservazioni pervenute dagli interessati. Aggiunge che erroneamente il Giudice di prime cure ha accertato la violazione dell’art. 160, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, dal momento nessuno dei soggetti interessati aveva presentato istanza al fine dell’attivazione della Commissione prevista dalla disposizione citata.

4.‒ I signori E G, A P, E P, E P, A P si sono costituiti nel giudizio n. 6869 del 2012, chiedendo che l’appello venga respinto. Esii hanno altresì riproposto, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., i motivi non esaminati (in quanto assorbiti) nella sentenza di primo grado.

Gli appellati, in particolare, lamentano che:

- il Ministero non avrebbe considerato la ricostruzione dell’edificio e, dunque, la reintegrazione della relativa facciata, a tal punto che non sussisterebbero più i presupposti e le condizioni per l’inflizione della relativa sanzione;

- la determinazione dell’ammontare della sanzione non avrebbe seguito il procedimento prefissato dall’art. 59, comma 4, della legge n. 1089 del 1939;

- il diritto della pubblica amministrazione di riscuotere la sanzione amministrativa si sarebbe estinto per prescrizione, in quanto la situazione illecita sarebbe cessata a seguito del rilascio della concessione edilizia che ha consentito la ricostruzione della facciata dell’edificio, assicurando il rispetto dell’obbligo di conservazione mediante il ripristino integrale dell’originario impianto stilistico-architettonico;

- l’obbligazione sanzionatoria sarebbe intrasmissibile in capo agli eredi in applicazione dell’art. 7 della legge n. 689 del 1981;

- la sanzione sarebbe incongrua, in quanto gran parte della facciata sarebbe stata demolita dal Comune di Avellino, d’intesa con l’Amministrazione appellante, prima ancora dell’imposizione della tutela indiretta.

4.1.– La signora C F si è costituita nel giudizio di appello n. 7146 del 2012, proponendo appello incidentale avverso i capi della sentenza impugnata che hanno rigettato l’eccezione di prescrizione e non hanno riconosciuto la violazione dell’art. 7 della legge n. 689 del 1981, in tema intrasmissibilità agli eredi della pena.

4.2.– Nel giudizio di appello n. 7166 del 2012 si sono costituiti i signori F P, F G S, F A, Ftino Carmine, proponendo a loro volta un appello incidentale.

Con il primo motivo di appello incidentale, l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio viene argomentata sotto i seguenti profili:

- non sussisterebbero i presupposti richiesti per la configurabilità della violazione degli obblighi di protezione prescritti con il provvedimento impositivo del vincolo indiretto del 23 dicembre 2004;

- in via gradata, non sussisterebbero i presupposti richiesti per l’applicazione del quarto comma dell’art. 160 del Codice dei Beni Culturali, sul rilievo che la facciata demolita e vincolata ai sensi dell’art. 21 della legge n. 1089 del 1939 costituisce, alla luce delle stesse prescrizioni del decreto ministeriale 23 dicembre 1994, natura di bene culturale reintegrabile;

- in via ancor più gradata, andrebbe considerata l’avvenuta reintegrazione del bene culturale tutelato e, di riflesso, l’inesistenza dei presupposti e delle condizioni richiesti per l'inflizione della sanzione;

- in via ulteriormente gradata, la misura della sanzione pecuniaria inflitta sarebbe manifestamente irragionevole e incongrua.

Con gli ulteriori motivi di impugnazione incidentale, i comparenti contestano il capo della sentenza gravata che ha respinto l’eccezione di prescrizione della potestà sanzionatoria e rimarcano che la demolizione della facciata dell’edificio non sarebbe loro imputabile.

5.– Con ricorso n. 7243 del 2012, i signori Galeota Ersilia, Pacifico Attilio, Pacifico Emma, Pacifico Elvira e Pacifico Antonio hanno impugnato la sentenza del T.A.R. Salerno n. 168 del 2012, adducendo censure analoghe a quelle formulate nell’appello incidentale promosso nel giudizio di appello n. 7166 del 2012.

