Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2021-04-20, n. 202103182
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Pubblicato il 20/04/2021
N. 03182/2021REG.PROV.COLL.
N. 05714/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5714 del 2020, proposto dalla società ---OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato L T, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
il Ministero dell’Interno e l’ Ufficio territoriale di Governo - Prefettura di Milano, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, nonché,
nei confronti
della ---OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, sede di Milano, sez. I, ---OMISSIS-, che ha respinto il ricorso proposto avverso l’interdittiva antimafia adottata dalla Prefettura di Milano con il provvedimento n. ---OMISSIS-.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto in costituzione del Ministero dell’Interno - UTG Prefettura di Milano;
Vista la memoria depositata dal Ministero dell’Interno - UTG Prefettura di Milano in data 3 gennaio 2021;
Viste le memorie depositate dall’appellante---OMISSIS- in date 26 gennaio 2021 e 17 febbraio 2021;
Relatore nell’udienza del giorno 18 febbraio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, il Cons. Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
Visti tutti gli atti della causa;
FATTO
1. La---OMISSIS- è un operatore economico nel settore della fabbricazione e commercializzazione dei prodotti in plastica e detiene due stabilimenti in Italia (uno a ---OMISSIS-
Ha impugnato dinanzi al Tar Lombardia, sede di Milano, con un primo ricorso (rg. ---OMISSIS-), l’informativa interdittiva antimafia adottata dalla Prefettura di Milano con il provvedimento n. ---OMISSIS-;con un secondo ricorso (rg. ---OMISSIS-), il provvedimento della ----OMISSIS-, che aggiornava d’ufficio il Registro delle Imprese dando notizia della cessazione dell’attività di commercio da parte della ---OMISSIS-con un terzo ricorso (rg. ---OMISSIS-), il provvedimento di rigetto dell’istanza di revisione in via di autotutela dell’informativa interdittiva antimafia adottata dalla Prefettura di Milano con il provvedimento n. ---OMISSIS-, rigetto avvenuto con il provvedimento n. ---OMISSIS-.
Ha dedotto che l’informativa interdittiva sia stata emessa sulla base di un quadro probatorio inadeguato e non sufficientemente motivato, in relazione alla sussistenza di un pericolo di infiltrazione mafiosa nell’attività della società interdetta.
I rapporti familiari richiamati a fondamento del provvedimento dell’autorità prefettizia sarebbero frutto di mere congetture da parte dell’amministrazione, non consentendo di rilevare un reale pericolo di condizionamenti mafiosi in capo alla---OMISSIS-.
In relazione al provvedimento di aggiornamento del Registro delle Imprese adottato dalla Camera di Commercio, la società ha lamentato che esso sia il risultato di un’illegittima determinazione da parte dell’amministrazione, che non sarebbe stata legittimata a provvedere d’ufficio a constatare la cessazione dell’attività della società, in quanto questo atto era la conseguenza di un’interdittiva adottata illegittimamente e, dunque, anche l’aggiornamento del Registro era da considerarsi illegittimo, in via derivata.
Il provvedimento della Camera di Commercio, secondo la società, era viziato anche di illegittimità propria, perchè adottato in un contesto che esorbitava il campo applicativo dell’interdittiva antimafia, che non abbraccia ogni ambito economico in cui opera la società interdetta.
In merito al diniego dell’intervento in autotutela dell’amministrazione, la ricorrente lamentava come, a fondamento del provvedimento originario, vi fossero dei reati o dei procedimenti penali che erano avvenuti molto in là nel tempo e che portavano ad un quadro probatorio molto incerto che l’amministrazione avrebbe dovuto rivedere annullando d’ufficio l’informativa interdittiva.
2. Con sentenza ---OMISSIS-, la sez. I del Tar Milano ha respinto i ricorsi. Ha ritenuto il quadro probatorio fornito dalla Prefettura esaustivo dei rapporti parentali e di amicizia posti a fondamento dell’interdittiva, oltre che dei significativi rapporti di cointeressenza economica esistenti fra la società interdetta ed altre società, parimenti interdette, da parte delle Forze dell’Ordine.
3. La sentenza del Tar Milano è stata impugnata con appello notificato e depositato in data 15 luglio 2020 deducendone l’erroneità per non aver evidenziato le carenze istruttorie del provvedimento prefettizio.
4. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e la Prefettura-U.T.G. di Milano, che hanno sostenuto l’infondatezza dell’appello.
5. La ---OMISSIS-non si è costituita in giudizio.
6. All’udienza del 18 febbraio 2021, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Come esposto in narrativa, la ---OMISSIS-società operante nel settore del commercio all’ingrosso di materie prime, semilavorate e prodotti finiti in plastica, carta e materiali affini, ha impugnato la sentenza del Tar Milano ---OMISSIS-, che aveva respinto i motivi proposti avverso l’interdittiva antimafia, adottata dalla Prefettura di Milano con provvedimento n. ---OMISSIS-.
