Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2024-07-19, n. 202406545

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2024-07-19, n. 202406545
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202406545
Data del deposito : 19 luglio 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 19/07/2024

N. 06545/2024REG.PROV.COLL.

N. 05916/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5916 del 2023, proposto da
-OMISSIS- rappresentato e difeso dall'avvocato S C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Lecce, via G. Toma n. 45;

contro

Ministero dell'Interno, Questura Lecce, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Questura Lecce;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 il Pres. M C e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con provvedimento del 2 ottobre 2020, la Questura della Provincia di Lecce rigettava l’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo, già rilasciato al cittadino nigeriano -OMISSIS-odierno appellante, invitandolo altresì a lasciare il territorio nazionale.

Il provvedimento veniva adottato in ragione della prolungata assenza del richiedente sul territorio, della tardiva presentazione dell’istanza e di una condanna a cinque anni di reclusione riportata in Svezia, paese dell’Area Schengen, per la commissione di reati in materia di stupefacenti. Il Questore rilevava altresì che l’odierno appellante non aveva dimostrato alcuna integrazione reale con il territorio italiano, dove non aveva alcuna famiglia né svolgeva attività lavorativa, avendo dichiarato redditi solo per l’anno 2013. Per tali ragioni, gli interessi di ordine e sicurezza pubblica venivano ritenuti prevalenti rispetto a quello del cittadino nigeriano a soggiornare sul territorio nazionale.

Il -OMISSIS-impugnava il provvedimento innanzi al Tr Puglia, sezione Lecce, deducendo la violazione dell’art. 10 bis l. n. 241 del 1990, la violazione e erronea applicazione dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 e la violazione dell’art. 5, comma 5 bis, d.lgs. n. 286 del 1998, la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 241del 1990 in relazione all’art. 19, commi 1 e 1.1., d.lgs. n. 286 del 1998 e in relazione all’art. 33/1 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e della Direttiva n. 2011/95/UE, la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, la violazione degli artt. 2 e 97 Cost. e degli artt. 5, commi 9, 19 e 2 lett. d-bis, t.u. imm. e la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 4, d.lgs. n. 286 del 1998.

Con sentenza del 26 giugno 2023, oggi impugnata, il Tr Puglia respingeva il ricorso in quanto infondato e compensava le spese di giudizio, ritenendo il provvedimento del Questore esaustivamente e correttamente motivato.

Con cinque motivi di ricorso, l’appellante censura la sentenza del Tr, ritenendo che:

1. questa abbia erroneamente condiviso la valutazione del Questore, basata sulla sola gravità dei reati commessi e ponendo così in essere un automatismo in ordine al giudizio di pericolosità sociale, anche in contrasto con la recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 88/2023 e in violazione dell’art. 8 CEDU;

2. vi sia stato un difetto istruttorio e una conseguente carenza di motivazione sull’integrazione sociale dell’odierno appellante;

3. la pronuncia abbia violato il principio di “non respingimento” sancito dalla Convenzione di Ginevra;

4. il Tr abbia errato nel ritenere legittimo il provvedimento questorile nella parte in cui non ha rilasciato un permesso di soggiorno per motivi di salute, pur sussistendone i requisiti;

5. la sentenza erri nel non qualificare la detenzione scontata in Svezia quale causa di forza maggiore, determinante il ritardo nella presentazione dell’istanza e l’assenza prolungata dal territorio italiano.

In data 29 agosto 2023, si sono costituite le amministrazioni appellate con memoria formale, per resistere all’appello.

Alla pubblica udienza dell’8 febbraio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato.

1. Con il primo motivo, l’appellante censura l’applicazione di un automatismo espulsivo in ordine al giudizio di pericolosità sociale effettuato dal Questore. La valutazione di quest’ultimo, condivisa dal Tr, si fonderebbe infatti sulla sola gravità dei reati commessi in Svezia, per i quali la pena non solo è già stata espiata, ma si è conclusa anticipatamente per buona condotta.

