Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2015-02-16, n. 201500778
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N. 00778/2015REG.PROV.COLL.
N. 04583/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4583 del 2014, proposto dal Comune di Grado, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. S C, con domicilio eletto presso il medesimo in Roma, alla piazza Santiago del Cile 7;
contro
la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, in persona del presidente in carica, rappresentata e difesa dagli avv. E V e D I, con domicilio eletto presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione in Roma, piazza Colonna 355;
nei confronti di
la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del presidente in carica, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, e domiciliata in Roma alla Via dei Portoghesi 12;
per l'annullamento
della sentenza del T.A.R. FRIULI VENEZIA GIULIA, SEZIONE I, n. 640/2013, resa tra le parti, con la quale è stato dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo sul ricorso proposto dal Comune di Grado avverso il regolamento regionale per il rilascio di concessione in aree demaniali per attività di allevamento di molluschi bivalvi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Visti gli artt. 105, co. 2 e 87, co. 3, cod. proc. amm.;
Relatore nella Camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2015 il Cons. Nicola Gaviano e uditi per le parti l’avv. S C, l’avv. Marcello Fracanzani su delega dell'avv. D I, nonché l'avvocato dello Stato Antonio Volpe;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il Comune di Grado proponeva ricorso dinanzi al T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia impugnando il regolamento per il rilascio di concessioni in aree demaniali per l'attività di allevamento di molluschi bivalvi nella Laguna di Marano-Grado approvato dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia con d.P.G.R. n. 289 del 27.9.2006 previa delibera della G.R. n. 2139 del 15.9.2006.
Il Comune, assumendo di essere titolare dei beni pubblici oggetto della disciplina dettata dal regolamento impugnato, escludeva che la Regione potesse essere titolare di competenze in ordine al rilascio di concessioni e autorizzazioni sugli specchi acquei della Laguna.
A mezzo dell’impugnazione l’ente locale lamentava pertanto, sotto plurimi profili, l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2, 3 e 5 del d.lgs. n. 265 del 2001, degli artt. 1, 2 e 3 della L.R. n. 31 del 2005 e, in via derivata, del d.P.G.R. n. 289 del 27.9.2006, nonché l’illegittimità del medesimo d.P.G.R. per violazione e falsa applicazione di diverse disposizioni di legge, incompetenza assoluta, eccesso di potere e difetto di motivazione.
Resistevano al ricorso la Regione Autonoma e la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La Regione eccepiva in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, oltre che per carenza d’interesse e per la natura non provvedimentale dell’atto impugnato. Nel merito, ne contestava in ogni caso la fondatezza, concludendo per la sua reiezione.
Analogamente concludeva l’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
All’esito il Tribunale adìto con la sentenza n. 640/2013 in epigrafe dichiarava il ricorso comunale inammissibile per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, nella considerazione che la controversia richiedesse essenzialmente di statuire sull’appartenenza dei beni pubblici oggetto della regolamentazione regionale al Comune ricorrente, ovvero allo Stato e/o alla Regione intimata.
Più precisamente, il Tribunale perveniva alla propria declinatoria di giurisdizione attraverso un percorso logico scandito dalle seguenti proposizioni:
- “ il thema decidendum – quale risulta dalla compenetrazione tra petitum e causa petendi – consiste direttamente e principalmente nello stabilire l’appartenenza dei beni demaniali oggetto della regolamentazione regionale al Comune ricorrente anziché allo Stato e/o alla Regione intimata ”;
- “ In definitiva e nella sostanza, viene in questione il presupposto legittimante l’adozione dell’atto regolamentare impugnato, costituito dalla titolarità della laguna di Marano-Grado (che parte ricorrente ritiene essere sempre appartenuta al Comune di Grado e non, quale demanio marittimo, allo Stato … e, ora, alla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia in forza del d.lgs. 25 maggio 2001, n. 265), e non la correttezza dell’esercizio del potere regolamentare in ordine al rilascio delle concessioni demaniali in tale area da parte della Regione ”;
- “ la controversia relativa alla determinazione della natura demaniale (nel caso: demanio regionale) o privata (nel caso: comunale) di un’area rientra … nella giurisdizione del giudice ordinario, concernendo essa l’accertamento dell’esistenza e dell’estensione della demanialità ovvero una questione di diritto soggettivo ”.
Seguiva contro tale decisione la proposizione del presente appello alla Sezione da parte dello stesso Comune, che contestava la correttezza dell’impostazione seguita dal primo Giudice svolgendo, in sintesi, le presenti deduzioni.
L’ente locale premetteva essere “ certa, ed, al momento, incontestata ed incontestabile la situazione giuridica soggettiva di proprietà jure privatorum della laguna stessa in capo al Comune di Grado ”.
Esso, inoltre, escludeva che la propria pretesa attorea fosse “ volta all’accertamento incidentale della proprietà comunale dell’area in questione, previa negazione della demanialità dell’area stessa ”, puntualizzando che il petitum del proprio ricorso non contemplava richieste del genere, dal momento che la proprietà comunale indicata doveva reputarsi “ presupposto pacifico ed incontestabile ” delle sue censure al regolamento.
