Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-04-14, n. 201002086

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2010-04-14, n. 201002086
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201002086
Data del deposito : 14 aprile 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 04557/2009 REG.RIC.

N. 02086/2010 REG.DEC.

N. 04557/2009 REG.RIC.

N. 09396/1998 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 4557 del 2009, proposto da:
F F, rappresentato e difeso dagli avv.ti C P e M V, con domicilio eletto presso Alfredo Placidi, in Roma, via Cosseria N.2;

contro

Comune di Ravenna, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli avv.ti E B, G D e P G, con domicilio eletto presso Maria Teresa Barbantini, in Roma, viale Giulio Cesare, 14;



Sul ricorso numero di registro generale 9396 del 1998, proposto da:
F F, rappresentato e difeso dagli avv.ti Gian Carlo Fantini ed Arnaldo Foschi, con domicilio eletto presso Gian Marco Grez, in Roma, corso V. Emanuele II, 18;

contro

Comune di Ravenna, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dagli avv.ti E B e Maria Teresa Barbantini, con domicilio eletto presso Maria Teresa Barbantini, in Roma, viale Giulio Cesare n. 14;

per la riforma

1) quanto al ricorso n. 9396 del 1998:

della sentenza del Tar Emilia Romagna - Bologna - sezione I n. 00796/1997, resa tra le parti, concernente DEMOLIZIONE CAPANNO TURISTICO.

2) quanto al ricorso n. 4557 del 2009:

della sentenza del Tar Emilia Romagna - Bologna - sezione I n. 01237/2008, resa tra le parti, concernente RIGETTO ISTANZA DI SANATORIA EDILIZIA.

Visti i ricorsi, con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione, in entrambi i giudizii, del Comune di Ravenna;

Viste le memorie in ciascuno dei ricorsi prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive domande e difese;

Vista l’Ordinanza n. 2247/1998, pronunciata nella Camera di Consiglio del giorno 20 novembre 1998, di accoglimento della domanda di sospensione dell’esecuzione della sentenza appellata con il ricorso R.G. n. 9396/1998;

Visti gli atti tutti della causa;

Data per letta, alla pubblica udienza del 9 febbraio 2010, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;

Udita, alla stessa udienza, l’avv. Maria Teresa Barbantini, anche in sostituzione dell’avv. E B, per l’appellato Comune di Ravenna, nessuno essendo ivi comparso per l’appellante;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:


FATTO e DIRITTO

1. – Con atto notificato il 13 ottobre 1998 e depositato il successivo 3 novembre 1998 ( rubricato al n. R.G. 9396/1998 ), il privato appellante ha impugnato la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sede di Bologna, n. 796/97, che ha dichiarato inammissibile il ricorso da lui proposto contro il provvedimento in data 28 settembre 1994 Ord. n. 680/94 prot. 40849/86 del Sindaco del Comune di Ravenna, di demolizione e ripristino di un capanno turistico (nonché avverso il presupposto Regolamento edilizio del Comune di Ravenna), realizzato, insieme a numerosi altri, dalla parte ricorrente in Comune di Ravenna, in prossimità della foce del fiume Bevano.

Si è costituito in giudizio il Comune di Ravenna, deducendo l’infondatezza in fatto ed in diritto del gravame.

Con Ordinanza n. 2247/1998, pronunciata nella Camera di Consiglio del giorno 20 novembre 1998, è stata accolta la domanda di sospensione dell’esecuzione della sentenza appellata.

Con successive memorie le parti hanno insistito sulle rispettive tesi e domande.

2. - Con atto notificato il 13 maggio 2009 e depositato il successivo 29 maggio 2009 ( rubricato al n. R.G. 4557/2009 ), è stata poi dallo stesso appellante impugnata la sentenza del medesimo T.A.R. n. 1237/08, con la quale è stato respinto il ricorso da lui proposto avverso il provvedimento ( nonché gli atti dallo stesso presupposti ) in data 7 novembre 1991 C.T. n. 6470/86 P.G. n. 490849/86 del Sindaco del Comune di Ravenna, recante il rigetto della domanda di sanatoria (cosiddetto condono edilizio) del capanno turistico, di cui sopra.

Si è costituito in giudizio, per resistere, il Comune di Ravenna, che, con successiva memoria in data 13 luglio 2009, analiticamente deduce a sostegno della tesi della infondatezza dell’atto di appello.

