Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2010-04-27, n. 201002380

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2010-04-27, n. 201002380
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201002380
Data del deposito : 27 aprile 2010
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08288/2008 REG.RIC.

N. 02380/2010 REG.DEC.

N. 08288/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 8288 del 2008, proposto da:
Eptafil S.r.l. in Liquidazione, rappresentato e difeso dagli avv. M C, G R, M S, con domicilio eletto presso G R in Roma, via Pacuvio, 34;

contro

Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

nei confronti di

Provincia di Sassari;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. SARDEGNA – CAGLIARI - SEZIONE I n. 01657/2007, resa tra le parti, concernente REVOCA CONTRIBUTI PER REALIZZAZIONE IMPIANTO INDUSTRIALE.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 aprile 2010 il Consigliere F T e uditi per le parti l’ avvocato G. Romanelli e l’Avvocato dello Stato Giannuzzi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con il ricorso di primo grado parte appellante aveva proposto domanda di annullamento del decreto 22/9/2006 n° 49/B5/MSE col quale il Ministero dello Sviluppo Economico ha revocato il contributo di € 2.880.460 concessole con provvedimento 17/2/2205 n°1, della nota di comunicazione del medesimo, della nota 23/5/2006 n° 1079976 con cui il Ministero anzidetto ha comunicato di non poter accogliere la richiesta di conferma del contributo presentata dalla odierna appellante, del parere del Comitato Tecnico Consultivo richiamato nel verbale della Guardia di Finanza della relazione del Ministero suddetto 10/1/2007 prot. n°D.G.C.I.I./Uff.A1/contenzioso/CMM, delle risposte del Comitato Tecnico Consultivo 488 sui quesiti 10.73 e 10.59.

In punto di fatto era accaduto che la Provincia di Sassari, agendo in veste di Responsabile Unico del contratto d’area di Sassari – Alghero - Porto Torres sottoscritto in data 19/3/1999, aveva concesso alla appellante Eptafil un contributo di € 2.880.450 per la realizzazione, in Alghero, di un nuovo impianto per la filatura di fibre di cotone e la tessitura di filati di cotone.

Sennonché, ad intervento ormai realizzato, il Ministero dello Sviluppo Economico aveva adottato il decreto 22/9/2006 n°49/B5/MSE, col quale, considerato che da accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanze, era emerso che i macchinari acquistati non erano “nuovi di fabbrica”, ha revocato il contributo.

L’appellante era insorta, prospettando violazioni di natura procedimentale e contestando il merito del provvedimento.

Il T ha respinto le doglianze di natura procedimentale, facendo presente che le appellate determinazioni erano sufficientemente motivate anche in punto di doverosità dell’atto di autotutela, che l’omessa indicazione del termine entro il quale ricorrere poteva al più costituire una mera irregolarità, che l’istruttoria era stata completa e non sussisteva l’onere di analitica confutazione delle deduzioni infraprocedimentali;
ha altresì dichiarato inammissibili le censure proposte con il ricorso per motivi aggiunti, in quanto dirette a censurare atti endoprocedimentali.

Quanto al merito delle doglianze proposte, ha rammentato che il provvedimento di revoca del finanziamento trovava causa nella circostanza che l’amministrazione “imputava” alla appellante di aver acquistato beni “non nuovi di fabbrica”, in violazione dell’art. 4, comma 1, lett. e) del D.M. 20/10/1995 n°527 (detta disposizione, nell’individuare le spese finanziabili, considerava tali, alla lett. e), quelle relative a “macchinari, impianti ed attrezzature varie, nuovi di fabbrica …”).

Secondo l’amministrazione la locuzione “nuovi di fabbrica” doveva essere intesa nel senso di imporre al soggetto finanziato l’acquisto di beni nuovi direttamente dal fabbricante, tramite un’unica transazione commerciale.

L’appellante, invece, aveva sostenuto che la locuzione escludeva soltanto la possibilità di acquistare beni usati, sicché era ammissibile l’acquisizione di beni nuovi anche se non acquistati direttamente dal fabbricante.