Con diverso appello (rg. n. 5674 del 2020) - respinto con sentenza n. 1827 del 3 marzo 2021 - ha altresì impugnato la sentenza, dello stesso Tar Milano, n. 1285 del 2020, che aveva respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento dirigenziale prot. ---OMISSIS-, con il quale la Città Metropolitana di Napoli aveva revocato l’autorizzazione unica ambientale n. ---OMISSIS-per lo stabilimento di ---OMISSIS-, nonché il provvedimento dirigenziale n. 171 del 2020, con il quale il Comune di ---OMISSIS- d’Arco aveva revocato l’autorizzazione unica ambientale n. 5 del 22 novembre 2018, sempre relativa allo stabilimento di ---OMISSIS-, revoche entrambe disposte in conseguenza dell’interdittiva antimafia.
2. L’appello non è suscettibile di positiva valutazione alla luce dei principi espressi dalla Sezione, che brevemente si richiamano, anche al fine di superare l’ultimo motivo relativo alla compatibilità, rispetto al diritto costituzionale, comunitario e alla Cedu, della informativa prefettizia cd. generica.
Il Collegio non ignora che voci fortemente critiche si sono alzate rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, ric. n. ---OMISSIS-), riguardante le misure di prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’“onda lunga” di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia generica, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011.
Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.
L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 – ma con un ragionamento applicabile anche alla seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso Codice, laddove si riferisce a non meglio precisati “concreti elementi” – non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.
Questo Collegio ritiene, alla stregua di quanto già affermato dalla Sezione (5 settembre 2019, n. 6105), che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, Cedu, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.
Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui ha sede l’impresa o in altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (v. anche art. 91, comma 4), “eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate” e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo.
Nella stessa sentenza ---OMISSIS-, sopra ricordata, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che “mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze”, conseguendone che “molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica” (§ 107), e ha precisato altresì che “una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità” (§ 108).
Ora, non si può negare che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, come si è visto, abbia fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 30 novembre 2017, dep. 4 gennaio 2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a verificare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame. Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi. Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza ---OMISSIS-, consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legittimità sostanziale. Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché “il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una ‘condizione’ personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale” (Cass. pen., sez. II, 9 luglio 2018, n. 30974).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha così enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 e con uno sforzo ‘tassativizzante’ – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti ‘indici’ o ‘spie’ dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli. Basti qui ricordare a mo’ di esempio, nell’ambito di questa ormai consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso: a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta;c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011;d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi;e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, recentemente evidenziate in pronunzie di questa Sezione, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa;h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
Come condivisibilmente affermato nella sentenza 5 settembre 2019, n. 6105, deve essere riaffermato, e con forza, che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie. La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico, garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato, per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti.
Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio di Stato non osta nemmeno l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019, orientamento di cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia, occorre dare qui conto.
Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, infatti, allorché si versi – come nel caso di specie – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base “dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione”. Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. V, 26 novembre 2011, G c. Bulgaria;id., sez. I, 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi;id. 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
Nel caso di specie, non si può dubitare che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consenta ragionevolmente di prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un qualsivoglia vantaggio per la propria attività. Né elementi di segno diverso sul piano della tassatività sostanziale, per di più, si traggono dalla ancor più recente sentenza n. 195 del 24 luglio 2019, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale l’art. 28, comma 1, d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., laddove la Corte costituzionale ha rilevato che, mentre per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale occorre che gli elementi in ordine a collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come “concreti, univoci e rilevanti” (art. 143, comma 1, del T.U.E.L.), invece, quanto alle “condotte illecite gravi e reiterate”, di cui al comma 7-bis censurato avanti alla Corte, è sufficiente che risultino mere “situazioni sintomatiche”, sicché il presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio “è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi, ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del potere governativo di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, pur essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice procedimentale”.
Non è questo il caso, invece, dell’informazione antimafia, anche quella emessa ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011, poiché gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso devono essere sempre concreti, univoci e rilevanti, come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente chiarito. Anzi proprio la sentenza n. 195 del 24 luglio 2019 della Corte costituzionale sembra confermare sul piano sistematico, a contrario, che l’infiltrazione mafiosa ben possa fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, dotati di coerenza e significatività, quali enucleati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sì che venga soddisfatto il principio, fondamentale in ogni Stato di diritto come il nostro, secondo cui ogni potere amministrativo deve essere “determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”, per usare le parole della Corte costituzionale (sent. n. 195 del 24 luglio 2019, appena citata, che richiama la sentenza n. 115 del 7 aprile 2011 della stessa Corte costituzionale sull’art. 54, comma 4, del T.U.E.L.)