Anche l’appellante ha prodotto, in data 29 gennaio 2010, memoria, con la quale si riporta a quanto già esposto nel ricorso introduttivo, ribadendo, in particolare, “come per la realizzazione originaria del manufatto non fosse richiesto alcun titolo autorizzativo edilizio”.

3. - Le cause sono state congiuntamente chiamate e trattenute in decisione alla udienza pubblica del 9 febbraio 2010.

4. – Va preliminarmente disposta la riunione dei due giudizii, stante l’evidente connessione oggettiva e soggettiva, che li avvince.

5. – Per evidenti ragioni d’ordine logico e cronologico in relazione alla successione degli atti oggetto dei due giudizii, va prioritariamente esaminato l’appello R.G. n. 4557/2009, nel quale si controverte della legittimità del diniego di sanatoria edilizia del capanno di cui s’è detto.

5.1 – Con il primo motivo d’appello si sostiene l’erroneità della sentenza impugnata, laddove ha dichiarato inammissibile il primo motivo dell’originario ricorso, vòlto a contestare il carattere abusivo dell’immobile oggetto di detto diniego.

Così come, in sostanza, si sostenevano con il ricorso originario l’assenza di qualsivoglia “illegittimità originaria della costruzione” e la conseguente irrilevanza ed inutilità della domanda di sanatoria presentata, si precisa in grado di appello che “non essendo necessario alcun titolo autorizzatorio all’epoca della realizzazione del manufatto … non appare ipotizzabile, nel corso del tempo, neppure la successiva adozione di un titolo a sanatoria di una situazione geneticamente legittima” ( pag. 4 app. ).


Il mezzo di gravame è manifestamente infondato.

Nel processo di impugnazione del diniego di concessione edilizia in sanatoria sono invero inammissibili le censùre, che contestino il carattere abusivo del manufatto.

Ciò è quanto si verifica nel caso in esame, in cui la parte interessata, surrettiziamente sostenendo l’inutilità del diniego di condono ed il carattere meramente tuzioristico della sua richiesta in assenza di abuso, tenta di superare le ragioni ostative opposte dall’Amministrazione al rilascio del titolo, rimettendo in discussione innanzitutto la necessità del nulla osta o della licenza comunale all’atto della realizzazione del manufatto, di cui è stata richiesta la sanatoria.

5.1.1 – Omette così l’appellante di considerare che il procedimento per condono edilizio ex l. n. 47 del 1985 è ad istanza di parte ( la sanabilità delle opere abusivamente realizzate potendo essere verificata dall’Amministrazione solo su istanza dell’interessato ), che dev’essere corredata da una dichiarazione sostitutiva d’atto notorio relativa alla descrizione e collocazione temporale dell’abuso, che s’intende sanare.

Nella specie, la dichiarazione della parte odierna appellante (ovvero del suo dante causa), di cui si fa peraltro espressa menzione nella successiva diffida a demolire ( oggetto del secondo degli appelli all’esame ), da un lato non è stata in alcun modo contestata dall’Amministrazione ( che sulla stessa finisce per poggiare le proprie determinazioni ), dall’altro assume carattere e natura di atto confessorio per ciò che concerne la realizzazione dell’abuso e la sua collocazione temporale ( Cons. St., V, n. 1344/08 ).

Infatti, nella domanda di condono edilizio, la parte richiedente dichiara che sussistono i requisiti previsti dalla legge per l’applicazione del beneficio richiesto (tra i quali, per quanto rileva nella fattispecie all’esame, la condizione di obiettiva abusività, in cui l’opera deve trovarsi alla data del 1 ottobre 1983) e siffatta dichiarazione è chiaramente destinata a provare la verità dei fatti attestati, producendo immediatamente effetti rilevanti sul piano giuridico ( Cass. Pen., sez. III, 24 gennaio 2003, n. 9527 ).

5.1.2 – Ciò premesso, è fuori discussione che, ove difettasse in concreto siffatta condizione, quale che ne fosse la ragione, verrebbe meno in radice ( stante l’eccezionalità delle norme sul condono, per questo suscettibili solo di stretta interpretazione ) il presupposto stesso fondante la legittimazione all’attivazione del procedimento amministrativo di accesso ai beneficii di legge;
presupposto, tuttavia, il cui accertamento è sottratto a qualsivoglia tipo di scrutinio in sede di impugnazione dell’atto conclusivo di quel procedimento, nel quale la predetta dichiarazione del privato, produttiva di effetti non revocabili sul piano giuridico ( nemmeno in caso di ritiro della domanda di condono, che non varrebbe ad elidere il carattere confessorio della stessa quanto all’avvenuta realizzazione dell’abuso ), è stata trasfusa.