5.1.– Con ricorso n. 7245 del 2012, i signori R N, L P, M N, D M, E P, A S, G S, G S, E S, P S, R S, E P S, hanno impugnato la sentenza del T.A.R. Salerno n. 221 del 2012, riportando anch’essi censure analoghe a quelle formulate nell’appello incidentale promosso nel giudizio di appello n. 7166 del 2012.

5.2.– Con ricorso n. 6450 del 2012, la signora L S ha impugnato la sentenza del T.A.R. Salerno n. 220 del 2012, riproducendo motivazioni analoghe a quelle formulate nell’appello incidentale promosso nel giudizio di appello n. 7166 del 2012.

6.‒ All’udienza del 5 ottobre 2017, le cause sono state discusse e sono state trattenute per la decisione.

DIRITTO

1.– I ricorsi di appello indicati in epigrafe devono essere riuniti, trattandosi di impugnazioni proposte separatamente contro sentenze relative alla medesima vicenda.

2.– Gli appelli nn. 6869, 7146, 7165, 7166, del 2012, promossi dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, sono fondati.

2.1.– L’art. 160, comma 5, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) disciplina le conseguenze scaturenti dalla violazione degli obblighi di protezione e conservazione posti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Qualora per effetto della violazione il bene culturale subisca un danno, « il Ministero ordina al responsabile l'esecuzione a sue spese delle opere necessarie alla reintegrazione » (comma 1).

In caso di inottemperanza all’ordine di reintegrazione così impartito, « il Ministero provvede all’esecuzione d’ufficio a spese dell’obbligato » (comma 2).

Qualora invece la reintegrazione non sia possibile nella sua originaria consistenza, «il responsabile è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa (comma 4) .

Il successivo comma 5 prosegue precisando che, « s e la determinazione della somma, fatta dal Ministero, non è accettata dall’obbligato, la somma stessa è determinata da una commissione composta di tre membri da nominarsi uno dal Ministero, uno dall'obbligato e un terzo dal presidente del tribunale. Le spese relative sono anticipate dall’obbligato » (comma 5, in cui è stato trasfuso il previgente art. 131, comma 5, del D.lgs. 49011999).

2.2.‒ Il responsabile di una violazione prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, per contestare l’ammontare di una sanzione in corso di irrogazione, ha dunque la possibilità di rimettersi all’“arbitraggio” di una commissione tecnica composta da tre membri.

Si tratta di una fase procedimentale che, una volta determinata la sanzione per la violazione degli obblighi di conservazione del bene oggetto di tutela, si caratterizza come del tutto eventuale ‒ essendo rimessa all’iniziativa del soggetto tenuto al pagamento ‒ ed è unicamente indirizzata all’esatta quantificazione della misura pecuniaria (sulla natura di rimedio rimesso all’iniziativa del soggetto destinatario della sanzione, cfr. Consiglio di Stato, sentenze n. 3859 e n. 3860 del 2004).

Nel caso di specie, gli interessati non hanno invece ritenuto di attivare la sopra descritta fase amministrativa, essendosi limitati a sollevare doglianze generiche sulla lamentata incongruità della sanzione.

La determinazione unilaterale dell’importo della sanzione non è dunque censurabile sotto il profilo anzidetto.

3.‒ Accolto l’unico motivo di appello proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, il Collegio deve scrutinare i motivi dichiarati assorbiti dal giudice di prime cure e riproposti dagli appellati (cfr. la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015).

3.1.‒ I motivi riproposti possono essere trattati congiuntamente con i motivi di appello principale e incidentale, in ragione della sostanziale sovrapponibilità degli argomenti richiamati dai vari condomini.

4.– I comproprietari di «Palazzo Carulli» affermano che, contrariamente a quanto impropriamente presupposto dal Ministero, la demolizione dell’edificio non avrebbe comportato la violazione di alcuna delle prescrizioni del provvedimento impositivo della tutela indiretta.