Ritiene questo Collegio che, alla luce di quanto si è chiarito, siano così soddisfatte le condizioni di tassatività sostanziale, richieste dal diritto convenzionale e dal diritto costituzionale interno, e indefettibili anche per la delicatissima materia delle informazioni antimafia a tutela di diritti fondamentali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte costituzionale nella propria costante giurisprudenza ribadiscono. La tassatività sostanziale, come appena ricordato nella citazione della giurisprudenza costituzionale, ben si concilia con la definita (dalla stessa Corte costituzionale) “elasticità della copertura legislativa”, giacché, come sopra detto, nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale.
Parimenti ritiene sempre questo Collegio che il criterio del “più probabile che non” soddisfi, a sua volta, le indeclinabili condizioni di tassatività processuale, pure menzionate dalla Corte costituzionale nella già richiamata sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, afferenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e “riconducibili a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un ‘giusto processo’ ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU […] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione” (Corte cost. 27 febbraio 2019, n. 24).
Lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”, nel richiedere la verifica della c.d. probabilità cruciale, impone infatti di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483), non richiedendosi infatti, in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.
Per queste ragioni il Collegio non può che ribadire il proprio orientamento, già riaffermato nella sentenza n. 758 del 30 gennaio 2019, senza dover rimettere la questione di legittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, per violazione degli artt. 1 Prot. add. CEDU, art. 2 Prot. nn. 4 e 6 CEDU e degli artt. 3, 24, 41, 42, 97 e 111 Cost., come ha invece richiesto l’appellante.
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483). E questo Consiglio ha già esaurientemente illustrato nella già richiamata sentenza n. 758 del 2019, alle cui argomentazioni tutte qui ci si richiama, le ragioni per le quali a questa materia, sul piano della c.d. tassatività processuale, non è legittimo applicare le regole probatorie del giudizio penale, dove ben altri e differenti sono i beni di rilievo costituzionali a venire in gioco, e in particolare i criterî di accertamento, propri del giudizio dibattimentale, e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tipica inferenza logica che, se applicata al diritto della prevenzione, imporrebbe alla pubblica amministrazione una probatio diabolica, come si è osservato in dottrina, in quanto, se intesa in senso assoluto, richiederebbe di falsificare ogni ipotesi contraria e, se intesa in senso relativo (secondo il modello dell’abduzione pura, che implica l’assunzione di una ipotesi che va corroborata alla luce degli specifici riscontri probatori), richiederebbe alla pubblica amministrazione uno sforzo istruttorio sproporzionato rispetto alla finalità del suo potere e ai mezzi di cui è dotata per esercitarlo.
Le preoccupazioni, espresse dalla dottrina e da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa, circa la tenuta costituzionale della prevenzione antimafia sono agevolmente superabili, per gli argomenti già esposti in merito all’istituto dell’informazione antimafia, ma anche ricorrendo al criterio dell’interpretazione sistematica, cui il giudice ben può ricorrere per valutare i profili applicativi e interpretativi di un istituto, esaminandone la coerenza con il sistema normativo in cui esso è inserito.
Ed allora, per la materia in esame, non può sfuggire come il codice antimafia abbia, al suo interno, principi ed istituti – ancorché diversi dalla interdittiva antimafia – che sono posti a presidio di un ragionevole contemperamento tra l’interesse generale prioritario alla prevenzione contro la mafia e il diritto di ciascun imprenditore alla tutela costituzionale di cui all’art. 41 Cost., appunto con i limiti che spetta al legislatore stabilire.
L’istituto della gestione con controllo giudiziale di cui all’art. 34-bis del codice antimafia, introdotto dall’art. 11, l. n. 161 del 2017, dimostra in particolare come il legislatore abbia ben considerato ipotesi in cui – pur in presenza di una informazione antimafia – l’interesse alla sopravvivenza di una impresa può essere tutelato accordando una “occasione” per rimuovere entro un periodo temporale breve, grazie appunto al controllo giudiziale sulla gestione aziendale, la contaminazione mafiosa che il provvedimento interdittivo aveva rilevato. E non a caso l’effetto sulla informazione antimafia non è certo caducante, giacché il giudice ordinario, che non ha potere di sindacarne la legittimità, determina solo la sospensione dell’effetto interdittivo dell’impresa per tutto il periodo della amministrazione controllata.
Il legislatore, quindi, ha stabilito: a) che l’informazione antimafia è meramente sospesa nei suoi effetti, fermo restando il sindacato del giudice amministrativo, che parimenti, come stabilito da questo Consiglio, resta sospeso, potendo riprendere il procedimento dopo la conclusione del periodo fissato dal giudice ordinario;b) che, ove la contaminazione mafiosa sia ritenuta occasionale e quindi rimovibile in tempi brevi, la tutela costituzionale dell’impresa può essere garantita, seppure sotto il controllo del giudice cui spetterà valutare se durante il periodo stabilito – di solito uno o due anni – le infiltrazioni siano state tutte rimosse, anche attraverso riscontrabili modifiche nella compagine e nel “portafoglio contratti” della società.