Il T ha disatteso tale ultima impostazione ermeneutica, in quanto privava di significato la locuzione “di fabbrica” che accompagna la parola “nuovi”: l’espressione “nuovi di fabbrica” doveva essere quindi intesa nel senso di ammettere a contribuzione soltanto l’acquisto di beni nuovi, purchè (e solo se) effettuato direttamente dal fabbricante.


Né a tale convincimento poteva ostare il fatto che il terzo comma del citato art. 4, nell’individuare le spese non ammissibili, faceva riferimento ad “impianti ed attrezzature usati”.

L’interpretazione sostenuta dall’amministrazione e condivisa dal T, appariva coerente con la ratio della norma che è quella di garantire la produttività e l’efficienza dell’azienda realizzata grazie al finanziamento pubblico, ma anche quella di scongiurare il pericolo che nella dinamica delle agevolazioni pubbliche alle imprese si possano insinuare fenomeni di speculazione a danno dello Stato.


Restando incontroverso che le attrezzature di cui alle fatture indicate nel verbale allegato alla nota della Guardia di Finanza 25/5/2005, prot. 2537/8733, richiamata nel provvedimento impugnato, non erano state acquistate direttamente dal fabbricante ( ma da quest’ultimo, tramite l’intermediazione della Bonino Carding Machines) ne discendeva la correttezza della statuizione amministrativa revocatoria, a nulla rilevando che la originaria ricorrente avesse commissionato alla Bonino Carding Machines la fornitura di un impianto completo c.d. “chiavi in mano” (non era precluso ad alcuno rivolgersi ad altro soggetto per la fornitura di uno stabilimento produttivo completo in tutte le sue parti, fermo restando, però, che, in base alla normativa di cui sopra, non potevano essere finanziate le spese relative a quei beni che non risultassero acquistati direttamente dal fabbricante).

Dalla stessa separazione esistente tra la fase di amministrazione attiva e quella di controllo e dalla diversa funzione che le caratterizzava, discendeva poi la irrilevanza del fatto che in sede di concessione del contributo tutti gli organi intervenuti nel procedimento non avessero sollevato obiezioni sull’agevolabilità dell’iniziativa e si fossero, anzi, pronunciati per l’erogabilità del finanziamento richiesto


La doverosità dell’atto di ritiro del finanziamento non necessitava di particolare motivazione sull’interesse pubblico, attesa la prevalente esigenza di rimediare ad un indebito esborso di denaro pubblico


Quanto alla doglianza secondo cui ai sensi dell’art. 9, comma 1, del D. Lgs. 31/3/1998, n°123, l’amministrazione avrebbe dovuto spiegare perché aveva ritenuto i “fatti” addebitati al richiedente insanabili, il T ne ha rilevato la infondatezza in quanto la mancanza accertata aveva connotati di oggettiva insanabilità, per cui, sul punto, non era richiesta alcuna motivazione. Ai sensi della citata disposizione, peraltro,(“In caso di assenza di uno o più requisiti, ovvero di documentazione incompleta o irregolare, per fatti comunque imputabili al richiedente e non sanabili, il soggetto competente provvede alla revoca degli interventi …”) l’amministrazione non poteva far altro che revocare l’intero finanziamento: ciò perché, per un verso, mancava il requisito di ammissibilità in ordine ad alcune delle spese finanziate (quelle inerenti alle fatture meglio indicate nel verbale della Guardia di Finanza più volte citato), per altro verso, la documentazione prodotta al fine di ottenere l’agevolazione era, almeno in parte, sicuramente irregolare.

Infatti, la “dichiarazione del soggetto beneficiario dell’agevolazione”, risultava mendace e quindi irregolare, laddove il legale rappresentante dell’impresa aveva dichiarato che <<tutti i materiali, macchinari, impianti, ed attrezzature relativi alle spese documentate sono acquisiti ed installati nello stabilimento di cui si tratta allo stato di “nuovi di fabbrica”>>.

