Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-01-25, n. 202300841

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-01-25, n. 202300841
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202300841
Data del deposito : 25 gennaio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/01/2023

N. 00841/2023REG.PROV.COLL.

N. 01344/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1344 del 2022, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato E N, con domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via del Rione Sirignano n. 6;

contro

Ufficio Territoriale del Governo Caserta, Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Quinta) n. -OMISSIS-, resa tra le parti


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ufficio Territoriale del Governo Caserta e di Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Pres. M C e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con decreto emesso in data 30 agosto 2017 ai sensi degli artt. 39 e 40 T.U.L.P.S., la Prefettura della Provincia di Caserta ha disposto il divieto di detenzione di armi, munizioni e materiali esplodenti nei confronti dell’odierno appellante, agente della Polizia municipale del Comune di Casoria dall’anno 2012, avente in dotazione l’arma di ordinanza per l’esercizio delle sue funzioni di pubblica sicurezza.

Il richiamato provvedimento si fonda, in primo luogo, su una perquisizione compiuta dall’Autorità di pubblica sicurezza presso l’abitazione dell’interessato, nel corso della quale sono state rinvenute una paletta segnaletica della Polizia Municipale del Comune di Casoria, in quella sede giudicata contraffatta, nonché la pistola d’ordinanza custodita in modo non conforme al dettato normativo.

Inoltre, a sostegno del divieto, l’Amministrazione ha ritenuto insussistenti in capo all’interessato i requisiti di assoluta affidabilità necessari per la detenzione di armi, tenuto conto del rapporto di coniugio tra la di lui sorella e un soggetto “pregiudicato per gravissimi reati, nonché cugino di esponenti di spicco della criminalità organizzata”.

In data 18 settembre 2017, il ricorrente ha chiesto l’ostensione dei documenti posti a sostegno del provvedimento a lui sfavorevole, a cui la Prefettura ha dato riscontro negativo il 5 ottobre 2017.

Il ricorrente ha avversato innanzi al T.A.R. Campania il provvedimento di divieto, chiedendone l’annullamento, previa sospensione, e deducendone l’illegittimità sotto molteplici profili.

Con Ordinanza n. -OMISSIS- l’adito T.A.R. ha respinto l’istanza cautelare, accogliendo tuttavia l’istanza di accesso agli atti in via incidentale, formulata dal ricorrente ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a.

Nelle more del giudizio, è intervenuta la sentenza resa dal G.U.P. - Tribunale di Napoli Nord, con cui l’imputato è stato prosciolto con formula piena sia in relazione al possesso di segni distintivi contraffatti di un corpo di polizia, sia in relazione alla detenzione di arma senza denunzia all’Autorità.

Il T.A.R., con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto il ricorso e ha condannato il ricorrente alle spese del giudizio.

Il giudice di prime cure, dopo aver ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di armi, ha ritenuto che il quadro fattuale ascrivibile al ricorrente, alla luce degli accertamenti di polizia riportati nel provvedimento impugnato, giustificassero la prognosi di non assoluta affidabilità del ricorrente nella detenzione dell’arma.

In particolare, la pronuncia ha preliminarmente smentito l’eccezione relativa al difetto di competenza della Prefettura di Caserta, osservando che i fatti di cui è causa si sono verificati presso l’abitazione del ricorrente, che, invero, si trova in provincia di Caserta, a nulla rilevando la circostanza che il medesimo eserciti le sue funzioni a Casoria, in provincia di Napoli.

È stata poi disattesa la censura relativa all’omessa comunicazione di avvio del procedimento, in ragione dell’urgenza del provvedimento.

Inoltre, il T.A.R. ha ritenuto non meritevole di accoglimento la doglianza secondo cui il divieto di detenzione di armi non potrebbe applicarsi in relazione ad armi di cui non sia imposta la denuncia, come, nella specie, le armi di ordinanza. Secondo il primo Giudice, infatti, il divieto in esame riguarda le armi in generale, indipendentemente dal fatto che la detenzione delle stesse sia stata o meno denunciata, sicché alcun rilievo è da attribuirsi alla circostanza che il ricorrente, titolare di un’arma d’ordinanza in ragione della sua funzione, non sia soggetto all’obbligo di denuncia.

Da ultimo, il giudice di primo grado ha ritenuto il provvedimento impugnato adeguatamente motivato, in quanto, pur essendo intervenuta la sentenza di non luogo a procedere rispetto alle condotte penali contestate all’interessato, assumono rilevanza, ai fini del divieto, l’incauta custodia dell’arma e i legami di parentela con persone aventi precedenti penali, che rendono plausibile la prognosi di abuso della pistola.

L’appellante ha impugnato la citata pronuncia e ne ha chiesto la riforma, riproducendo essenzialmente le censure non accolte in primo grado, in chiave critica nei confronti della gravata sentenza.