Ritiene il Collegio che questa ulteriore riflessione valga in modo compiuto a sgombrare il campo da dubbi relativi alla sistematica condizione di equilibrio e contemperamento realizzata dal codice antimafia con riguardo a interessi e diritti meritevoli di indubbia considerazione.
Tanto precisato il Collegio – preso atto della compatibilità della normativa applicata sia con i principi costituzionali sia con l’ordinamento dell’Unione Europea (così come rispettivamente statuito dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia) – non rileva la sussistenza dei profili di illegittimità denunciati dall’appellante ed esclude la sussistenza dei presupposti anche per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE.
Il Collegio esclude peraltro l’esistenza di un obbligo di rimessione alla Corte di giustizia nella presente sede d’appello, per essere questo Consiglio di Stato giudice di ultima istanza per gli effetti dell’obbligo di rimessione alla Corte europea sancito dall’art. 267, comma 3, TFUE. Tale obbligo, infatti, non sussiste nelle ipotesi in cui la questione sollevata sia identica ad altra sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale della Corte, o la giurisprudenza costante della Corte risolva il punto di diritto controverso, indipendentemente dalla natura del procedimento in cui tale giurisprudenza si sia formata (c.d. teoria dell’acte éclairé);ipotesi, quest’ultima, che, alla luce della sopra riportata giurisprudenza della Corte di giustizia in materia, appare ricorrere nel caso di specie (Cons. St., sez. III, 3 aprile 2019, n. 2212).
3. Ancora, in ordine alla richiesta di sospensione cd. impropria del giudizio in ragione della questione di costituzionalità promossa dal Tar Reggio Calabria, con l’ordinanza n. 732 dell’11 dicembre 2020 (concernente la denunziata disparità di trattamento tra i soggetti destinatari di una misura di prevenzione e quelli attinti da informazione antimafia interdittiva, ricavabile dal comma 5 dell’art. 67, d.lgs. n. 159 del 2011), il Collegio, richiamando quanto già affermato con sentenza n. 1827 del 3 marzo 2021, condivide le argomentazioni spese sul punto dalla Sezione nella recentissima sentenza n. 957 del 2021. Ritiene, dunque, non sussistano i presupposti per sospendere il giudizio.
4. Prima di passare al merito, va ancora preliminarmente chiarito, con riferimento alle questioni sulle quali il giudice di primo grado avrebbe omesso di pronunciare, che – come l’Adunanza plenaria di questo Consiglio (ex plurimis, 30 luglio 2018, n. 10) ha stabilito – l’omesso esame della domanda non comporta la regressione del giudizio al primo grado, prevista in ipotesi tassative dall’art. 105, comma 1, c.p.a., ma impone al giudice dell’appello, per l’effetto devolutivo, di esaminarne il contenuto.
5. Venendo, nel concreto, all’esame della vicenda oggetto del giudizio, è pienamente legittima, e immune da censura proprio in virtù dei principî di diritto sin qui ribaditi, la valutazione del primo giudice in ordine al grave quadro indiziario posto a fondamento della contestata informazione antimafia emessa nei confronti della società appellante.
Le contrarie argomentazioni svolte dall’appellante, infatti, non meritano condivisione perché il provvedimento interdittivo contestato nel presente giudizio, diversamente da quanto assume la società, si fonda legittimamente sulle informazioni assunte dalla Prefettura nell’ambito dell’attività istruttoria svolta ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, d.lgs. n. 159 del 2011, come si evince dalla lettura del provvedimento prefettizio che, letto nel suo insieme e non atomisticamente, resiste ai profili, di fatto e di diritto, dedotti dalla appellante.
Il quadro indiziario posto a base del provvedimento prefettizio all’esito di tali accertamenti, infatti, consente di affermare che è elevato il rischio di infiltrazione mafiosa nell’ambito della ---OMISSIS- e che l’inferenza logica della Prefettura, valutata alla stregua della regola di inferenza sin qui delineata della probabilità cruciale, va immune da censura, nonostante le questioni in fatto che il Prefetto prima e il Tar dopo non sembra abbiano attentamente valutato.
Nessuno degli elementi addotti dalla ---OMISSIS- è, infatti, in grado di confutare la logicità e ragionevolezza delle valutazioni rese dalla Prefettura di Milano ove si consideri, come si è detto, che i fatti posti a fondamento dell’interdittiva vanno letti in modo congiunto e non atomistico, con la conseguenza che sarà sufficiente verificarne la fondatezza di solo alcuni di essi.
L’interdittiva si basa su una serie di intrecci societari e legami familiari che conducono ad una vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata di matrice camorrista.