L’originaria ricorrente di primo grado ha proposto un articolato appello evidenziando che la statuizione dell’amministrazione doveva reputarsi illegittima: ne discendeva la conseguente erroneità dell’appellata decisione che aveva acriticamente avallato tale modus procedendi.

Ha pertanto criticato la decisione in epigrafe richiamando i motivi del ricorso di primo grado, e riproponendo per intero le doglianze disattese, facendo presente che del tutto apodittico appariva l’iter motivazionale seguito dal T con la appellata statuizione reiettiva che doveva essere annullata.

Tutti gli organi che, durante l’iter della pratica di finanziamento, si erano pronunciati sulla medesima avevano espresso convincimento positivo;
la Guardia di Finanza aveva ritenuto irregolare la circostanza che di 7 fatture comprovanti la realizzazione dell’impianto (per € 3.618.927,11) 5 (per € 1.242.192,46) riguardavano beni che la Bonino aveva acquistato da terzi, e rivenduto all’appellante con un ricarico di € 332.559,10).

Tale tesi, cui si era acriticamente richiamata l’amministrazione con la statuizione revocatoria, era senz’altro errata anche in considerazione del fatto che l’appellante aveva commissionato alla Bonino un impianto completo, “chiavi in mano”.

La locuzione “nuovo di fabbrica”, siccome interpretata erroneamente dal T, avrebbe determinato, ove coerentemente applicata, la non finanziabilità di acquisizioni mercè locazione finanziaria, ovvero le spese relative alla “costruzione” delle immobilizzazioni ex artt. 2423 e 2424 CC.

Così, tuttavia, non era, e pacificamente dette acquisizioni venivano ritenute finanziabili dall’amministrazione.

A fortiori, ciò doveva avvenire laddove l’oggetto dell’acquisizione fosse stato (come nel caso di specie) un impianto “chiavi in mano”, ex art. 1655 CC, laddove non appariva neppure pensabile che tutti i beni fossero prodotti direttamente dal medesimo soggetto.

Nessuna speculazione v’era stata;
il prezzo era perfettamente in linea con quello di mercato ed anzi, l’appellante, aveva ottenuto significativi risparmi di spesa rivolgendosi alla Bonino che, a propria volta, si era rivolta ai propri abituali fornitori (dette circostanze potevano essere pacificamente accertate in sede giudiziaria mercè il ricorso a CTU).

In ogni caso, non era stata resa alcuna “dichiarazione mendace”, ma soltanto una dichiarazione coerente con la interpretazione (esatta, o quantomeno non implausibile) della locuzione “nuovi di fabbrica” di cui all’art. 4, comma 1, lett. e) del D.M. 20/10/1995 n°527 ed in ordine alla quale non esisteva alcuna “interpretazione autentica” proveniente dall’appellata amministrazione.

Il rispetto del principio di proporzionalità, avrebbe imposto che l’amministrazione emettesse il provvedimento recuperatorio soltanto limitatamente alla quota di spese ritenuta non ammissibile, e non già all’intero.

Con una articolata memoria depositata il 29 marzo 2010 parte appellante ha puntualizzato i termini fondamentali della controversia e ribadito le censure contenute nel ricorso in appello.

L’acquisto di un impianto per la filatura “chiavi in mano” costituiva un aliquid novi rispetto ai singoli beni che lo componevano;
esso era composto di numerosi elementi;
nessuna azienda produceva in proprio il complesso di detti macchinari necessari per attivare l’impianto.

Ove l’appellante avesse voluto rivolgersi a singoli produttori avrebbe, a tacere d’altro, dovuto effettuare numerose e complesse operazioni di assemblaggio tra i singoli beni che componevano la linea produttiva e verifiche di compatibilità tra le componenti dell’impianto di natura complessa e di incerto esito (anche avuto riguardo alla carente pregressa esperienza di parte appellante nel settore). Quanto alla esigenza, sostenuta dal T, che i beni fossero acquistati direttamente dai produttori al fine di evitare che eventuali intermediazioni nell’acquisto dei beni medesimi comportassero un aggravio dei costi per l’amministrazione, essa era certamente insussistente nel caso di specie posto che il costo dell’impianto era stato riconosciuto in linea con i prezzi di mercato.