Sostiene inoltre che la pronuncia di primo grado erri nel non ritenere applicabile il dictum della sentenza della Corte Costituzionale n. 88 del 2023, che non circoscriverebbe l’illegittimità dell’automatismo espulsivo ai soli casi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, ma si estenderebbe a ogni ipotesi di lesione dei diritti fondamentali della persona.

Le argomentazioni sostenute dall’appellante non sono condivisibili.

L’art. 4, comma 3, come modificato dall’art. 4, comma 1, lettera b), l. 30 luglio 2002, n. 189 stabilisce che non è ammesso in Italia lo straniero: “(…) che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato (...) o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380 commi 1 e 2 del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale (...)”;
l’art. 5, comma 5 dello stesso decreto prevede che “il permesso di soggiorno o suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 22, comma 9, e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili”.

Con sentenza n. 88 del 2023, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del d.lgs. n. 286/1998 nella parte in cui ricomprende, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 e per il reato di cui all’art. 474, secondo comma, c.p., senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente.

Nella pronuncia, il thema decidendum è delineato in modo chiaro e l’incostituzionalità della presunzione in esame trova la sua ragione, con riferimento all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990, proprio nella lieve entità che caratterizza i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero la qualità e quantità delle sostanze. Sarebbe infatti irragionevole e sproporzionato escludere che, in tali ipotesi, l’amministrazione possa valutare la situazione concreta del richiedente.

Come correttamente rilevato dal Tr, la condanna riportata in Svezia non attiene a fatti di lieve entità e non trova dunque applicazione il principio di diritto enunciato dalla Corte Costituzionale. La condanna dell’appellante alla pena di anni cinque di reclusione per reati in materia di stupefacenti è incontestata in giudizio.

L’espiazione della pena e la sua conclusione anticipata per buona condotta, inoltre, sono recessive rispetto alla gravità dei reati commessi.

Va altresì rilevato che il provvedimento del Questore non si fonda sulla sola circostanza della condanna riportata dall’odierno appellante, essendo motivato anche in ordine all’assenza di una integrazione sociale e di legami familiari sul territorio italiano. Anche per tali ragioni, come specificato dal Tr, la situazione personale del -OMISSIS-non rientrerebbe nell’ambito applicativo dell’art. 8 Cedu, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

2. Tle profilo è connesso altresì al secondo motivo di ricorso, con cui si lamentano il difetto di istruttoria e la carenza di motivazione sull’integrazione sociale dell’odierno appellante. Queste ragioni, invero, non sarebbero state comunicate dal Questore quali motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, precludendo così al -OMISSIS-di presentare osservazioni sul punto. Ne consegue che, secondo l’appellante, la sentenza del Tr sarebbe errata nella parte in cui non censura il provvedimento questorile, ritenendo non potesse avere un contenuto diverso da quello adottato.

La doglianza non è suscettibile di apprezzamento.

L’art. 21 octies l. n. 241/1990, come riformato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, al secondo comma dispone che: “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10 bis”.

La norma introduce dunque due eccezioni al favor partecipationis che permea l’intero procedimento amministrativo. La prima, che viene in rilievo in questa sede, è disciplinata nel primo periodo e si ravvisa nel caso di provvedimento vincolato. In tale ipotesi, la violazione delle norme sul procedimento non determina l’annullamento dell’atto, poiché nessuna circostanza di fatto, pur debitamente dedotta, sarebbe idonea a modificare l’esito del procedimento.

Come si è già rilevato, il reato commesso dall’odierno appellante in Svezia rientra nel novero dei cosiddetti reati ostativi che, ai sensi dell’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998, precludono la permanenza in Italia per una scelta operata a monte dal legislatore. Ne consegue che non è necessario un accertamento in concreto della pericolosità sociale del cittadino straniero da parte del Questore né una valutazione del suo grado di integrazione nel contesto sociale italiano.