In punto di fatto, giova ricordare che la ---OMISSIS- – il cui capitale sociale è detenuto da ---OMISSIS-
La società appellante è stata costituita il 15 gennaio 2014 per scissione della ---OMISSIS- – destinataria in data 10 gennaio 2014 di una interdittiva antimafia della Prefettura di Napoli – il cui capitale sociale era ripartito tra il socio di maggioranza, ---OMISSIS-
---OMISSIS-
-OMISSIS-, sono stati denunciati dalla Guardia di Finanza per "delitti commessi avvalendosi dell'art. 416 bis c.p. aggravato dall'art. 7, l. n. 203 del 1991;trasferimento fraudolento di valori, reimpiego di proventi di frodi fiscali (art. 648 ter c.p.), nonché uno dei delitti punibili ai sensi dell'art. 12 sexies (ipotesi particolare di confisca)". Tale procedimento è stato archiviato dal Tribunale di Napoli con decreto del 25 novembre 2014.
Nei confronti di -OMISSIS-risulta anche una denuncia della Guardia di Finanza di -OMISSIS- per associazione a delinquere, usura, riciclaggio da usura, estorsione, che non sembrerebbe sfociata in un procedimento penale, ed è stato rinviato a giudizio in data 17 maggio 2012 dalla Procura della Repubblica di Napoli, nell'ambito del procedimento penale -OMISSIS-per i reati di cui all'art. 416 c.p., art. 110 c.p. e art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000, conclusosi con sentenza del Tribunale di Napoli n. -OMISSIS- di intervenuta prescrizione.
-OMISSIS-era stato deferito per associazione a delinquere e nel 2007 è stato destinatario della misura cautelare interdittiva del divieto temporaneo ad esercitare attività professionali o imprenditoriali, disposta dal GIP presso il Tribunale di Lucca, oltre che oggetto di accertamenti ex art. 2 bis, l. n. 575 del 1965, in quanto ritenuto prestanome di -OMISSIS-, capo dell’omonimo clan criminale operante in Toscana.
In sintesi, le indagini portavano a ritenere che i proventi delle attività criminali di -OMISSIS-fossero stati utilizzati, con il concorso di -OMISSIS-, per acquistare beni anche immobili, tanto che il Tribunale di Prato, in data 20 febbraio 2012, aveva disposto il sequestro di beni riconducibili al suddetto -OMISSIS-, individuando quali terzi intestatari dei suddetti beni, tra gli altri, anche la moglie e i figli di -OMISSIS-.
Il ruolo ricoperto da -OMISSIS- all’interno della società appellante nonché gli stretti rapporti economici tra i -OMISSIS-, questi ultimi vicini alla criminalità organizzata di stampo camorristico, rendono “più probabile che non” la contiguità della società appellante al clan -OMISSIS-, la cui dedotta “disarticolazione” è già stata smentita dalla Sezione con la sentenza n. -OMISSIS-.
Come condivisibilmente chiarito dal giudice di primo grado, la famiglia -OMISSIS-si è solo apparentemente e formalmente defilata dalla gestione di patrimoni immobiliari, ma, nella sostanza, ha continuato a gestirli tramite persone compiacenti, che hanno accettato di intestare a sé le proprietà immobiliari, come -OMISSIS-, padre di -OMISSIS-, a sua volta fratello di -OMISSIS-), già titolare, con -OMISSIS-, del capitale della -OMISSIS-società interdetta, dalla cui scissione è nata la società ricorrente.
Richiamando i principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 – di fatto confermando la giurisprudenza della Sezione (26 febbraio 2019, n. 1349) – a supportare il provvedimento interdittivo sono sufficienti anche i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”.
Proprio con riferimento ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (7 febbraio 2018, n. 820) ha chiarito che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza;una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti.
Questo presupposto pare al Collegio presente nel caso di specie.
Gli elementi indiziari, puntualmente indicati dal Prefetto di Milano, infatti, ben supportano l’interdittiva.
La loro evidente gravità rende irrilevante, nella fattispecie di cui è causa, la circostanza che gli stessi ruotano essenzialmente sul rapporto di parentela (tra i -OMISSIS-) – incontestato – con soggetti molto vicini ad ambienti della criminalità organizzata.
Giova aggiungere, con riferimento al requisito dell’attualità, che la giurisprudenza della Sezione (2 gennaio 2020, n. 2;2 maggio 2019, n. 2855) è consolidata nel ritenere che i fatti sui quali si fonda l'interdittiva antimafia possono anche essere risalenti nel tempo, nel caso in cui vadano a comporre un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l'esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Infatti, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell'attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l'inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l'irrilevanza della risalenza dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi, quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l'impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d'ombra della mafiosità.