Quest’ultimo avrebbe perseguito lo scopo di assicurare non la conservazione della facciata del palazzo, bensì il solo mantenimento delle sue qualità stilistiche e formali, che attestano e documentano il gusto architettonico dell’epoca, quali, ad esempio, «elementi lapidei di particolare pregio, ringhiere, stucchi e volute che contornano i balconi, la cui conservazione riveste, però, carattere di particolare interesse».

Gli interessati aggiungono che il decreto ministeriale del 23 dicembre 1994 sarebbe stato adottato, allorquando la facciata del palazzo, fin dall’agosto 1989, in esecuzione dell’ordinanza sindacale 2 agosto 1989, n. 350, era già stata, per la maggior parte, demolita dal Comune d’intesa proprio con l’Amministrazione appellata (interi terzo e quarto piano ed intera copertura), cosicché sarebbe gravemente incongruente un’interpretazione dell’impugnato provvedimento che postulasse la natura conservativa (piuttosto che prescrittiva) della tutela, in quanto afferente una res non più esistente e per la quale, peraltro, per espresso riconoscimento contenuto nel provvedimento impositivo del vincolo, sarebbe stata assodata l’inesistenza delle condizioni idonee a giustificare una tutela diretta.

4.1.‒ Il motivo è infondato.

4.2.‒ I monumenti storici sono radicati nello specifico luogo in cui, nelle epoche passate, furono ideati e realizzati. Influendo la “cornice” ambientale sull’aspetto esteriore e sulla capacità di tramandare il «valore tipico» di cui è portatrice ogni testimonianza materiale avente valore di civiltà, l’intervento pubblico contempla uno specifico regime di salvaguardia territoriale delle zone circostanti e limitrofe.

Le «prescrizioni di tutela indiretta» ‒ previste dall’art. 45 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel quale è rifluita, con espressioni letterali largamente coincidenti, la fattispecie sostanziale disciplinata dapprima all’art. 21 della legge n. 1089 del 1939 e poi all’art. 49 del decreto legislativo n. 490 del 1999 ‒ hanno la funzione di completamento pertinenziale della visione e della fruizione dell’immobile principale (gravato da vincolo “diretto”).

Tale tipologia di vincolo integra quindi un limite apponibile al diritto di proprietà sulla base di apprezzamenti rimessi all’autorità amministrativa competente, sia pure da contenersi secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. L’amministrazione, in particolare, « ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro » (così il già citato art. 45 del d.lgs. 42 del 2004).

La soggezione di determinati beni a previsioni di tutela indiretta ben può fare insorgere, in capo ai loro titolari, vincoli e oneri conservativi della res , nella sua integrità e originalità, sia pure di intensità attenuata rispetto ai più gravosi obblighi “positivi” (come definiti agli artt. 30, 32, 33 e 34 del d.lgs. n. 42 del 2004) che ricadono sul proprietario del bene di “diretto” interesse culturale.

4.3.‒ Ebbene, nel caso di specie, il vincolo apposto sulla facciata di «Palazzo Carulli», nell’imporre la «conservazione» delle qualità architettoniche e costruttive che documentavano il gusto architettonico dell’epoca ‒ segnatamente al fine del mantenimento del rapporto tra pieni e vuoti dei medesimi assi orizzontali e verticali delle aperture prospicienti il Corso Vittorio Emanuele, nonché della preservazione delle originarie quote delle linee di gronda e della copertura, degli aggetti e degli sporti a livello di gronda, di sottotetto e di interpiano ‒ intendeva di certo autorizzare interventi di restauro conservativo, volti cioè al consolidamento dell’organismo edilizio originario e al rinnovo dei soli elementi costitutivi dell’edificio definitivamente periti (in ragione della parziale demolizione della facciata, intervenuta precedentemente alla data di imposizione del vincolo indiretto del 23 dicembre 1994).

Il provvedimento non consentiva affatto un radicale intervento di “trasformazione” mediante demolizione e ricostruzione dell’immobile ‒ sia pure con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente ‒ il quale ne ha irrimediabilmente alterato gli autentici elementi stilistici e costruttivi.