Va dunque condiviso quanto affermato dal Tr in ordine alla natura vincolata del provvedimento del Questore, trovando pertanto applicazione l’art. 21 octies, comma secondo, primo periodo, l. 241/1990. Il provvedimento non è dunque affetto da illegittimità in quanto, stante la sua natura vincolata in ragione dei reati commessi, non avrebbe potuto avere un diverso contenuto.

3. Con il terzo motivo di appello si deducono la violazione e la falsa applicazione dell’art. 3, l. n. 241/1990 in relazione all’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 del d.lgs. n. 286/1998. Secondo il Nwagba, invero, il Questore non avrebbe tenuto in considerazione la sua situazione personale e quella del Paese di provenienza, violando così anche il principio di non refoulement .

Sul punto si precisa quanto segue.

Il principio del non-refoulement è previsto dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 a mente del quale:

1. Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.

2. Il beneficio di detta disposizione non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato .

La protezione dal refoulement così come enunciato dall’art. 33(1) si applica ad ogni persona che possa definirsi “rifugiato” in base alla Convenzione del 1951, cioè a chiunque soddisfi i criteri enunciati nella definizione di rifugiato contenuta nell’art. 1A(2) della Convenzione del 1951 (i criteri di “inclusione”) e non rientri nell’ambito di una delle disposizioni di esclusione.

Come chiarito nel Parere consultivo reso dall’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, UNHCR nel 2007, “ Il divieto di refoulement verso una situazione di pericolo di persecuzione in base al diritto internazionale dei rifugiati è applicabile a ogni forma di trasferimento forzato, compresi deportazione, espulsione, estradizione, trasferimento informale o “rendition” e non ammissione alla frontiera nelle circostanze descritte di seguito. Ciò risulta evidente dalla terminologia utilizzata nell’art. 33(1) della Convenzione del 1951, che così si riferisce all’espulsione o respingimento (refoulement): “in nessun modo (..)”.

Tle principio non si applica, ratione personae , non soltanto ai rifugiati riconosciuti come tali ma anche a coloro il cui status non è stato (ancora) formalmente dichiarato ma che rispecchiano la definizione contenuta nell’art. 1, lettera A) della Convenzione e nell’art. 1 del Protocollo del 1967, vale a dire coloro i quali “ temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese;
oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra
”.

Alla tutela della persona rifugiata vi è una sola eccezione, disposta dal comma 2 dell’art. 33: “Il beneficio di detta disposizione [art. 33(1)] non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato ”.

Il divieto di espulsione di cui all’art. 19 d.lgs. n. 286/1998 trova applicazione sia con riferimento ai provvedimenti giudiziali sia a quelli amministrativi, inclusi i casi di allontanamento dallo Stato per motivi di ordine pubblico o sicurezza e di prevenzione del terrorismo. La norma, pertanto, al pari dell’art. 23 della Convenzione di Ginevra, si inserisce nel quadro delineato dall’art. 3 Cedu che proibisce, con un divieto di carattere assoluto, la tortura e i trattamenti o le pene disumani o degradanti.

La Corte Edu interpreta l’art. 3 Cedu nel senso che nessuno può essere estradato o espulso se, nel Paese di arrivo, vi è il rischio di essere sottoposti a tortura o a trattamenti disumani o degradanti ( ex multis Soering c. Regno Unito). Tuttavia, il pericolo deve essere concreto e attuale e non meramente potenziale, non integrandosi, in quest’ultima ipotesi, una violazione della Convenzione.

Così ricostruito il principio, esso non è dirimente alla fattispecie di che trattasi.

Merita conferma, a questo proposito, la sentenza appellata laddove richiama la decisione della competente Commissione Territoriale di Foggia, che già il 10 dicembre 2012, aveva escluso il riconoscimento dello status di rifugiato all’appellante in considerazione dell’assenza di un “ pericolo di persecuzione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato ”, non essendovi “ alcun rischio effettivo di subire un grave danno in ipotesi di rimpatrio ”.