Irrilevante è, poi, il ripetuto richiamo, operato dall’appellante, alla assenza di condanne penali a carico degli -OMISSIS-. Come di recente ribadito anche dal giudice delle leggi con la sentenza n. 57 del 26 marzo 2020, gli elementi posti a base dell'informativa, proprio per la ratio ad essa sottesa, possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione (Cons. St., sez. III, 2 maggio 2019, n. 2855;27 novembre 2018, n. 6707). La connotazione prognostica della valutazione di permeabilità criminale, suscettibile di legittimare l’adozione della misura antimafia, ne rimarca la differenza, in termini di spessore probatorio delle acquisizioni istruttorie sulle quali si fonda, rispetto all’accertamento penale, legittimando la perdurante valenza degli elementi indiziari raccolti nel corso delle indagini preliminari, anche quando, conclusosi il relativo giudizio, quegli elementi non abbiano attinto il livello di dignità dimostrativa della prova piena, quale si forma nel contraddittorio dibattimentale: ciò quantomeno nei casi in cui l’esito finale del giudizio penale non si ponga – come nel caso di specie, nel quale il giudice penale ha escluso lo “stabile” collegamento – in rapporto di palese ed insanabile antinomia rispetto a quegli elementi, attestandone la radicale inutilizzabilità in chiave preventiva (Cons.St., sez. III, 15 marzo 2019, n. 1715).
Nella specie, l’assenza di precedenti specifici, non smentirebbe in ogni caso il coinvolgimento in una trama relazionale che in sede amministrativa è stata dalla Prefettura correttamente valorizzata con riguardo all’accertamento del fatto operato nel segmento investigativo (dunque con un’ottica meramente descrittiva e non valutativa in termini di penale responsabilità).
Giova ancora aggiungere, con riferimento alla pronuncia del Tribunale di Napoli n. -OMISSIS-, che la stessa non è con la formula piena “perché il fatto non sussiste”, bensì per intervenuta prescrizione, con conseguente assenza di valutazioni sotto i profili di merito della causa, non potendosi dunque escludere la sussistenza, nella loro oggettività, di fatti altamente sintomatici dell’infiltrazione mafiosa (Cons. St., sez. III, 2 maggio 2019, n. 2855).
Alla circostanza – tutt’altro che irrilevante – della mancata assoluzione per insussistenza del fatto penalmente addebitato si aggiunge che, come si è detto, in ogni caso gli elementi posti a base dell'informativa, proprio per la ratio ad essa sottesa, possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.
In conclusione, riprendendo quanto chiarito in ordine ad una visione complessiva degli elementi che la Prefettura ha posto a supporto del provvedimento interdittivo, la legittimità di quest’ultimo si fonda sul principio secondo cui gli elementi di fatto valorizzati dal provvedimento prefettizio devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale – che è alla base della teoria della prova indiziaria - quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità della struttura imprenditoriale a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, “secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza di questa Sezione.
E’ proprio, dunque, la visione di insieme dei diversi fattori ed elementi istruttori che può consentire di coglierne l’esatta portata indiziaria, la quale viceversa rischierebbe di sfuggire ad una loro diagnosi ripartita e atomistica.
A fronte di tale principio diventa ininfluente l’eventuale errore di omonimia in cui si sarebbe occorsi facendo riferimento a -OMISSIS- la cui persona è stata erroneamente associata alla vicenda “Terra dei Fuochi”, nonché la riforma, con sentenza della sezione seconda della Corte di Cassazione n. 12960 del 18 dicembre 2018, della pronuncia della Corte di Appello di Firenze, che in sede di rinvio aveva confermato il provvedimento di confisca.
A legittimare il provvedimento interdittivo è, infatti, sufficiente la contiguità (attraverso rapporti di parentela dei -OMISSIS- con gli -OMISSIS-) ad una famiglia di matrice camorristica, tale da sentirne e subirne l’influenza, non essendo necessario essere essi stessi camorristi.
Diventano così ininfluenti le argomentazioni difensive (pag. 34 dell’appello) secondo cui “la stessa Prefettura di Milano ha chiarito che i sigg.ri -OMISSIS- ed -OMISSIS- non appartengono direttamente alla criminalità organizzata ma potrebbero in tesi solo potenzialmente essere da essa influenzati”.
Non fa venire meno la contiguità e, comunque, l’influenza degli ambienti legati alla camorra la circostanza che la società -OMISSIS- che la Prefettura utilizza per argomentare la contiguità di ---OMISSIS- a tale ambienti, sia sin dal 2013 oggetto di una continua verifica da parte della Prefettura di Napoli e del GIA (attraverso i commissari nominati) “che deve aver portato necessariamente (altrimenti è uno strumento da rivedere normativamente) ad una bonifica e/o ‘pulizia totale’ della società -OMISSIS- da qualsiasi tipo di potenziale condizionamento mafioso”.