La circostanza che la Bonino Carding Machines aveva effettuato un ricarico pari ad € 332.559,10, infine, seppur vera, era fuorviante: tale ricarico, infatti, non atteneva ai beni che la predetta alienante aveva a propria volta acquistato dai fornitori, ma all’intero impianto che la medesima aveva fornito a parte appellante.

La Bonino Carding Machines, a propria volta, in quanto operante nel settore da tempo risalente, aveva potuto fruire di consistenti sconti dai propri fornitori (pari a circa il 40% dei prezzi di mercato): l’appellante non avrebbe potuto ambire ad ottenere il medesimo trattamento.

In ultima analisi il ricarico computato dalla predetta Bonino era “compensato” dagli sgravi da questa ottenuti.

In via subordinata, la revoca avrebbe dovuto essere limitata alla porzione di finanziamento relativa ai beni non “nuovi di fabbrica” e non già, in base ad elementari canoni di proporzionalità, essere estesa all’intero finanziamento.


DIRITTO

L’appello è fondato e deve essere accolto nei termini di cui alla motivazione che segue con conseguente riforma della appellata sentenza, accoglimento del ricorso di primo grado ed annullamento dell’impugnata statuizione amministrativa.

Non v’è contestazione alcuna in ordine agli aspetti fattuali e cronologici sottesi alla causa, né in ordine alle disposizioni applicabili alla fattispecie, il che esonera il Collegio dal rivisitare tali aspetti.

Sono certamente infondate le censure “procedimentali” (veicolate in primo grado anche mercè ricorso per motivi aggiunti e riproposte in appello) relative alla asserita carenza motivazionale degli atti impugnati, alla insussistenza delle ragioni legittimanti l’esercizio dell’autotutela, alla pretesa integrazione postuma della motivazione dell’azione revocatoria spiegata dall’amministrazione.

Quanto alla prima ed alla terza questione, ritiene il Collegio che dal complessivo tenore dei provvedimenti impugnati l’appellante era perfettamente in grado di ricavare gli elementi essenziali del convincimento dell’amministrazione (circostanza, quest’ultima, effettivamente avvenuta): non ricorrono certamente, nel caso di specie, quei parametri (“il difetto di motivazione dell'atto amministrativo impedisce di comprendere in base a quali dati specifici sia stata operata la scelta della pubblica amministrazione, nonché di verificarne il percorso logico seguito nell'applicare i criteri generali nel caso concreto, così contestando di fatto una determinazione assolutamente discrezionale e non controllabile e violando non solo l'obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi, indicando, ai sensi dell'art. 3 l. 7 agosto 1990 n. 241, i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che li hanno determinati in relazione alle risultanze dell'istruttoria, ma anche i principi di imparzialità e buon andamento, di cui all'art. 97 cost. “-Consiglio Stato , sez. IV, 04 settembre 1996, n. 1009-) enucleati dalla giurisprudenza perché possa essere ritenuto sussistente sì grave vizio dell’azione amministrativa.

Quanto ai limiti dell’esercizio dell’autotutela, il Collegio ritiene che, anche alla luce delle sopravvenute disposizioni di cui alla legge n. 15/2005 mantenga inalterata vitalità il consolidato principio per cui “in assenza dei presupposti di legge, la revoca del contributo costituisce un vero e proprio dovere dell'amministrazione che è tenuta a porre rimedio alle sfavorevoli conseguenze derivate all'erario per effetto di una erogazione non dovuta di contributi pubblici, non sussistendo in questo caso uno specifico obbligo di motivazione, atteso che l'interesse pubblico all'adozione dell'atto è in re ipsa quanto ricorre un indebito esborso di denaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato.” (Consiglio Stato , sez. VI, 05 dicembre 2007, n. 6188).