I proprietari hanno violato anche la prescrizione che imponeva loro di presentare alla competente Soprintendenza i progetti di lavori concernenti l’immobile in questione, per il preventivo esame e parere.

5.– Con ulteriore motivo di appello, i condomini reiterano la censura di violazione dell’art. 28 della legge n. 689 del 1981, secondo cui: « il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione. L’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile ».

Nel caso di specie, la situazione di illiceità sarebbe cessata a seguito del rilascio della concessione edilizia che ha consentito la ricostruzione della facciata dell’edificio, assicurando il rispetto dell’obbligo di conservazione mediante l’integrale reintegrazione del bene tutelato costituito.

In particolare, tra la cessazione della causa di interruzione rappresentata dalla pendenza del precedente giudizio di annullamento definito dal Consiglio di Stato ‒ che è comunque successiva al rilascio della concessione edilizia che ha consentito la ricostruzione dell’edificio ‒ e il rinnovo del procedimento del vincolo (a far data dal 9 dicembre 2010), risulterebbe decorso il termine prescrizionale.

Il motivo non può essere accolto, per un duplice ordine di considerazioni.

5.1. In primo luogo, non risulta applicabile il sopra riportato art. 28 della legge n. 689 del 1981.

Esso ha previsto la regola della prescrizione quinquennale, con riferimento ad un « diritto a riscuotere le somme », per il quale è stata prevista la giurisdizione ordinaria.

Nella specie, invece, l’Amministrazione statale è titolare di un potere, per il quale vi è la posizione correlativa dell’interesse legittimo, con la conseguente giurisdizione amministrativa.

Poiché la prescrizione è un istituto riguardante il « diritto » e non l’esercizio del potere autoritativo (rispetto al quale la legge non ha previsto alcun termine di decadenza), la censura va respinta.

5.2.– In secondo luogo, si deve rilevare come la dottrina e la giurisprudenza abbiano evidenziato, nell’ambito delle misure amministrative ad effetti limitativi della sfera giuridica, una netta cesura (non solo tipologica ma finanche) sistematica tra sanzione “in senso stretto” e sanzione “in senso lato”, assegnando alle due categorie di sanzioni un diversificato apparato di garanzie sostanziali, procedimentali e giurisdizionali.

La sanzione in senso stretto, ovvero la sanzione pecuniaria disciplinata dalla legge n. 689 del 1981, costituisce reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto cui è estranea qualunque finalità ripristinatoria o risarcitoria ed è inflitta nell’esercizio di un potere punitivo avente ad oggetto condotte, come avviene quando decide il giudice penale.

A questa stregua, la commisurazione della misura afflittiva avviene attraverso un potere «ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa, che presuppone una ponderazione di interessi», atteso che «l’ampio margine di apprezzamento lasciato dalla legge all’amministrazione» dovrebbe essere «esclusivamente utilizzato per adeguare la sanzione alla gravità della violazione commessa ed alle condizioni soggettive dell’autore, restando escluso ogni giudizio di valore sugli interessi amministrativi tutelati dalla norma sanzionatoria» (Cass., sez. I, 14 novembre 1992, n. 12240, e Cass., sez. I, 15 dicembre 1992, n. 13246).

Sul piano delle situazione giuridiche soggettive, tale discrezionalità (esercitata sulla base di criteri diversi, che prescindono dalla valutazione di qualsiasi interesse pubblico) fronteggia posizioni che – anche ai fini della giurisdizione – sono qualificabili di diritto soggettivo alla “integrità patrimoniale”.

Sotto altro profilo, la sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo).

Sull’altro versante, le residue sanzioni (“senso lato”) non ricomprese nella species appena delineata, alle quali si riconducono tradizionalmente le “sanzioni ripristinatorie” ed interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni amministrative in senso stretto, altrimenti rientrando nella disciplina di cui all’art. 20, legge n. 689 del 1981), costituiscono una manifestazione tipica di potere amministrativo autoritativo, in relazione al quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.

A tali sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo), pure quando esse abbiamo carattere marcatamente punitivo.