Il richiamo, operato dalla Prefettura, al collegamento tra la ---OMISSIS- e le due società interdette-OMISSIS-
Nessun dubbio sulla vicinanza ad ambienti della malavita organizzata per la --OMISSIS-società già colpita da tre informative, tutte ritenute, con sentenze passate in giudicato, immuni da vizi di legittimità. Con riferimento all’ultima interdittiva la Sezione, con sentenza n. -OMISSIS- ha affermato che “gli spostamenti di quote societarie sono intervenuti tra familiari;appartenenti alla famiglia hanno continuato a prestare attività lavorativa all’interno dell’impresa;lo stesso -OMISSIS-- ha fornito elementi dai quali desumere il suo persistente interessamento alle vicende della società, come può desumersi dalla vicenda relativa alla denuncia dello smarrimento dei documenti di un automezzo a distanza di un anno dalla dismissione di ruoli all’interno della società, o della intervista giornalistica resa in seguito alle polemiche divampate quando la Regione aveva deciso di non revocare le concessioni in seguito all’interdittiva antimafia. Dalla stessa documentazione allegata all’istanza di aggiornamento dell’informativa si evince la volontà di concentrare il controllo della -OMISSIS- (e per il tramite di quest’ultima della -OMISSIS--, mantenuta fin quando non era intervenuta l’informativa.
Per di più il -OMISSIS--, che già era titolare di una partecipazione in -OMISSIS-, aveva acquisito il pacchetto di maggioranza della predetta Società per effetto di donazione da parte della moglie.
Orbene, anche a non voler considerare la circostanza rilevante ai sensi dell’art. 84, lett. e), d.lgs. n. 159 del 2011, essa è chiaramente indicativa della volontà della famiglia -OMISSIS- di ovviare all’impossibilità di mantenere la titolarità del capitale della Società per via dell’informativa, trasferendola ad una delle persone ad essa più vicine e fidate attraverso la quale potevano continuare a curarne la gestione (e lo stesso è a dirsi per le -OMISSIS-, visto che le quote di tale società in precedenza di -OMISSIS-- e di altri suoi familiari erano state rilevate dalla -OMISSIS-, controllata e amministrata dallo stesso -OMISSIS--). Se si considerano tali presupposti, ragionevolmente il Prefetto ha assegnato rilievo alla presenza, seppur saltuaria, della ex amministratrice -OMISSIS-- negli uffici della Società, e alla sua presenza unitamente al marito a bordo di una vettura di proprietà dell’appellante. Tali elementi confermano che la famiglia -OMISSIS- si era solo apparentemente e formalmente defilata ma, nella sostanza, era fermamente decisa a continuare ad occuparsi delle sorti della -OMISSIS-;ipotesi questa confermata dalla presenza di diversi suoi componenti nell’ambito della stessa con ruoli anche importanti che in alcuni casi i Commissari hanno dovuto loro togliere, come nel caso del demansionamento di -OMISSIS-- (figlio di -OMISSIS-già entrato in contatto con il clan -OMISSIS-). Tenuto conto di tali presupposti, la dichiarazione resa dagli amministratori straordinari prefettizi in data 7 dicembre 2016, secondo cui “mai alcuno anche tra i familiari della proprietà ha condizionato le scelte e gli indirizzi dell’Amministrazione della Società” e che nessun contatto vi era stato tra la struttura amministrativa della società e -OMISSIS-e -OMISSIS--, non assume rilievo dirimente: data la situazione prima descritta nella quale si evince “una continuità con il passato della vita dell’impresa”, ragionevolmente può ritenersi sussistente l’attualità del pericolo una volta venuto meno l’argine costituito dalla presenza dei Commissari Straordinari”.
E’ dunque assodato dal giudice amministrativo la contiguità dei componenti della famiglia -OMISSIS- – legata alla famiglia -OMISSIS- – con il clan -OMISSIS-e tale circostanza assume carattere assorbente di ogni considerazione.
Ne consegue che correttamente il coacervo di elementi che resistono alle osservazioni, fattuali, dell’appellante, è stato ritenuto dal Prefetto di Milano sufficiente ad evidenziare il pericolo di contiguità con la mafia, con un giudizio peraltro connotato da ampia discrezionalità di apprezzamento, con conseguente sindacabilità in sede giurisdizionale delle conclusioni alle quali l’autorità perviene solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001). Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).
Nei limiti del sindacato rimesso a questo giudice, dunque, la sentenza del Tar Milano, che ha puntualmente inquadrato la vicenda contenziosa soffermandosi sugli elementi indiziari che legittimano il provvedimento prefettizio nell’ambito dei principi delineati da questa Sezione, resiste ai profili dedotti in appello.