Il Comune ricordava poi che spetta alla parte ricorrente la determinazione dell’oggetto del giudizio. E puntualizzava, indi, di non avere proposto con il proprio ricorso un’azione di accertamento dei propri diritti proprietari (non avendo interesse a far accertare situazioni giuridiche “ già certe, pacifiche e consolidate nel tempo ”);e, correlativamente, che la Regione appellata non aveva titolo per negare tale diritto comunale.
Da qui la sua conclusione che il processo non verteva sui suoi diritti proprietari, il cui accertamento non era stato richiesto da alcuna delle parti, e che il Giudice avrebbe dovuto attenersi a siffatta domanda giudiziale.
Resistevano all’appello la Regione Autonoma e la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Alla Camera di consiglio del 3 febbraio 2015 la causa è stata trattenuta in decisione.
La Sezione deve rilevare d’ufficio la irricevibilità dell’appello, conformemente al preavviso dato all’apertura dell’odierna Camera di consiglio alle parti ai sensi dell’art. 73, comma 3, C.P.A..
L’art. 92 C.P.A. (“ Termini per le impugnazioni ”), nel suo comma 3, con norma di carattere generale stabilisce che, “ In difetto di notificazione della sentenza, l’appello, la revocazione di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395 del codice di procedura civile e il ricorso per cassazione devono essere notificati entro sei mesi dalla pubblicazione della sentenza .”
Tale disposizione è però derogata dall’art. 87 C.P.A. per i procedimenti in Camera di consiglio.
Il comma 3 di tale articolo stabilisce, infatti, che per tali particolari procedimenti “ tutti i termini processuali sono dimezzati ” rispetto a quelli del giudizio ordinario, tranne “ quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti ”. E l’art. 105, comma 2, a sua volta, dispone che “ Nei giudizi di appello contro i provvedimenti dei tribunali amministrativi regionali che hanno declinato la giurisdizione … si segue il procedimento in camera di consiglio, di cui all’articolo 87, comma 3 .”
Si desume perciò con sufficiente immediatezza dalla lettura coordinata delle norme appena illustrate che nel caso di cui si tratta, quello di un appello, appunto, avverso una sentenza declinatoria di giurisdizione, il termine c.d. lungo per la notificazione di tale gravame è dimidiato rispetto a quello ordinario di 6 mesi.
Non varrebbe obiettare che il richiamo del citato art. 105, comma 2, si riferirebbe solo al “ procedimento in camera di consiglio ” e non anche ai relativi termini, dal momento che questi ultimi sono parte integrante del relativo rito.
D’altra parte, il richiamo di cui si tratta riguarda specificamente il comma 3 dell’articolo 87, nel corpo del quale campeggia proprio la regola del dimezzamento dei termini ordinari.
Né sarebbe fondato assumere che la regola del dimezzamento valga solo per il giudizio camerale di primo grado, e non anche per quello di appello. Il comma 3, nell’enunciarla, si riferisce espressamente, difatti, a “ tutti i termini processuali ”, senza limitazioni. L’art. 87, inoltre, appartiene al Libro II del C.P.A.: e l’art. 38 del Codice stabilisce che le disposizioni di tale Libro non espressamente derogate si applicano anche ai giudizi di impugnazione.
Per completezza, va sottolineato che al momento della proposizione del presente appello era già operativa la modificazione apportata al comma 3 dell’art. 87 dal d.lgs. n. 195/2011, entrato in vigore l’8 dicembre 2011. Questa ha specificato che i termini che sono sottratti alla regola del dimezzamento (come si è visto, i termini riguardanti la notifica del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti) sono esclusivamente quelli del “ giudizio di primo grado ”: precisazione la cui stessa esistenza conferma, appunto, come quest’ultima regola si imponga anche per il giudizio di appello.
Tutto ciò posto, nella fattispecie concreta la sentenza formante oggetto di appello è stata pubblicata il 10 dicembre 2013, mentre il presente gravame è stato avviato a notifica l’8 maggio 2014.
L’atto di appello è stato quindi notificato circa cinque mesi dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, e pertanto ben oltre il termine dimidiato di tre mesi prescritto dall’art. 87, comma 3, C.P.A. (nel senso che in applicazione dell'art. 87 C.P.A. l'appello avverso le sentenze che declinano la giurisdizione debba essere proposto nel termine di tre mesi, e non di sei (cfr. già Sez. V, 31 dicembre 2014, n. 6451;IV, 31 ottobre 2013, n. 5267;VI, 20 marzo 2012, n. 1574;cfr. altresì, rispetto ad altri procedimenti di natura camerale, V, 1° aprile 2011, n. 2036;III, 26 gennaio 2012, n. 363).
Per le ragioni esposte deve escludersi, infine, che sussistano presupposti tali da giustificare il riconoscimento del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile.
L’appello deve dunque essere dichiarato senz’altro irricevibile.
Le spese processuali del presente grado possono, tuttavia, essere equitativamente compensate tra le parti in causa.