Esattamente, infine, i primi Giudici hanno escluso che dall’ omesso rilievo durante il corso del procedimento della “irregolarità” contestata all’appellante (soltanto) mercè la statuizione revocatoria discenda il lamentato vizio di contraddittorietà dell’azione amministrativa: da un canto, infatti, è agevole rilevare che sempre e comunque, all’esercizio dell’autotutela revocatoria v’è un diverso apprezzamento di fatti e condizioni rispetto a quello reso in sede procedimentale;
in secondo luogo, è fisiologico che possano esservi divergenze interpretative tra organi che presiedono ai compiti di amministrazione attiva e/o consultiva, senza che ciò comporti vizio alcuno attingente le successive determinazioni dell’amministrazione.

Argomentare diversamente condurrebbe all’illogica conclusione che -sempre e comunque- l’esercizio dell’autotutela, in quanto volto a rimuovere un “vizio” impingente su atti amministrativi (tanto più se ampliativi, come nel caso di specie) sia affetto dal vizio di contraddittorietà con precedenti manifestazioni volitive o valutative e sia pertanto illegittimo.

Tali statuizioni contenute nell’appellata decisione sono senz’altro esatte e le relative doglianze meritano pertanto di essere disattese (unitamente alla censura di incompetenza, posto che la revoca fu comunque sottoscritta dal Direttore Generale).

A contrario convincimento, invece, approda il Collegio con riferimento al merito delle censure proposte: a tal proposito, tre sono i connessi profili che in via teorica dovrebbero essere esaminati.

Il primo di essi attiene alla legittimità nell’an della statuizione revocatoria;
il secondo, logicamente conseguente ad una risposta positiva fornita in ordine alla prima questione, riposa nella verifica della esattezza e condivisibilità della circostanza contestata all’appellante relativa alla dichiarazione “mendace” che essa avrebbe reso;
il terzo, discendente dalla prospettazione subordinata articolata nel gravame, investe la legittimità della revoca totale del contributo (proprio a cagione dell’asserito “mendacio” perpetrato dall’appellante) ovvero la sostenuta necessità che esso fosse contenuto e limitato, a tutto concedere, alle spese riconosciute non rimborsabili.

Ciò perché, lo si anticipa, il Collegio condivide l’assunto per cui la disciplina dettata dall'art. 8 del d.m. n. 527 del 1995 (comma 1: “Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 9, comma 2, dall'articolo 10, comma 4 e dall'articolo 11, comma 1- bis , le agevolazioni sono revocate in tutto o in parte dal Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, anche su segnalazione della banca concessionaria”)in ordine all'esercizio da parte del Ministero concedente della potestà di revoca di agevolazioni già concesse, dopo aver selezionato puntuali ipotesi in presenza delle quali è consentito il ritiro dell'atto di concessione del contributo, prevede espressamente (il dato letterale surriportato è inequivoco), in base al principio di conservazione dei valori giuridici, ipotesi di revoca parziale (secondo comma), in modo da non distogliere il finanziamento per la parte in cui è stato in concreto regolarmente destinato all'intervento nel settore produttivo per gli scopi di rilievo pubblico previsti dalla l. n. 415 del 1992( sul punto, si veda Consiglio Stato , sez. VI, 14 agosto 2007, n. 4466).

Ciò posto, nell’esaminare il primo profilo devoluto avente natura logicamente pregiudiziale, ritiene il Collegio di condividere l’impostazione della Sezione resa proprio nella decisione in ultimo richiamata concernente i limiti della finanziabilità da parte dell’amministrazione dei beni acquistati dalle imprese richiedenti.

Il dato normativo cui fare riferimento, riposa nell’art. 4 (rubricato: “spese ammissibili”) del già citato DM 20 ottobre 1995, n. 527 che, nella parte di interesse annovera alla lett. e del comma I quelle relative a “macchinari, impianti ed attrezzature varie, nuovi di fabbrica, ivi compresi quelli necessari all'attività amministrativa dell'impresa, ed esclusi quelli relativi all'attività di rappresentanza;
mezzi mobili strettamente necessari al ciclo di produzione o per il trasporto in conservazione condizionata dei prodotti, purché dimensionati alla effettiva produzione, identificabili singolarmente ed a servizio esclusivo dell'impianto oggetto delle agevolazioni” premurandosi poi di stabilire, al comma III che “Non sono ammesse le spese notarili, quelle relative a imposte, tasse, scorte, a macchinari, impianti e attrezzature usati, quelle di funzionamento in generale”.