Segnatamente, in base alla ricostruzione fornita dall’appellante, la sentenza sarebbe erronea, in quanto:

- avrebbe argomentato in modo assertivo sulla censura relativa al difetto di competenza del prefetto di Caserta, essendosi limitata ad affermare che non vi sono comunicazioni al Prefetto di Napoli in merito all’assegnazione dell’arma e che i fatti si sono verificati nell’ambito territoriale della Prefettura di Caserta;

- le ragioni di urgenza sottese al provvedimento impugnato non giustificherebbero la lesione del diritto del ricorrente alla partecipazione procedimentale, poiché l’Amministrazione avrebbe potuto procedere al sequestro delle armi in via cautelare e, dopo aver consentito la partecipazione dell’interessato al procedimento amministrativo, disporre eventualmente il divieto di detenzione delle stesse;

- lo strumento giuridico per attuare la finalità di privare il soggetto assegnatario dell’arma di servizio non è il divieto di cui all’art. 39 T.U.L.P.S., poiché questo presupporrebbe un obbligo di denuncia dell’arma, che, nel caso di specie, non troverebbe applicazione in ragione del ruolo ricoperto dall’appellante;

- a fronte dell’intervenuta sentenza penale di non luogo a procedere, sarebbero venuti meno gli elementi per ritenere l’appellante di non sicura affidabilità nella detenzione dell’arma, in quanto le altre circostanze fattuali relative alla custodia dell’arma e al rapporto di affinità con un soggetto pregiudicato, non sarebbero di per sé sufficienti a giustificare il provvedimento di divieto.

Le Amministrazioni intimate si sono costituite in giudizio, resistendo all’appello.

Alla pubblica udienza del 10 novembre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato.

La materia del rilascio del porto d’armi è disciplinata dagli artt. 11 e 43 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.

Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.

La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».

Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».

La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972;
Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).

Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.

Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato.

L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.

È in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).

Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.

Delineata in questi termini la natura latamente discrezionale dei provvedimenti de quibus, occorre indagare le implicazioni che da essa derivano sul piano dell’intensità del sindacato giurisdizionale.

È noto che dal tradizionale approccio del giudizio amministrativo, teso ad escludere ogni forma di sindacato sulla attività discrezionale, si è passati alla possibilità di riconoscere la piena cognizione dei fatti oggetto dell’indagine e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’Autorità amministrativa, con il solo limite dell’ottica del merito, preclusa al giudice, e comunque del sindacato non sostitutivo. Solo in questo modo, infatti, si garantisce il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, imposto dall’art. 113 Cost.

Consegue che la natura dei provvedimenti in esame non esclude né può legittimare un indebolimento del sindacato giurisdizionale. Al contrario, quanto più si estendono le maglie della discrezionalità dell’Autorità amministrativa, tanto più è necessario un sindacato penetrante da parte del giudice amministrativo volto ad evitare che sotto il mantello della discrezionalità possa celarsi un esercizio arbitrario della funzione amministrativa.

In questa logica, si pone del resto la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sia pur con riferimento alla discrezionalità tecnica delle Autorità amministrative indipendenti, ha affermato che la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, teso a riscontrare vizi di manifesta illogicità e incongruenza, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, attraverso la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e il controllo sull’attendibilità tecnica della valutazione compiuta dall’Amministrazione, salvo il limite rappresentato dall’oggettivo margine di opinabilità (ex multis, Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050).

A maggior ragione, una forma penetrante di sindacato si impone a fronte di un’attività amministrativa che vede una scelta di opportunità afferente alla valutazione dei requisiti di legge. Anche qui la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo pieno e particolarmente penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’Autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o di erronea assunzione dei fatti.

Nel caso di specie, il giudice amministrativo è chiamato a valutare la consistenza dei fatti posti a fondamento della determinazione dell’Autorità prefettizia in ordine all’esistenza dei requisiti di legge e al pericolo di abuso delle armi, di modo che il suo sindacato sull’esercizio della funzione amministrativa consenta non solo di vagliare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da essi secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva – e non sanzionatoria – della misura in esame.

In questa prospettiva, si chiede al giudice una valutazione sull’esercizio del potere amministrativo che, muovendo da un accesso pieno ai fatti rivelatori del pericolo, ne dimostri la ragionevolezza e la proporzionalità.

È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità – compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. – si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.

Il principio di ragionevolezza postula, invece, una coerenza tra la valutazione compiuta dall’Amministrazione e la decisione assunta.

Alla luce di quanto fin qui esposto e dei fatti valorizzati dal provvedimento gravato in primo grado, ritiene il Collegio che la prognosi inferenziale compiuta dall’Amministrazione resista al vaglio di questo giudice. Infatti, nel caso in esame, la valutazione negativa di affidabilità del soggetto circa l’uso corretto delle armi e il divieto di detenzione delle stesse è stata legittimamente ancorata a fatti che giustificano la prognosi di possibile abuso dell’arma.