Tali essendo il contenuto, lo scopo e l’oggetto del procedimento amministrativo di condono e del provvedimento conclusivo negativo ( c.d. “atto di ripulsa” ) in questa sede impugnato, dev’essere interamente condiviso l’orientamento della sentenza appellata, laddove ha ritenuto non contestabile la abusività dell’opera ( per mancanza del titolo abilitante richiesto all’epoca della realizzazione ) implicitamente ma chiaramente affermata con la presentazione della domanda di condono;
l’abuso edilizio costituisce, invero, non soltanto presupposto implicito del diniego, ma la ragione stessa del potere ( e del suo esercizio ), da parte dell’Ente, di concedere la sanatoria, che rinviene causa ed oggetto nelle dichiarazioni del privato, sulla base delle quali la P.A. lo ammette alla procedura di sanatoria, indipendentemente dalle irrilevanti riserve mentali del richiedente ( v. Cons. St., n. 1344/98, cit. ).

La destinazione e lo scopo della dichiarazione del privato, e gli effetti di essa sul piano giuridico ( che impongono una particolare tutela, anche penale: v. art. 483 cod. pen. ), precludono, in definitiva, in sede di impugnazione del provvedimento di diniego di condono, la possibilità di rimettere in discussione il carattere abusivo dell’opera come tale denunciata e dichiarata;
preclusione, questa, che va poi logicamente estesa alla sede dell’impugnazione dell’ordine di demolizione, che rinvenga nel diniego di sanatoria il suo presupposto.

5.2 – Con il secondo motivo di appello, si censura la motivazione del provvedimento impugnato, fondata “su un asserito contrasto con le esigenze ambientali”, che si sostiene essere apoditticamente affermato nel provvedimento stesso, laddove, invece, “nel negare il condono edilizio in una zona vincolata paesaggisticamente è imprescindibile per l’ente esternare le ragioni in base alle quali le caratteristiche costruttive ed i materiali utilizzati lederebbero l’ambiente” ( pag. 6 app. ).

Anche tale mezzo di gravame si rivela privo di fondamento.

L’opposto diniego dipende invero essenzialmente dalla ritenuta incompatibilità dell’opera sita in area vincolata ex art. 32 della legge n. 47 del 1985, sulla base di parere appositamente richiesto alla competente Commissione integrata, nel caso di specie “contrario con particolare riferimento alla tipologia ed ai materiali impiegati rilevando inoltre il contrasto al Regolamento vigente ed adottato” ( così il parere in data 15 aprile 1991, riportato nelle premesse dell’atto di rigetto impugnato ).

Va in proposito osservato che, in sede di diniego di concessione edilizia in sanatoria di opera abusiva realizzata in zona soggetta a vincolo paesaggistico, il giudizio in ordine alla compatibilità degli interventi, in quanto espressione di un potere tecnico-discrezionale, si rivela censurabile in sede di legittimità solo per un'errata od incompleta considerazione degli elementi di fatto, o per palese illogicità del giudizio formulato dall'Autorità competente ( in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 18 ottobre 1999, n. 1438 );
ed il generale obbligo, gravante sull’Autorità, di motivazione del provvedimento amministrativo, non risulta peculiarmente aggravato nel caso in cui la determinazione dell’Amministrazione dia conto della necessità di preservare beni soggetti a tutela paesistica consacrata mediante l’imposizione di un vincolo (Cons. St., IV, 19 luglio 2004, n. 5180).

Occorre, allora, andare a verificare nella fattispecie se la motivazione resa a giustificazione del provvedimento negativo oggetto del presente giudizio risponda o meno a quei requisiti di sufficienza e logicità richiesti da un più che ormai consolidato orientamento giurisprudenziale.

Orbene, ritiene il Collegio che non sussista il denunciato difetto di motivazione degli atti, con i quali è stata negata l'autorizzazione paesaggistica necessariamente propedeutica alla sanatoria, che recano osservazioni le quali, se pure stringate, non possono definirsi insufficienti e neppure incongrue.

