Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2019-05-17, n. 201903195

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2019-05-17, n. 201903195
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201903195
Data del deposito : 17 maggio 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 17/05/2019

N. 03195/2019REG.PROV.COLL.

N. 10503/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO I

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10503 del 2011, proposto dal Comune di Alliste, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato A D, con domicilio eletto presso lo studio Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini n. 30,

contro

i signori F C, M C, A C, a mezzo del procuratore speciale B S, L E C, M C e V C, rappresentati e difesi dall’avvocato P N, con domicilio eletto presso l’avv. Marco Gardin in Roma, via Laura Mantegazza, n. 24,

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della Puglia, Sezione staccata di Lecce, Sezione I, n. 1913/2011, resa tra le parti, concernente la procedura espropriativa di aree per la realizzazione di opere stradali.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dei signori M C, A C, F C, a mezzo del procuratore speciale B S, L E C, M C e V C;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 aprile 2019 il Cons. C A e uditi per le parti gli avvocati De Robertis su delega di Distante e P. Nicolardi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con decreto del 19 febbraio 1988, notificato il 20 febbraio 1988, il Comune di Alliste ha disposto l’occupazione d’urgenza dei terreni di proprietà di L E C, M C, V C, A C ed E C, in particolare di una porzione di terreno di 645 metri quadri, della particella 1090 del foglio 18, per la sistemazione di strade interne della frazione di Felline, il cui il progetto esecutivo era stato approvato con delibera consiliare n. 146 del 17 giugno 1985 e la perizia di variante e il piano particellare di esproprio con delibera di Giunta del 19 ottobre 1987. Le opere, consistenti nella realizzazione della sede stradale, sono state terminate al 30 aprile 1988, mentre non è stata mai completata la procedura espropriativa.

Con istanza del 7 ottobre 1999 le proprietarie hanno chiesto la restituzione del bene.

Successivamente, con ricorso notificato il 20 luglio 2001, hanno proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, impugnando il decreto di occupazione d’urgenza sostenendone la illegittimità, in quanto privo del termine di inizio e fine lavori, e chiedendo la restituzione del terreno e “ in subordine ” nella epigrafe e nelle conclusioni del ricorso “ il risarcimento dei danni ingiusti conseguenti all’illecito comportamento nonché all’occupazione d’urgenza e a tutta la procedura espropriativa disposta dal Comune di Alliste nei confronti della predetta area e consistenti nel valore di mercato del bene o, in subordine, nel valore da determinarsi ai sensi del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge, 8 agosto 1992, n. 359, oltre interessi e rivalutazione monetaria ”, quantificando, altresì, la somma risarcitoria di £ 97.500.000, “ quale valore di mercato del bene ” o in subordine ai sensi del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992.

In primo grado il Comune aveva eccepito l’irricevibilità delle censure relative alla mancanza dei termini del decreto di occupazione d’urgenza, nonché, rispetto alla domanda di restituzione, l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica e la prescrizione della domanda risarcitoria.

Nel corso del giudizio di primo grado si sono costituiti gli eredi della signora E C, nel frattempo deceduta, F e M C.

La sentenza ha dichiarato irricevibile per tardività la impugnazione del decreto di occupazione, accogliendo invece la domanda di restituzione del terreno, unitamente al risarcimento del danno per la illegittima occupazione (quantificandolo sulla base del criterio del 5% annuo del valore venale del bene oggetto di occupazione), escludendo il danno per la perdita del bene, avendo accolto la domanda di restituzione.