Anzitutto, non risulta meritevole di accoglimento l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall’appellante, secondo cui la competenza ad adottare il divieto ex art. 39 T.U.L.P.S. spetterebbe all’Autorità che ha assegnato l’arma e che, conseguentemente, esercita compiti di vigilanza e di controllo sulla stessa, da individuarsi, nel caso di specie, nella Prefettura di Napoli, che ha conferito all’interessato la qualifica di agente di pubblica sicurezza.

Deve infatti osservarsi che la ritenuta correlazione tra il divieto di detenzione di armi e munizioni e il provvedimento con il quale si assegna l’arma non ha alcun fondamento normativo, con la conseguenza che correttamente il Giudice di prime cure ha considerato competente, ai fini dell’adozione dell’atto, l’Autorità nel cui ambito territoriale si trova il luogo in cui è stata rilevata la condotta contestata.

Ne deriva che, poiché la perquisizione è avvenuta presso il domicilio dell’appellante, che si trova nel Comune di Cesa, la Prefettura competente ad emettere il divieto non poteva che essere quella di Caserta.

Del pari, risulta privo di pregio il motivo con il quale l’appellante deduce la violazione dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990. Secondo l’appellante, infatti, le ragioni di urgenza avrebbero al più potuto giustificare il ritiro cautelare dell’arma, ma non certo l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento finalizzato all’adozione del divieto di detenzione di armi e munizioni.

Sul punto, giova richiamare l’orientamento consolidato di questa Sezione, secondo cui il divieto di detenzione delle armi ex art. 39, R.D. 18 giugno 1931 n. 773 non implica l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimento caratterizzato da urgenza;
infatti l’esigenza di tutela della sicurezza e della incolumità pubblica, insita nel provvedimento di divieto di detenzione di armi e munizioni, costituisce di per sé ragione di impedimento della comunicazione di avvio del procedimento e le esigenze di celerità sono in re ipsa, tenuto conto della delicatezza della materia e della estrema rilevanza degli interessi pubblici oggetto di tutela ( Consiglio di Stato, III sez., n. 715/2020).

Non coglie nel segno neppure il motivo con il quale l’appellante sostiene che l’art. 39 del T.U.L.P.S., riferendosi alle «armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente», non potrebbe applicarsi a chi abbia in dotazione l’arma di ordinanza, che non necessita di essere denunciata. Merita osservare che l’Autorità prefettizia ha il potere di disporre il divieto in esame al fine di scongiurare il rischio di abuso dell’arma da parte di soggetti ritenuti inaffidabili. In questa logica, se tale è la ratio sottesa al provvedimento inibitorio in esame, è chiaro che a nulla rileva il fatto che l’appellante detenga l’arma in qualità di agente di pubblica sicurezza e che, dunque, esso non sia gravato dall’obbligo di denuncia.

Da ultimo, non è suscettibile di positivo apprezzamento il motivo con il quale l’appellante censura la sentenza gravata nella misura in cui avrebbe considerato sufficienti, ai fini dello scrutinio di legittimità dell’atto, circostanze a suo dire inesistenti.

Quanto all’omessa custodia dell’arma, contestata nel provvedimento inibitorio, l’appellante sostiene che l’assenza di un procedimento a suo carico per tale condotta di per sé sarebbe sufficiente a provare l’insussistenza del fatto.

L’argomento non è condivisibile.

Contrariamente a quanto vorrebbe l’appellante, la condotta in esame denota, per i fini che qui interessano, una negligenza grave, tale da determinare il fondato sospetto di pericolo di abuso dell’arma e ciò a prescindere da qualsivoglia accertamento in sede penale. Né il fatto, come accertato nel provvedimento gravato in prime cure, appare smentito, nella sua materialità oggettiva, dall’appellante, il quale ha confermato che l’arma è stata ritrovata conservata nella fondina, su un tavolo, sia pure in una stanza appartata e non a vista. Tali elementi fattuali, unitamente alla circostanza incontestata per cui l’arma in questione aveva il caricatore inserito, dimostrano l’inosservanza delle normali accortezze previste dalla normativa in materia di armi.

Parimenti infondato è il motivo con il quale l’appellante deduce che dal solo legame di affinità con un soggetto pregiudicato possa, in modo automatico, ricavarsi il pericolo di abuso dell’arma. Sul punto, ritiene il Collegio che quanto dedotto dall’appellante non sia sufficiente ad escludere il concreto pericolo di abuso dell’arma, anche in considerazione del fatto che la famiglia dell’appellante e quella del parente pregiudicato abitano in palazzine diverse ma comunque nello stesso complesso residenziale, sì da far ritenere non inverosimile che tra i due soggetti vi sia una frequentazione.

Pertanto, tenuto conto della natura precauzionale e non sanzionatoria del divieto di detenere armi, l’Amministrazione ha concluso nel senso dell’insussistenza dei requisiti di sicura affidabilità richiesti dalla legge, secondo una prognosi inferenziale che appare immune dalle prospettate censure.

Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere respinto.

L’insieme della vicenda e gli interessi fatti valere giustificano la compensazione delle spese del grado di giudizio.

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