Invero sia la C.E.I. che la Giunta Municipale ( che ha ratificato il parere negativo della prima ) hanno in sostanza sottolineato la circostanza che i materiali usati per la realizzazione del manufatto in questione non sono consoni al decoro dell'ambiente: un siffatto rilievo non è innanzitutto inconferente, per essere l'utilizzo dei materiali uno degli elementi costitutivi del giudizio di compatibilità paesaggistica;
neppure, poi, può dirsi generico, giacché, per sua stessa natura, la valutazione così espressa, nell'esercizio di un potere che inerisce a specifiche competenze tecniche, si rivela esaustiva;
non si rinvengono, infine, elementi di apoditticità in tale giudizio, che, al contrario, appare ancorato ad una compiuta conoscenza dello stato dei luoghi, i quali, dall’esame della documentazione fotografica prodotta in giudizio, appaiono effettivamente subire un forte impatto negativo per effetto del manufatto, di che tràttasi.

Né l’appellante si fa peraltro càrico di contestare lo specifico riferimento, contenuto in detti atti, al rilevato contrasto del manufatto stesso con il Regolamento vigente ed adottato, da intendersi riferito, sulla base delle convincenti argomentazioni difensive dell’Amministrazione, al vigente Regolamento per l’installazione di capanni da pesca e da caccia (dall’Amministrazione stessa versato in atti), sulla base del quale risulta in fatto che l’opera di cui si tratta, piuttosto che presentare le caratteristiche di un capanno da pesca come ivi definite, si caratterizza per spiccate caratteristiche abitative ( v., ancora, le fotografie pure in atti ).

5.3 – Da tutto quanto sopra considerato deriva l’infondatezza dell’appello n. 4557/2009, con conseguente conferma dell’impugnata sentenza T.A.R. n. 1237/2008, che ha ritenuto la legittimità dell’impugnato diniego di sanatoria.

6. – Si può passare ora all’esame dell’appello n. 9396/1998, rivolto avverso la sentenza T.A.R. n. 796/1997, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’odierno appellante avverso il provvedimento in data 28 settembre 1994 Ord. n. 680/94 prot. 40849/86 del Sindaco del Comune di Ravenna, recante la diffida a demolire il capanno turistico di cui sopra, nonché avverso gli atti dallo stesso presupposti ed in particolare, per quanto possa occorrere, il Regolamento Edilizio del Comune di Ravenna approvato nel 1930.

L’appello si rivela in parte infondato ed in parte inammissibile.

Se è vero, infatti, che tale ingiunzione costituisce atto vincolato e dovuto dall’Amministrazione in séguito al diniego di sanatoria emesso con atto in data 7 novembre 1991 C.T. n. 6470/86 P.G. n. 490849/86 del Sindaco del Comune di Ravenna, che peraltro le censùre avverso lo stesso proposte con il ricorso di primo grado mediante cinque specifici motivi di impugnazione sono (anche) di illegittimità derivata da quella denunciata in relazione al predetto diniego di sanatoria regolarmente fatto oggetto di impugnazione ( ed oggetto in questa sede dell’appello n. 4557/2009 sopra esaminato ) e che dunque certamente sussiste il denunciato vizio processuale della erroneità della declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado ( pronunciata dal T.A.R. sull’inesistente presupposto che il ricorrente non avesse regolarmente impugnato il precedente diniego di permesso di costruire in sanatoria ), non essendo in definitiva ravvisabili nella fattispecie gli estremi di fatto per l’applicazione dell’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa in materia secondo cui è inammissibile l'impugnazione giurisdizionale del provvedimento di demolizione di opere edilizie abusivamente realizzate che surrettiziamente tenti di rimettere in discussione la legittimità del presupposto diniego di concessione edilizia in sanatoria non impugnato ed ormai divenuto inoppugnabile ( sul quale v., "ex multis" e da ultimo, C.d.S., sez. V, 6/2/2008, n. 310 ), detto vizio comporta che il ricorso di primo grado debba essere esaminato nel mérito, profilo sotto il quale:

- risultano infondati i motivi del ricorso introduttivo espressamente richiamati nell’atto di appello ( quello generico di illegittimità derivata dall’illegittimità del diniego di condono e quello più specifico attinente alla pretesa mancata necessità del permesso di costruire per la realizzazione del manufatto di cui trattasi ), la sopra accertata legittimità dell’atto preclusivo del condono valendo a rendere infondato per derivazione ( nella misura in cui vengono riproposte le stesse doglianze ) il ricorso proposto contro l’atto applicativo vòlto alla demolizione delle opere abusive ( carattere, questo, come s’è visto non più revocabile in dubbio dopo che lo stesso privato ne ha affermato la verità chiedendone il condono ), una volta che le stesse risultano non aver beneficiato di “condono”, sì da esser suscettibili delle ordinarie sanzioni ( cfr. art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ), essendo imprescrittibile l'esercizio del potere di controllo e sanzionatorio in materia urbanistico-edilizia e paesistica ( cfr. Cons. Stato: VI, 15.3.07, n. 1255;
IV, 2.6.00, n. 3184 ) ed essendo comunque nel caso di specie del tutto infondata la tesi della “legittimità originaria della costruzione” (pag. 5 app.), atteso che lo stesso appellante ha ammesso, in sede di ricorso originario, che l’intervento di cui si tratta si colloca all’interno di un “agglomerato” di tipo abitativo e dunque di un vero e proprio centro abitato, come tale necessariamente soggetto a licenza edilizia quand’anche realizzato anteriormente alla riforma della legge urbanistica nazionale del 1967 ( cfr., sul punto, pareri del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 599/96 del 24 settembre 1996, n. 715/96 dell’11 dicembre 1996 e n. 2308 del 2 luglio 1997, emessi su richiesta di parere del Ministero dei lavori pubblici a seguito di ricorsi straordinarii proposti contro il Comune di Ravenna, riguardanti altrettante ordinanze di demolizione e riduzione in pristino di analoghi manufatti denominati “capanni”, siti nella stessa area );

- è inammissibile la generica riproposizione degli “ulteriori motivi di impugnazione” non esaminati dal T.A.R. a séguito della contestata ( come s’è visto fondatamente ) pronuncia in rito, essendo l’esame di siffatti motivi ( non esaminati in primo grado per effetto di una pronuncia meramente processuale ) consentito al Giudice di appello solo se intervenga un’apposita iniziativa della parte interessata (nella fattispecie con tutta evidenza mancante), che li richiami espressamente;
l’ònere di riproposizione dei motivi in tal guisa rimasti assorbiti dalla sentenza impugnata esige infatti, per il suo rituale assolvimento, che la parte appellata indichi specificamente le censure che intende devolvere alla cognizione del giudice di secondo grado, all'evidente fine di consentire a quest'ultimo una compiuta conoscenza delle relative questioni ed alle controparti di contraddire consapevolmente sulle stesse, con la conseguenza che un indeterminato rinvio agli atti di primo grado, senza alcuna ulteriore precisazione del loro contenuto - come nella specie avvenuto - si rivela inidoneo ad introdurre nel giudizio d'appello i motivi in tal modo dedotti, trattandosi di formula di stile insufficiente a soddisfare l'onere di "espressa" riproposizione ( cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 settembre 2008, nr. 5433;
Cons. Stato, sez. VI, 29 marzo 2007, nr. 147;
Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2003, nr. 5322;
da ultimo, Cons. St., IV, 3 marzo 2009, n. 1219 e, con specifico riferimento alla contestazione di una pronuncia meramente processuale ed al conseguente ònere di riesposizione delle ragioni fatte valere in primo grado ai fini dell’ammissibilità dell’appello, Cons. St., IV, 18 dicembre 2008, n. 6369 ), che peraltro, qualora non ritualmente soddisfatto con l’atto introduttivo, non è utilmente surrogabile in sede di memoria, restando notoriamente precluse, a fronte dell’inidoneità dell’atto di appello a soddisfare il requisito della specificità dei motivi, sia la precisazione di censure nell'atto stesso esposte in modo generico che la possibilità di ampliamenti successivi delle censure originariamente dedotte ( v. Cons. St., IV, n. 6369/2008, cit. ).

6.1 - In conclusione, l'appello n. 9396/1998, rivolto avverso la sentenza T.A.R. n. 796/1997 dichiarativa dell’inammissibilità del ricorso proposto avverso la diffida a demolire, pur fondato quanto alla contestazione di tale statuizione puramente processuale, va nel mérito in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado.

7. - In considerazione della complessità e novità delle questioni esaminate nel presente giudizio, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

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