Con l’atto di appello il Comune ha proposto i seguenti motivi:

- difetto di giurisdizione in quanto il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la propria giurisdizione sulla domanda di annullamento del decreto di occupazione (dichiarata irricevibile) mentre si trattava di una domanda di accertamento della carenza di potere espropriativo;

- erroneità della sentenza rispetto alla domanda restitutoria in relazione alla avvenuta irreversibile trasformazione del bene, essendosi la vicenda svoltasi interamente in epoca anteriore alla entrata in vigore del Testo unico n. 327 dell’8 giugno 2001;

- vizio di ultrapetizione con riguardo alla domanda risarcitoria proposta dalla parte ricorrente solo in via subordinata e comunque per la mancanza della domanda di risarcimento danni per la illegittima occupazione accolta dal giudice di primo grado;
con tale motivo di appello si contesta che il giudice di primo grado ha condannato sia alla restituzione che al risarcimento, mentre la domanda risarcitoria era formulata in via subordinata;
inoltre la domanda risarcitoria proposta faceva riferimento solo alla perdita del bene e non alla illegittima occupazione. Comunque, rispetto alla domanda di risarcimento del danno per illegittima occupazione, viene riproposta la eccezione di prescrizione per il periodo dal 1993 al 1996, in quanto l’azione giudiziaria è stata intrapresa nel 2001 e la istanza del 7 ottobre 1999 riguardava solo la restituzione.

Si sono costituiti in giudizio i signori A C, L E C, M C, V C, B S, quale procuratore speciale di F C e M C contestando la fondatezza dell’appello.

Con ordinanza cautelare del 31 gennaio 2012 è stata respinta la domanda di sospensione della sentenza.

Nelle memorie depositate per l’udienza pubblica le parti hanno insistito per la fondatezza delle rispettive posizioni.

All’udienza pubblica del 9 aprile 2019 l’appello è stato trattenuto in decisione.

Ritiene il Collegio, in primo luogo, l’inammissibilità del motivo di appello proposto con riferimento al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Infatti, tale questione viene sollevata con riguardo alla domanda relativa alla impugnazione del decreto di occupazione d’urgenza, dichiarata irricevibile dal giudice di primo grado con un capo di sentenza non impugnato. La parte appellante non ha dunque alcun interesse a sollevare una questione di giurisdizione su una domanda per cui è rimasta vittoriosa in appello e non oggetto di cognizione in appello.

In ogni caso sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, in base al consolidato orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione ribadito, anche di recente, per cui la controversia avente ad oggetto la restituzione di un suolo, ovvero il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del medesimo, occupato d’urgenza, in forza di una dichiarazione di pubblica utilità e/o di indifferibilità e urgenza, ancorché illegittima perché priva dei termini iniziale e finale dei lavori, e in mancanza del completamento delle procedure di esproprio, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, stante il collegamento della realizzazione dell’opera fonte di danno con la dichiarazione suddetta, senza che rilevi la qualità del vizio da cui sia affetta quest’ultima, in quanto il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione oggetto della domanda, è la conseguenza di un assetto di interessi conformato da un originario provvedimento ablativo, espressione di un potere amministrativo in concreto esistente, riguardante l’individuazione e la configurazione dell’opera pubblica sul territorio, cui la condotta successiva, anche se illegittima, si ricollega in senso causale (Cass. civ., Sez. Unite, 28 marzo 2019, n. 8675;
id., 29 gennaio 2018, n. 2145;
id., 16 aprile 2018, n. 9334;
id., 25 luglio 2016, n. 15284).

Con riferimento al secondo motivo di appello, con cui si deduce l’avvenuta interversione del possesso con conseguente prescrizione anche del diritto al risarcimento, deve essere richiamata la giurisprudenza ormai consolidata della Cassazione, sulla base della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per cui è stato del tutto superato nell’ordinamento l’istituto dell’accessione invertita in tutte le sue sfumature e variabili giurisprudenziali, essendo venuta meno, in quanto non compatibile con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, la possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. possa derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato. Caduto tale presupposto, diviene applicabile lo schema generale degli artt. 2043 e 2058 c.c., il quale non solo non consente l’acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, ma attribuisce al proprietario, rimasto tale, la tutela reale e cautelare apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell’ordinamento (restituzione, riduzione in pristino stato dell’immobile, provvedimenti di urgenza per impedirne la trasformazione, ecc.) oltre al consueto risarcimento del danno, ancorato ai parametri dell’art. 2043 c.c.. Trattandosi sempre di un’ipotesi d’illecito permanente, lo stesso viene a cessare, solo, per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente (Cass. civ., Sez. Unite, 19 gennaio 2015, n. 735;
Cass. civ., Sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961).