La fattispecie esaminata dalla Sezione nella decisione n. 4466/07 della quale di qui a poco si riporterà un breve stralcio dell’iter motivazionale è certamente analoga, se non addirittura del tutto sovrapponibile, a quella oggetto dell’odierna cognizione: in detta occasione la Sezione ebbe ad affermare che “non va condiviso il motivo di appello con il quale si sostiene che l’utilizzazione da parte della Soc. Etic Grafica della strumento negoziale c.d. “chiavi in mano” ai fini dell’ acquisto ed installazione dei macchinari da utilizzare per lo svolgimento dell’ attività produttiva ammessa a finanziamento sarebbe avvenuta in violazione dell’ art. 4, comma primo, lett. e), del d.m. n. 527/1995, che impone che i macchinari medesimi siano assistiti dal requisito c.d. del “nuovo di fabbrica”.

Sul punto correttamente rileva il T.A.R. nella sentenza che si appella che il requisito di cui innanzi attiene alle qualità oggettive degli impianti da impiegare nel progetto ammesso a contribuzione, che non devono essere stati mai utilizzati in un precedente processo produttivo.

Detto requisito non viene, quindi, meno in presenza di un’attività di intermediazione, che si realizza in sede di esecuzione del contratto c.d. “chiavi in mano”, ed opera solo sul piano strettamente giuridico, in relazione a soggetto che acquista e predispone funzionalmente le tecnologie impiantisce per poi porle nella disponibilità del committente, ma non ne determina, sul piano concreto, una pregressa destinazione all’attività produttiva che implichi la perdita del requisito “nuovo di fabbrica”.

La possibilità di avvalersi sul piano giuridico di detto strumento negoziale non è, poi, posta in discussione nel decreto di revoca che si impugna. Inoltre ciò che rileva all’interno del rapporto di controllo fra ente concedente e beneficiario dell’agevolazione contributiva e la sua finalizzazione agli scopi di legge al cui perseguimento è indirizzata l’erogazione, che non sono nella specie messi in discussione. Oneri aggiuntivi, anche sul piano fiscale, indotti in relazione alla tipologia degli strumenti negoziali utilizzati per l’acquisizione degli impianti, qualificati incompatibili con l’ originario atto concessorio possono, tutto al più, giustificare un motivato decremento della somma spettante al saldo, ma non la risoluzione “in toto” dell’intervento contributivo se, come innanzi detto, effettivamente destinato alla realizzazione del progetto nel settore produttivo preso in considerazione con effetto sui livelli di occupazione nella zona qualificata depressa.

Tale conclusione è, del resto, avvalorata dalla disciplina dettata dall’art. 8 del d.m. n. 527/1995 in ordine all’esercizio da parte del Ministero concedente della potestà di revoca di agevolazioni già concesse. Detta disposizione, dopo avere selezionato puntuali ipotesi in presenza delle quali è consentito il ritiro dell’atto di concessione del contributo, in base al principio di conservazione dei valori giuridici prevede espressamente ipotesi di revoca parziale (secondo comma), così da non distogliere il finanziamento per la parte in cui è stato in concreto regolarmente destinato all’intervento nel settore produttivo per gli scopi di rilievo pubblico previsti dalla legge n. 415/1992. ”.

Sin qui la citata decisione n. 4466/2007.

Il Collegio non ravvisa elementi per mutare divisamento rispetto a tale condivisibile opzione ermeneutica, sia alla stregua del dato letterale contenuto nelle suindicate disposizioni (il richiamo di cui al comma III della summenzionata disposizione ai beni “usati” esclusi dal finanziamento avvalora la tesi di parte appellante, del quale erroneamente il T ne ha svalutato la portata) sia alla stregua di canoni di logicità.