La distinzione sopra delineata – desumibile dalla normativa nazionale - risulta coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Proprio in considerazione dei principi da essa affermati in tema di qualificazione sostanziale della ‘pena’ ( ex plurimis sentenze 8 giugno 1976, Engel c. Olanda;
26 marzo 1982, Adolf c. Austria, § 30;
9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, § 27;
25 agosto 1987, Lutz c. Germania, § 54;
21 febbraio 1984, Ök c. Germania, § 50;
22 febbraio 1996, Putz c. Austria, § 31;
21 ottobre 1997, Pierre-Bloch c. Francia, § 54;
24 settembre 1997, Garyfallou AEBE c. Grecia, § 32), la Corte di Strasburgo ha precisato che non si configurino come ‘penali’, nel significato convenzionale del termine, quelle misure che soddisfano pretese risarcitorie o che sono essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità, restaurando l’interesse pubblico leso (sentenza 7 luglio 1989, Tre Traktörer Aktiebolag c. Svezia, § 46).

Anche la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 276 del 2016, in tema di sospensione di una carica prevista dal d.lgs. n. 235 del 2012) ha affermato principi da cui si desume la distinzione sopra delineata.

In relazione a ‘conseguenze amministrative’ della commissione di un reato, la Corte, infatti, ha concluso nel senso che dal quadro delle garanzie previste dalla CEDU - come interpretate dalla Corte di Strasburgo - non è ricavabile un vincolo ad assoggettare una misura amministrativa cautelare, quale la sospensione dalle cariche elettive in conseguenza di una condanna penale non definitiva, al divieto convenzionale di retroattività della legge penale, motivando proprio in ragione della natura non punitiva della misura amministrativa sottoposta alla sua attenzione.

5.3.‒ La misura sanzionatoria in esame, prevista dall’art. 160, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, non ha carattere meramente affittivo e punitivo, bensì ripristinatorio.

Pertanto, essa sfugge all’applicabilità della legge n. 689 del 1981 e della invocata norma che regola la prescrizione del diritto a riscuotere gli importi per le sanzioni in senso stretto (art. 28).

Come osservato da questo Consiglio di Stato (sentenza, sez. VI, 20 ottobre 2005, n. 5904), «di norma il potere amministrativo non è soggetto a prescrizione, ma, al più, a decadenza… Se la legge non prevede termini di decadenza, si deve ritenere che il potere non sia soggetto ad alcun termine (art. 2964 c.c. stabilisce che la decadenza deve essere espressamente prevista dalla legge)».

Nella fattispecie normativa in esame, il potere sanzionatorio è esercitato in surroga del potere ripristinatorio, per cui - come quest’ultimo può essere azionato senza termine - così anche la correlativa “reintegrazione per equivalente” può sempre essere irrogata nel caso in cui il ripristino non risulti possibile.

5.4‒ Peraltro, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti aventi per oggetto l’alterazione del territorio, per ogni suo profilo (con riferimento non solo agli aspetti urbanistici, edilizi e paesistici, ma anche a quelli della integrità degli immobili facenti parte del patrimonio culturale della Nazione): essi, non solo quando consistano nella realizzazione di opere senza le necessarie concessioni e autorizzazioni, ma anche quando abbiano comportato l’alterazione o la distruzione di beni facenti parte del patrimonio culturale, hanno carattere di illeciti permanenti.

In tali casi, protraendosi la verificazione dell’evento in ogni momento della durata del danno e della condotta che lo produce, la prescrizione – dovendo comunque esservi una regola residuale nel caso di inerzia dell’Amministrazione - ricomincia a decorrere ogni giorno successivo a quello in cui il danno si è manifestato per la prima volta, fino alla cessazione degli effetti della predetta condotta dannosa (che ha luogo quando vi è stato il ripristino dello stato dei luoghi).

Non si applicano dunque le disposizioni della legge n. 689 del 1981, rilevanti per altre tipologie di illeciti.