La realizzazione di un’opera pubblica su un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, dunque, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, ed è, come tale, inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà in favore della P.A., in tal senso deponendo la costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha affermato la contrarietà alla convenzione dell’istituto della cosiddetta espropriazione indiretta e negato la possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento ablatorio;
a questa conclusione induce altresì il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 42 bis , norma applicabile anche con riguardo ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore. La necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in buona e debita forma, comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicché il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente (cfr., da ultimo, Cass. civ., Sez. I, ord. 6 marzo 2019, n. 6526).

In senso analogo si è espresso anche il Consiglio di Stato, per cui dopo le pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 43 del d.P.R., 8 giugno 2001, n. 327, da parte della Corte Costituzionale (sentenza 8 ottobre 2010, n. 293), il modello dell’accessione invertita non può essere più applicato, mentre l’irreversibile trasformazione del bene illegittimamente occupato è stata ricostruita in termini di illecito di natura permanente, il quale perdura fino a quando non venga o rimosso il manufatto, con la conseguenza che il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria decorre dal momento di cessazione dell’illecito Una volta esclusa l’ “accessione invertita”, l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica, non elide affatto il diritto di proprietà del privato sul bene illegittimamente occupato, per cui egli può sempre domandare sia il risarcimento che la restituzione del fondo (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 2 settembre 2011, n. 4970;
id., 29 agosto 2012, n. 4650). Nell’attuale quadro normativo, l’Amministrazione ha infatti l’obbligo giuridico di far venir meno, in ogni caso, l’occupazione sine titulo e, quindi deve adeguare la situazione di fatto a quella di diritto attraverso l’emanazione di legittimi provvedimenti ablatori, o di contratti di acquisto delle relative aree, ovvero di provvedimenti di acquisizione ex art. 42 bis del T.U. n. 327 del 2001. La P.A. in sostanza ha perciò due sole alternative: o restituisce i terreni ai titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la completa riduzione in pristino allo status quo ante ;
oppure si attiva per acquisire un legittimo titolo di acquisto dell’area da parte del suo legittimo proprietario (Consiglio di Stato, Sez. IV, 25 gennaio 2018, n. 500).

Sulla base di tali coordinate giurisprudenziali, deve essere confermata la sentenza impugnata per quanto riguarda l’obbligo di restituzione del bene, in quanto per la ormai costante giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato, sulla base delle indicazioni della Corte europea dei diritti dell’Uomo, non può operare nell’ordinamento alcun trasferimento di proprietà in assenza di titolo, pena il contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, tranne nelle specifiche ipotesi dell’art. 42 bis del T.U. n. 327 del 2001, il cui procedimento, nel caso di specie, in base agli atti di causa, non risulta avviato dal Comune. Nel caso di specie, non si può dunque essere verificato alcun trasferimento della proprietà con la conseguenza che alla parte privata spetta la restituzione del bene, avendo la stessa richiesto il risarcimento per equivalente (per la perdita del bene) solo in via subordinata e non potendosi, quindi configurare la rinuncia “abdicativa” al diritto di proprietà.

Deve essere, invece, accolto il motivo di appello relativo al vizio di ultrapetizione per avere il giudice di primo grado condannato al risarcimento del danno da illegittima occupazione in mancanza della relativa domanda e comunque in presenza di una domanda in via subordinata.

Non si può, infatti, ritenere che nel ricorso di primo grado fosse stata proposta una autonoma domanda di risarcimento danni per la illegittima occupazione.

Infatti, solo nelle epigrafe e nelle conclusioni del ricorso è contenuto un riferimento del tutto generico all’occupazione, in particolare chiedendo “ il risarcimento dei danni ingiusti conseguenti all’illecito comportamento e/o occupazione e/o acquisizione ” dell’area da parte del Comune di Alliste, facendo sempre riferimento al valore di mercato del bene o, in subordine, al valore da determinarsi ai sensi del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, oltre interessi e rivalutazione monetaria, quantificando, altresì, la somma risarcitoria di £ 97.500.000, “ quale valore di mercato del bene ” o in subordine, ai sensi del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992.

