Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-12-19, n. 201605363

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-12-19, n. 201605363
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201605363
Data del deposito : 19 dicembre 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 19/12/2016

N. 05363/2016REG.PROV.COLL.

N. 05903/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 5903/2011 RG, proposto da S, L e D F, rappresentati e difesi dall'avv. Luigi Maria D'Angiolella, con domicilio eletto in Roma, via G. Antonelli n. 49, presso l’avv. Como;

contro

il Comune di Montella (AV), in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dagli avv.ti R N ed A S, con domicilio eletto in Roma, via C. Poma n. 2;

e con l'intervento di

ad adiuvandum :
A Fro, deceduto in corso di giudizio,

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per la Campania – sede staccata di Salerno - Sezione II, n. 9848 del 29 giugno 2010;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune intimato;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore all'udienza pubblica del 29 settembre 2016 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti, gli avvocati D'Angiolella e Nania;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1 – Con istanza del 19 aprile 1994, i sigg. S, L e D F, qualificandosi a tal riguardo come futuri proprietari (ossia donatari del padre A Fro), chiesero al Comune di Montella (AV), il rilascio d’una concessione edilizia per costruire colà, in via Canalone Nuovo, un edificio ad uso promiscuo

A seguito del diniego da parte del Comune per difetto del piano urbanistico attuativo, i sigg. F iniziarono un contenzioso innanzi al TAR Salerno (ricorso n. 2237/94 RG), poi rigettato in forza della sentenza n. 705 del 1° dicembre 1997, contro la quale essi interposero appello. Nelle more di quel giudizio, il sig. A Fro, padre dei germani F, chiese ed ottenne dal predetto Comune il rilascio della concessione edilizia n. 20 del 27 giugno 2002, allo scopo di realizzare in quel sito un fabbricato ben più piccolo di quello previsto dall’istanza del 1994. Tanto perché, essendo entrato in vigore il nuovo PRG, la relativa area fu classificata in zona BC (residenziale di completamento) con un indice di fabbricabilità inferiore rispetto al passato.

1.1. La Sezione accolse detto appello con la decisione n. 6798/2004, sicché questo evento, «… secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza… potrebbe aprire la via al recupero, anche parziale, del valore perduto per effetto della nuova normativa …», mercé l’eventuale risarcimento del danno per equivalente.

2 – Quindi i sigg. F, cui nel frattempo era stata volturata la c.e. n. 20/2002, diffidarono detto Comune a risarcire loro il danno ingiustamente sofferto a causa del primigenio rigetto, ma senza esito.

Essi adirono nuovamente il TAR Salerno per ottenere in via d’azione tal risarcimento, con il ricorso n. 1196/2009 RG, che tuttavia fu respinto con la sentenza n. 9848 del 29 giugno 2010. E ciò perché i ricorrenti, al tempo dell’istanza del 1994, non vantavano alcun titolo sull’area d’intervento e, quindi, nemmeno ad ottenere una concessione edilizia, sia pur per ragioni diverse rispetto al diniego a suo tempo annullato.

3 – Appellano quindi i sigg. F, con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza in base a tre articolati gruppi di censure e per l’omessa valutazione del merito risarcitorio, che qui si ripropone.

3.1. Resiste in giudizio il Comune intimato, concludendo per la tardività di tale appello in relazione alla intervenuta dimidiazione del termine c.d. “lungo” introdotta dall’art. 46, c. 17 della l. 18 giugno 2009 n. 69 e, nel merito, per l’infondatezza della pretesa azionata.

3.2. E’ intervenuto ad adiuvandum il sig. A Fro deceduto nelle more del presente giudizio (21 novembre 2015), come ha reso noto il suo procuratore, chiedendo l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 79, c. 2, c.p.a., in relazione all’art. 300, co. 1, c.p.c.

Con ordinanza n. 864 del 29 febbraio 2016, la Sezione ha dichiarato interrotto il giudizio.

Con atto notificato il 9 maggio 2016 e depositato il successivo giorno 14, il patrono degli appellanti ha riassunto la causa innanzi alla Sezione.

3.3. Alla pubblica udienza del 28 settembre 2016, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è stato assunto in decisione dal Collegio.

4 – Premesso che la memoria attorea di replica è stata depositata solo il 9 settembre 2016 e, dunque, è tardiva ex art. 73, co. 1, c.p.a., pure l’appello è tardivo e dunque irricevibile ex art. 35, co.1, lett.a), c.p.a.

4.1. Eccepisce più volte il Comune intimato, in via preliminare e con ragione come si vedrà tra poco, la circostanza che il ricorso in epigrafe è stato notificato il 17 giugno 2011, a fronte d’una sentenza pubblicata il 29 giugno 2010, ben oltre il termine lungo semestrale.

4.2. Non coglie invero nel segno l’obiezione degli appellanti, secondo cui il loro ricorso di primo grado fu spedito il 3 luglio 2009, ossia il giorno prima dell’entrata in vigore della l. 69/2009. Sicché, a loro dire, corretto sarebbe il mantenimento del previgente regime del termine “lungo” (cioè annuale, più i quarantasei giorni di sospensione feriale) per proporre l’appello in esame.