La prognosi compiuta dall’amministrazione procedente si è fondata sulla decisione della Commissione e sulla pericolosità dell’appellante in base alla condanna irrogata dall’Autorità svedese.

Non emergono agli atti ulteriori elementi favorevolmente apprezzabili in questa sede, anche successivi a quelli indicati all’organo competente per il riconoscimento dello status di rifugiato.

4. Con il quarto motivo si censura il mancato rilascio del permesso di soggiorno per motivi di salute, per il quale l’odierno appellante sostiene di possedere i requisiti. Egli afferma che, pur in assenza di una specifica istanza, l’amministrazione sarebbe dovuta venire a conoscenza della documentazione medica attestante le sue condizioni di salute, stante la produzione della stessa in sede di audizione personale innanzi alla Corte territoriale per il riconoscimento dello status di protezione internazionale.

L’art. 19, comma secondo, lett. d-bis, d.lgs. 286/1998 prevede che non è consentita l’espulsione degli stranieri che versano in condizioni di salute derivanti da patologie di particolare gravità, non adeguatamente curabili nel Paese di origine, accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. In tali ipotesi, il Questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni di cui al periodo precedente debitamente certificate, valido solo nel territorio nazionale.

La norma individua dunque, quali requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di salute, che le patologie di cui soffre il richiedente siano di particolare gravità, non siano adeguatamente curabili nel Paese di origine, siano accertate con idonea documentazione e siano tali da comportare un rilevante pregiudizio alla salute nel caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. Tli elementi devono ritenersi cumulativi e devono dunque essere compresenti, al fine di rientrare nell’ambito applicativo della disposizione in esame.

Come correttamente rilevato anche dalla sentenza di primo grado, dalla documentazione depositata non risultano attuali patologie gravi, non adeguatamente curabili nel Paese di origine e che determinerebbero un rilevante pregiudizio alla situazione di salute nel caso di rimpatrio.

Anche la censura sulla mancata analisi della documentazione medica prodotta in sede di audizione personale innanzi alla Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di protezione internazionale è infondata. L’odierno appellante, invero, non ha rappresentato in alcun modo alla Questura le proprie condizioni di salute, cui non si è riferito nemmeno nelle osservazioni del 22 maggio 2020, presentate in risposta alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.

Deve osservarsi che il principio di buona fede oggi permea, quale canone bilaterale, tutto il procedimento amministrativo, involgendo, pertanto, anche la fase istruttoria. La previsione dell’art. 18 l. n. 241/1990 – che dispone l’acquisizione d’ufficio dei documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l’istruttoria del procedimento quando siano in possesso dell’amministrazione procedente o siano detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni – non si può dunque tradurre in un obbligo di ricerca generalizzato di documentazione e di informazioni da parte della p.a. Ciò, invero, si porrebbe in contrasto non solo con l’obbligo di cooperazione che dal canone di buona fede discende, ma altresì con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.

Pertanto, deve ritenersi vi sia un onere di preventiva, espressa e precisa dichiarazione, da parte dell’interessato, degli atti già in possesso della p.a. ai quali egli voglia fare rinvio (in questo senso già Cons. Stato, Sez. IV, 24 giugno 2003, n. 3801).

Anche il quarto motivo, pertanto, non merita accoglimento.

5. Con il quinto motivo di appello il -OMISSIS-deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma quarto, d.lgs. n. 286/1998. Il ritardo nella presentazione della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno e la prolungata assenza dal territorio nazionale discenderebbero, invero, da cause di forza maggiore, a lui non imputabili stante la detenzione in Svezia.

L’assunto non è condivisibile in quanto la detenzione non può essere qualificata come “causa di forza maggiore” essendo conseguenza della propria condotta delittuosa.

Per tutte le ragioni esposte e stante l’assenza di legami familiari nel territorio italiano, l’appello deve essere respinto.

Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato.

In ragione della complessità delle questioni, spese compensate.

Respinge definitivamente l’ammissione dell’appellante al gratuito patrocinio.

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