Da tale generica indicazione non si può ritenere proposta una domanda di risarcimento dei danni subiti per il periodo di illegittima occupazione;
anche il riferimento al valore venale del bene e la quantificazione della somma con riferimento al valore di mercato del bene e ancora di più il richiamo al comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992 indicano chiaramente che la domanda riguarda il danno per la perdita del bene, proposta, nel caso di specie, in via subordinata rispetto a quella di restituzione e comunque alternativa a quella di restituzione.

Peraltro, se la domanda risarcitoria non fosse stata proposta in via subordinata avrebbe integrato, in base alla consolidata giurisprudenza, la rinuncia abdicativa alla proprietà dell’area (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 2 del 9 febbraio 2016;
sez. IV, 7 novembre 2016 n. 4636;
Cass. civ., Sez. Unite, n. 735 del 19 gennaio 2015).

Inoltre, nel corpo dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, viene fatto esclusivo riferimento al danno per la perdita della proprietà del bene, quantificandolo sempre nel valore venale dello stesso o tramite l’applicazione del comma 7 bis dell’art. 5 bis della legge n. 359 del 1992, che riguardava i criteri di liquidazione del danno per la perdita del bene dovuta all’effetto dell’accessione invertita.

Alcun riferimento è quindi contenuto nel ricorso introduttivo del giudizio al danno derivante dalla occupazione protrattasi illegittimamente dopo la scadenza del termine di occupazione legittima, né una tale domanda è stata introdotta nel giudizio di primo grado successivamente, con motivi aggiunti.

La domanda per il periodo di illegittima occupazione ha presupposti diversi e autonomi rispetto a quella per la perdita del bene, riguardando quest’ultima la perdita del terreno, incompatibile con la domanda di restituzione, l’altra i danni derivanti dal mancato godimento del terreno, configurabili dal momento della materiale occupazione ovvero della scadenza del termine per l’occupazione legittima fino al momento della restituzione e proponibile anche insieme alla domanda di restituzione del bene. Inoltre, con riferimento a tali domande decorre, altresì, un diverso termine di prescrizione;
in particolare per il danno da occupazione legittima, relativo ai danni subiti per la perdita delle utilità ricavabili dal terreno, la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità (Cass. civ., Sez. Unite,19 gennaio 2015, n. 735;
Consiglio di Stat,o Sez. IV, 7 novembre 2016, n. 4636;
di recente Cons. giust. amm. reg. sic., 25 marzo 2019, n. 255).

Ne deriva che tale richiesta non si può ritenere compresa nella generica formula contenuta nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ma avrebbe dovuto essere oggetto di una autonoma domanda risarcitoria.

In ogni caso, se anche tale domanda si ritenesse compresa nella domanda risarcitoria proposta, questa è stata espressamente subordinata alla restituzione, con la conseguenza che il giudice di primo grado non avrebbe dovuto comunque esaminarla a seguito dell’accoglimento della domanda di restituzione.

Per costante giurisprudenza, l’art. 112 c.p.c., in base al quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, deve intendersi violato ove il giudice alteri petitum e causa petendi pronunciandosi in merito ad un bene diverso da quello richiesto, nemmeno compreso implicitamente nella domanda o qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo una causa petendi nuova e diversa rispetto a quella contenuta nella domanda (Consiglio di Stato, sez. V, 11 aprile 2016, n. 1419;

Sez. IV, 11 gennaio 2019, n. 257).

Ritiene, dunque, il Collegio, nel caso di specie, la sussistenza del vizio di ultrapetizione del giudice che ha condannato al risarcimento del danno per il mancato godimento del bene in mancanza di una specifica domanda in tal senso.

L’appello sotto tale profilo è fondato e deve essere accolto con annullamento della sentenza di primo grado limitatamente a tale capo. La stessa sentenza deve essere confermata per la restante parte.

In considerazione della parziale soccombenza le spese del giudizio possono essere compensate.

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