Nel caso di specie infatti, da un canto è incontroverso che sia stato acquistato un bene “chiavi in mano”;
in secondo luogo è incontestabile che allorchè si voglia entrare in possesso di simili beni complessi la prassi commerciale è quella di avvalersi del predetto strumento negoziale, piuttosto che quella di ricorrere all’acquisto diretto di singoli macchinari da singoli e differenti produttori.

In ultimo, la ratio sottesa all’asserito divieto, sia pure esattamente individuata dal T (lo si rammenta, essa riposa nella necessità di evitare possibili frodi, speculazioni, artificiose lievitazioni dei costi ricadenti sul finanziatore) non può essere soddisfatta attraverso il divieto del ricorso ad uno strumento negoziale (si veda l’art. 1664 CC in tema di c.d. “appalto a forfait”) tipico;
e comunque, di tale divieto non v’è richiamo alcuno nella legge né nelle disposizioni regolamentari: semmai, deve postularsi la doverosa verifica della congruità dei prezzi praticati rispetto a quelli di mercato e dell’eventuale lievitazione immotivata dei costi rispetto a quelli scaturenti dall’acquisto parcellizzato dei singoli beni cui deve eventualmente conseguire la revoca del finanziamento.

Nel caso all’esame del Collegio di tali elementi (eventualmente sfavorevoli a parte appellante) non v’è traccia alcuna, peraltro.

Per completezza espositiva, poi, deve evidenziarsi che neppure avrebbe potuto trovare accoglimento (e ciò se anche si fosse convenuto - il che non è, per le chiarite ragioni - con l’impostazione seguita dall’amministrazione con riguardo alla locuzione “nuovi di fabbrica”) la tesi seguita dall’appellata amministrazione secondo la quale l’appellante avrebbe reso una dichiarazione mendace e per ciò solo essa sarebbe decaduta dal diritto ad ottenere il finanziamento ( art.9 co. I del D.lvo n. 123/1998:” in caso di assenza di uno o più requisiti, ovvero di Documentazione incompleta o irregolare, per fatti comunque imputabili al richiedente e non sanabili, il soggetto competente provvede alla revoca degli interventi e, in caso di revoca dal bonus fiscale, ne da immediata comunicazione al Ministero delle finanze.“ ).

Mendacio rilevante può esservi unicamente laddove vi sia la consapevole volontà di rappresentare all’amministrazione dati non rispondenti al vero.

Parte appellante si era limitata ad esporre dati coerenti con la propria interpretazione (che ex post si è peraltro acclarato essere esatta) delle disposizioni regolanti la fattispecie, producendo comunque la documentazione atta a chiarire le modalità dell’acquisto in punto di fatto e pertanto, mettendo in condizione l’amministrazione di conoscere esattamente i dati contabili sottesi alla operazione commerciale in oggetto provvedendo a qualificarla eventualmente in termini difformi da quelli ipotizzati dalla richiedente (il che, si osserva, è in concreto avvenuto) .

A fronte di una norma di legge o regolamentare che si presti a differenti interpretazioni ( non palesemente implausibili) quale indubbiamente è quella per cui è causa, non può certo qualificarsi mendace la dichiarazione del privato coerente con una delle possibili opzioni ermeneutiche (dovendosi del pari riconoscere peraltro che neppure la tesi posta dall’amministrazione a sostegno delle proprie determinazioni, per il vero, poteva apparire illogica o cervellotica).

Conseguentemente con quanto sinora esposto, il ricorso in appello è fondato con riguardo al petitum principale, (con conseguente assorbimento della domanda subordinata proposta), e ne discende la riforma della appellata sentenza, l’accoglimento del ricorso di primo grado e l’annullamento dei provvedimenti impugnati.

Le spese di giudizio, però, in considerazione soprattutto delle difficoltà interpretative sottese alle disposizioni applicabili alla fattispecie per cui è causa, possono essere integralmente compensate fra le parti in lite ricorrendone le condizioni di legge

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