La già richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 57 del 2020 ha chiarito che a fronte della denuncia di un deficit di tassatività della fattispecie, specie nel caso di prognosi fondata su elementi non tipizzati ma “a condotta libera”, “lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa”, un ausilio è stato fornito dall’opera di tipizzazione giurisprudenziale che, a partire dalla sentenza di questo Consiglio di Stato 3 maggio 2016, n. 1743, ha individuato un “nucleo consolidato (…) di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale”.
Fra tali situazioni la Corte costituzionale ricorda “i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia”, elementi, questi, sussistenti nel caso all’esame del Collegio.
In conclusione, il primo motivo di appello deve essere respinto, operando un tentativo di ridimensionamento analitico di tali elementi, tralasciando però di considerare la visione d’insieme, che sorregge con una soglia certamente superiore al criterio del “più probabile che non” la valutazione di rischio di infiltrazione dell’attività d’impresa.
6. Quanto alla omissione della fase partecipativa, va ribadito, conformemente alla giurisprudenza di questa Sezione (21 gennaio 2020, n. 820;3 marzo 2020, n. 1576;6 maggio 2020, n. 2854), che la comunicazione di avvio del procedimento, prevista dall'art. 7, l. n. 241 del 1990 e del preavviso di rigetto, di cui all'art. 10-bis della stessa legge, sono adempimenti non necessari in materia di certificazione antimafia, in cui il contraddittorio procedimentale ha natura meramente eventuale, ai sensi dell'art. 93, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011.
E’ noto che sulla questione concernente le garanzie della partecipazione procedimentale in favore del soggetto nei cui confronti il Prefetto si propone di rilasciare una informazione antimafia si è pronunciata la Corte di Giustizia UE, Sezione IX, con ordinanza del 28 maggio 2020, che ha dichiarato irricevibile il ricorso perché non dimostrata l’esistenza di un criterio di collegamento tra il diritto dell’Unione e l’informazione antimafia adottata.
La Corte ha tuttavia precisato, per inciso, che “il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, che trova applicazione quando l’amministrazione intende adottare nei confronti di una persona un atto che le arrechi pregiudizio” e che in forza di tale principio i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione”.
Nel caso in esame, il Collegio, consapevole della rilevanza che assumono i diritti di difesa dell’interessato nel corso del procedimento amministrativo, intende ribadire le considerazioni già svolte dai richiamati precedenti della Sezione secondo cui i procedimenti in materia di tutela antimafia sono tipicamente connessi ad attività di indagine giudiziaria e caratterizzati da ragioni di urgenza e da finalità di tutela, destinatari e presupposti incompatibili con le ordinarie procedure partecipative, pur non essendo obliterata la tutela del diritto di difesa, ma resa eventuale dal Legislatore e rimessa alla discrezionalità dell’Autorità procedente.
La Sezione ha ritenuto, inoltre, che “l'assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale in questa materia non costituisce un vulnus al principio di buona amministrazione, perché, come la stessa Corte UE ha affermato, il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che "queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti" (sentenza della Corte di Giustizia UE, 9 novembre 2017, in C-298/16, § 35 e giurisprudenza ivi citata).
Inoltre, in riferimento alla normativa italiana in materia antimafia, la stessa Corte UE, seppure ad altri fini (la compatibilità della disciplina italiana del subappalto con il diritto eurounitario), ha di recente ribadito che "il contrasto al fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici" (Cons.St., sez. III, d25 agosto 2020, n. 5196;21 gennaio 2020, n. 820;Corte di Giustizia UE, 26 settembre 2019, in C-63/18, § 37).
Dunque, in aderenza a tali considerazioni, deve ritenersi la legittimità dell’operato della Prefettura di Milano.
7. Con il secondo motivo di appello si afferma che l’informativa antimafia “generica” non poteva determinare l’automatica cancellazione dell’iscrizione, da qualsiasi attività, alla Camera di commercio di Milano.
Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione alla luce dei principi, espressi dalla Sezione (14 febbraio 2017, n. 672), secondo cui non residua alcun margine di discrezionalità, per le amministrazioni richiedenti la relativa documentazione antimafia, in seguito all’emissione dell’informativa antimafia, anche se resa ai sensi dell’art. 89-bis, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011;la natura vincolata di tali provvedimenti dispensa le amministrazioni dall’obbligo di dovere comunicare l’avvio del procedimento inteso alla cancellazione dal registro delle imprese o all’inibizione dell’attività economica della società interdetta.
8. Il terzo motivo, con il quale si deduce il difetto di motivazione del diniego di riesame, è privo di pregio essendo sufficiente – in una visione non atomistica del provvedimento prefettizio – che resistano alcuni elementi indicati nell’interdittiva la cui motivazione, dunque, supporta anche il diniego di autotutela e la decisione di non coinvolgere nuovamente il Gruppo Investigativo Antimafia.
9. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
10. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.