6.– Le ragioni esposte ai punti precedenti sul regime giuridico delle sanzioni ripristinatorie, consentono di rigettare l’ulteriore ordine di motivi incentrati sull’intrasmissibilità dell’obbligazione di pagare in capo agli eredi (in applicazione dell’art. 7 della legge n. 689 del 1981), e sulla non imputabilità della demolizione (essendo quest’ultima già avvenuta per la maggior parte, ad opera del Comune di Avellino, d’intesa e di concerto con la Soprintendenza, per ragioni di tutela della pubblica e privata incolumità).

6.1.‒ Quanto alla posizione degli eredi, va anche rimarcato che sono destinatari dell’ordine di ripristino tutti coloro che hanno un rapporto qualificato con il bene vincolato, siano essi proprietari, possessori o detentori di terreni (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 ottobre 2010, n. 7635).

6.2.‒ Con riguardo invece all’estraneità all’illecito dell’avvocato A S (invocata dai suoi eredi) ‒ in quanto le delibere condominiali del 25 novembre 1997 e del 10 gennaio 1998 sarebbero state «assunte dai partecipanti in assenza di una volontà espressa favorevole del dante causa poiché non ha partecipato alle sedute assembleari» ‒ va rilevato come, ai sensi dell’art. 1137 c.c., « le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini ». Avverso le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio « ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti ».

Non risulta che a suo tempo il dante causa abbia preso tale iniziativa.

7.– Sono invece parzialmente fondati i motivi di appello che lamentano l’incongruità della sanzione.

7.1.‒ In termini generali, la misura della sanzione pecuniaria, comminabile ai sensi dell’art. 160, del d.lgs. n. 42 del 2004, è espressione di esercizio di discrezionalità tecnica, sicché la medesima può essere contestata solo per manifesta irragionevolezza o illogicità, nella specie insussistenti (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 ottobre 2010, n. 7635).

L’Amministrazione, nel determinare il «valore della cosa perduta», deve, secondo i principi generali di ragionevolezza e gradualità, avere riguardo alla gravità della violazione e all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze.

7.2.‒ Nel caso di specie, l’Amministrazione ha congruamente determinato l’importo corrispondente al valore del bene culturale, irrimediabilmente compromesso a seguito della demolizione dell’edificio vincolato.

Tuttavia, ha un rilievo obiettivo il fatto che la ricostruzione dell’edificio, con relativa facciata, è nel frattempo avvenuta nel rispetto ‒ secondo quanto sostengono i condomini senza contestazione di controparte ‒ dell’impronta stilistica originaria.

Il Ministero avrebbe dovuto tener conto di tale circostanza: non vi è stata una demolizione fine a se stessa, né una ricostruzione tale da far perdere perfino le tracce e la memoria del precedente edificio vincolato: per la sua oggettiva consistenza, i condomini – sulla base di un titolo edilizio – hanno realizzato un manufatto che evoca le fattezze dell’edificio vincolato, di cui in qualche modo continuerà a perpetuarsi la memoria, sia pure in assenza delle sue originarie parti strutturali.

In altri termini, si sarebbe dovuta constatare una sostanziale attenuante della oggettiva gravità di quanto accaduto.

7.3.– La fondatezza del mezzo di impugnazione relativo alla quantificazione della somma dovuta dai proprietari, a ristoro del danno al patrimonio storico-artistico, comporta di necessità l’annullamento del decreto gravato, nella parte in cui ha quantificato la somma dovuta.

In sede di esecuzione del giudicato, competerà alla amministrazione effettuare nuovamente il calcolo, prendendo come base l’importo già determinato e valutando – sulla base della comparazione della originaria facciata dell’edificio e di quella successivamente realizzata – entro quali limiti (comunque non eccedente un terzo) possa esservi una riduzione dell’importo.

In ragione del carattere specialistico della valutazione e in assenza di un quadro di riferimento edittale, il Collegio ritiene di non fare applicazione del potere sostitutivo previsto dall’art. 134, comma 1, lettera c), c.p.a.

8.‒ Le spese del doppio grado di lite sono interamente compensate tra le parti, in considerazione dell’accoglimento parziale.

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