Tale tesi parte dall’erroneo presupposto che la sola notificazione del ricorso introduttivo sia bastata a radicare la pendenza del giudizio amministrativo. È vero il contrario, come già da tempo precisato dall’Adunanza plenaria (cfr. Cons. St., ad. plen., 28 luglio 1980 n. 35), giacché nel processo amministrativo i due momenti della notificazione e del deposito del ricorso hanno caratteristiche e fini diversi: il primo rivela soltanto la volontà di agire in giudizio e costituisce il preliminare atto dell’introduzione del processo;
il secondo invece concretamente realizza la presa di contatto tra il ricorrente e l'organo di giurisdizione che deve pronunciare sul processo e postula la partecipazione pure delle controparti al giudizio. Pertanto i suoi effetti, correlati alla consegna dell'originale del ricorso notificato alla segreteria del Giudice adito, non possono retroagire alla fase precedente, che è stata meramente introduttiva e prodromica all'istaurazione del processo. Quindi, nel processo amministrativo, l’instaurazione del rapporto processuale si verifica all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del TAR. L’individuazione della pendenza del rapporto processuale, in altri termini, mentre nei giudizi che iniziano con citazione va fissata nel momento della notificazione di essa ( vocatio in jus ), in quelli, come nel caso in esame, introdotti con ricorso si ha nel momento del relativo deposito ( vocatio judicis , cfr. Cons. St., VI, 25 maggio 2006 n. 3129;
id., IV, 8 gennaio 2013 n. 40).

Poiché nel caso in esame il deposito del ricorso di primo grado avvenne dopo l’entrata in vigore del citato art. 46 della legge n. 69, anche la causa così instaurata dagli appellanti restò regolata da detta novella, ancorché ciò avvenne in un tempo anteriore al vigente c.p.a. Soccorre a tal riguardo il noto principio (cfr. Cons. St., VI, 27 dicembre 2011 n. 6842), in virtù del quale, prima dell’entrata in vigore del c.p.a., le disposizioni del c.p.c. si applicavano, in quanto compatibile salvo che non fosse diversamente previsto, al giudizio amministrativo, per cui s’applicava pacificamente anche l’art. 327, che dopo l’entrata in vigore della novella ex l. n. 69/2009, aveva ridotto da un anno a sei mesi dalla pubblicazione della sentenza il termine “lungo” per la proposizione dell’appello.

Dal punto di vista sistematico si evidenzia, per completezza, che:

a) l'art. 2 delle norme transitorie al c.p.a. limita l'ultrattività della disciplina previgente ai soli termini in corso alla data di entrata in vigore del codice (16 settembre 2010), sicché il nuovo termine lungo d'impugnazione, di sei mesi, si applica a tutte le sentenze pubblicate successivamente a tale data, a prescindere dalla data d'instaurazione del rapporto processuale di primo grado (cfr. CGA, sez. giurisdiz., 22 gennaio 2013 n. 25;
Cons. St., IV, 7 aprile 2015 n. 1761);

b) inoltre, il nuovo codice ha fissato direttamente il termine di sei mesi per l’appello (art. 92, co.3, c.p.a.) con un nuovo e diverso regime transitorio, atteso che tale nuovo termine si applica anche ai giudizi instaurati prima del 16 settembre 2010, purchè il termine per l’appello non sia ancora iniziato a decorrere;
dunque il nuovo termine di sei mesi si applica anche ai giudizi già pendenti davanti ai T.a.r., laddove il vecchio regime transitorio lasciava fuori i giudizi già pendenti in primo grado.

4.3. Alla luce di tali arresti giurisprudenziali, non sussistono dunque i presupposti per concedere l’errore scusabile, il cui beneficio, posto dall'art. 37 c.p.a., ha carattere eccezionale nella misura in cui si risolve in una deroga al principio di perentorietà dei termini processuali ed è, perciò, soggetto a regole di stretta interpretazione, giacché i termini processuali son stabiliti dal legislatore per ragioni di interesse generale (cfr. Cons. St., IV, 15 giugno 2016 n. 2638), È ben noto altresì (cfr., da ultimo, Cons. St., VI, 2 agosto 2016 n. 3493) che i relativi presupposti sono individuabili solo nell'oscurità del quadro normativo, nelle oscillazioni della giurisprudenza, in comportamenti ambigui della P.A., nell'ordine del Giudice di compiere un determinato adempimento processuale in violazione dei termini effettivamente previsti dalla legge, nel caso fortuito e nella forza maggiore, vicende, tutte queste, che nella specie non ricorrono.

5. È appena da osservare che, in ogni caso, la pretesa attorea sarebbe stata del tutto priva di pregio, in quanto:

A) – la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. St., VI, 15 luglio 2010 n. 4557;
id., IV, 2 settembre 2011 n. 4968);

B) – v’è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio (arg. ex Cons. St., IV, 7 settembre 2016 n. 3823);

C) – v’è pure l’omessa dimostrazione, da parte degli appellanti, in primo grado ed in questa sede, di essere titolari almeno d’un diritto di godimento dell’immobile o d’un altro titolo di disponibilità di esso al momento in cui chiesero il rilascio del titolo edilizio (arg. ex Cons. St., VI, 22 settembre 2014 n. 4776);

D) – è impossibile configurare una responsabilità della P.A. per illegittimo diniego del titolo edilizio, ove non risulti la prova rigorosa della spettanza del bene della vita, nella specie, a causa del testé evidenziato difetto di legittimazione al rilascio del titolo (cfr. Cons. St., IV, n. 1436 del 2016).

6. Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi