Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2019-02-28, n. 201901396

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2019-02-28, n. 201901396
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201901396
Data del deposito : 28 febbraio 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 28/02/2019

N. 01396/2019REG.PROV.COLL.

N. 06035/2018 REG.RIC.

N. 07274/2018 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6035 del 2018, proposto dal:
Comune di Chioggia, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati Carmelo Papa e Simonetta De Sanctis Mangelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato De Sanctis Mangelli, in Roma, via Tommaso Salvini, 55;

contro

la Costa Bioenergie S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli avvocati Alberto Marconi, Massimo Rutigliano e Luca Gabrielli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabrielli in Roma, via Nicolai, 70/8 scala B;
il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e laguna e il Ministero dei beni e delle attività culturali, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
la Regione del Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati Ezio Zanon, Antonella Cusin, Cristina Zampieri e Andrea Manzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Manzi in Roma, via Confalonieri, 5;
il WWF- Associazione italiana per il World Wildlife Fund for Nature Onlus e l’associazione “La Vongola verace di Chioggia” non costituiti in giudizio;



sul ricorso numero di registro generale 7274 del 2018, proposto dal
WWF -Associazione italiana per il World Wildlife Fund for Nature Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Matteo Ceruti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Alessio Petretti in Roma, via degli Scipioni 268/a;

contro

la Costa Bioenergie S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Alberto Marconi, Massimo Rutigliano e Luca Gabrielli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Gabrielli in Roma, via Nicolai, 70/8 scala B;
il Ministero dei beni e delle attività culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e laguna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
la Regione del Veneto, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ezio Zanon, Antonella Cusin, Cristina Zampieri e Andrea Manzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Manzi in Roma, via Confalonieri, 5;
il Comune di Chioggia e l’associazione “La Vongola verace di Chioggia”, non costituiti in giudizio;

per la riforma, previa sospensione

della sentenza del T.A.R. Veneto, sez. II, 5 giugno 2018 n.604, che ha pronunciato sui ricorsi riuniti n.669/2017 e n.685/2017 R.G. proposti per l’annullamento:

(ricorso n.669/2017 R.G.)

a) dell’ordinanza 9 maggio 2017 n.95, comunicata il giorno 10 maggio 2017, con la quale il Dirigente del Settore urbanistica del Comune di Chioggia ha ordinato la demolizione in quanto abusive di opere realizzate in località Val da Rio, via Maestri del Lavoro, su terreno distinto al catasto al foglio 36, mappali 1, 2, 387, 388, 391, 392 e 393 e consistenti nel livellamento e compattamento con materiale stabilizzato dei terreni interessati da un deposito costiero di oli minerali e GPL, nella posa di tre serbatoi di capienza di 3000 mc e nella realizzazione di recinzioni e setti murari in calcestruzzo armato;

b) della nota 5 maggio 2017 prot. n.6027 cl 34 19 07/1 della Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e laguna;

di ogni altro atto antecedente, conseguente e comunque connesso, e in particolare:

c) della nota 10 aprile 2017 prot. n. 11163 della Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio presso il Ministero per i beni e le attività culturali – MIBACT;

d) della nota 14 aprile 2017 prot. n.11825 della stessa Direzione generale;

(ricorso n. 685/2017 R.G.)

e) dell’atto 24 maggio 2017 prot. n.12461 con il quale il Ministero per lo sviluppo economico – MISE ha prorogato per due anni il termine di ultimazione dei lavori di costruzione del deposito costiero di cui sopra, già assentito da ultimo con decreto interministeriale del MISE stesso e del Ministero delle infrastrutture e trasporti – MIT 26 maggio 2015 n.17407;

f) del nulla osta 24 maggio 2017 prot. n.15041 del MIT.

In particolare, la sentenza ha accolto il ricorso n.669/2017 e respinto il ricorso n.685/2017;


Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Costa Bioenergie S.r.l., del Ministero dello sviluppo economico, del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e laguna, del Ministero dei beni e delle attività culturali e della Regione del Veneto;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 gennaio 2019 il Cons. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti gli avvocati Simonetta De Sanctis Mangelli, Carmelo Papa, Alberto Marconi, Massimo Rutigliano, Luca Gabrielli, Andrea Manzi, Matteo Ceruti ed Ezio Zanon e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

L’appellata nel procedimento 6035/2018 ha ottenuto con il decreto interministeriale del Ministero per lo sviluppo economico – MISE e del Ministero delle infrastrutture e trasporti – MIT 26 maggio 2015 n.17407 di cui in epigrafe l’autorizzazione a realizzare in Comune di Chioggia, nell’area portuale di Val da Rio, un deposito costiero di carburanti, destinato ad accogliere fra l’altro 9.000 mc di gas di petrolio liquefatto – GPL, i cui lavori risultano attualmente non ancora ultimati (doc. 3 in I grado ricorrente in ricorso 669/2017, decreto autorizzativo in questione).

In corso di costruzione, il Comune intimato appellante nel procedimento 6035/2018 ha emanato l’ordinanza 9 maggio 2017 n.95 di cui in epigrafe, con la quale ha ingiunto la demolizione delle opere finora realizzate e la rimessione in pristino del sito, ritenendo le opere stesse non assistite dalla necessaria autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 167 del d. lgs. 22 gennaio 2004 n.42 (doc. 1 in I grado ricorrente appellata in ricorso n. 669/2017, ordinanza in questione).

L’impresa, destinataria dell’ordinanza, l’ha impugnata con ricorso di I grado rubricato al n.669/2017 R.G. del TAR competente.

Nel frattempo, non essendo riuscita a completare i lavori nel termine originariamente previsto dall’autorizzazione, l’impresa stessa ha chiesto una proroga, accordatale con il provvedimento del

MISE

24 maggio 2017 pure meglio indicato in epigrafe (doc. 2 in I grado ricorrente appellante in ricorso n.685/2017, provvedimento citato).

Il Comune intimato appellante nel procedimento 6035/2018 ha impugnato tale provvedimento con ricorso di I grado rubricato al n.685/2017 del TAR competente.

Il TAR in questione, con la sentenza meglio indicata in epigrafe, riuniti i ricorsi di I grado predetti, ha accolto il ricorso n.669/2017 e respinto il ricorso n.685/2017.

Nella motivazione, il TAR ha in sintesi ritenuto in primo luogo che, contrariamente a quanto affermato dal Comune, l’originaria autorizzazione 26 maggio 2015 n.17407, pur se rilasciata senza l’attività istruttoria tipicamente finalizzata a rilasciare la autorizzazione paesaggistica, potesse al più ritenersi illegittima, ma non nulla, e che quindi, data la mancata tempestiva impugnazione di essa, i lavori realizzati in conformità non si potessero ritenere abusivi.

Il TAR ha poi ritenuto che comunque fosse applicabile una norma sopravvenuta, ovvero il comma 3 ter dell’art. 57 del d.l. 9 febbraio 2012 n.5 convertito nella l. 4 aprile 2012 n.35, introdotto dall’art. 1 comma 552 lettera b) della l. 23 dicembre 2014 n.190, in base alla quale l’autorizzazione unica rilasciata per impianti di tal tipo vale comunque a sostituire ogni altra autorizzazione necessaria, anche ai fini paesaggistici.

Ciò premesso, il TAR ha accolto il ricorso dell’impresa contro l’ordinanza di demolizione;
ha invece respinto quello del Comune contro l’atto di proroga, ricorso fondato sul presupposto dell’impossibilità di prorogare la precedente autorizzazione, perché ritenuta viziata ovvero nulla, presupposto che a dire del Giudice di I grado andava escluso in base a quanto sopra.

In tal modo, è quindi stato dato il via libera alla realizzazione del deposito in questione.

Contro la sentenza di I grado, il Comune ha proposto un primo appello, rubricato al n. 6035/2018 di questo Giudice e depositato il giorno 27 luglio 2018, appello che in sintesi ripropone l’ordine di idee sostenuto nell’originaria ordinanza di demolizione, e che contiene otto censure, corrispondenti secondo logica ai seguenti cinque motivi:

- con il primo di essi, corrispondente alla censura A1, a p. 10 dell’atto, deduce violazione dell’art. 1 comma 553 della l. 23 dicembre 2014 n.190, nei termini di cui subito. Il Comune appellante premette in fatto che la sentenza di I grado ha ritenuto che l’autorizzazione originaria, ovvero il decreto MISE-MIT 26 maggio 2015 n.17407, avesse valore anche di autorizzazione paesaggistica in forza dell’art. 57 comma 3 ter del d. l. 9 febbraio 2012 n.5 convertito nella l. 4 aprile 2012 n.35, così come introdotto dal comma 552 del medesimo art. 1 della l. 190/2014, in vigore dal 1 gennaio 2015. L’art. 57 comma 3 ter in questione afferma in particolare che l’autorizzazione per le infrastrutture energetiche strategiche, fra le quali rientra il deposito per cui è causa, prevista dai precedenti commi 1 e 2 “ produce gli effetti previsti dall'articolo 52 quinquies , comma 2, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001 n. 327 ”, il quale a sua volta afferma che tale autorizzazione “ sostituisce, anche ai fini urbanistici ed edilizi nonché paesaggistici, ogni altra autorizzazione, concessione, approvazione, parere, atto di assenso e nulla osta comunque denominati, previsti dalle norme vigenti, costituendo titolo a costruire e ad esercire tutte le opere e tutte le attività previste nel progetto approvato ”. Ciò posto, il Giudice di I grado, in base al generale principio tempus regit actum ha riconosciuto tale valore all’autorizzazione per cui è causa, poiché rilasciata dopo l’entrata in vigore della norma, ovvero dopo il 1 gennaio 2015. Ad avviso del Comune appellante, ciò sarebbe errato: l’autorizzazione in parola avrebbe potuto avere il valore ritenuto dal Giudice di I grado solo alle condizioni, entrambe nella specie non verificatesi, del comma 553 citato, ovvero “ su istanza del proponente ” e purché il procedimento in corso riguardasse “ opere rispetto alle quali sia stato adottato un decreto di compatibilità ambientale alla data di entrata in vigore della presente legge ”. Sempre ad avviso del Comune appellante, ciò si spiegherebbe considerando che la norma dell’art. 52 quinquies del T.U. 327/2001 è stata introdotta dall'art. 37, comma 2, lett. a), b) e c) del d.l. 12 settembre 2014, n.133, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014 n. 164, ovvero da una norma che quando l’impresa presentò la propria istanza, nemmeno esisteva. Di conseguenza, sarebbe assurdo riconnettere il valore di cui si è detto ad un’istanza che, dato il quadro normativo vigente all’epoca di sua presentazione, non sarebbe stata formulata in modo da tener conto dei profili edilizi e paesaggistici di cui si tratta: in sintesi, sempre ad avviso dell’appellante, l’autorizzazione avrebbe valore solo “per l’esercizio dell’attività commerciale” (atto di appello, p. 13, settimo rigo);

- con il secondo motivo, corrispondente alle censure A2 ed A3, alle pp. 15 e 18 dell’atto, deduce violazione degli artt. 14 ter comma 7 della l. 7 agosto 1990 n.241, 167 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n.42 e 6 della l. 16 aprile 1973 n.171. Premette in fatto che il Giudice di I grado, dato che alla conferenza di servizi precedente la sua emanazione il Comune aveva partecipato, ha ritenuto che il decreto MISE-MIT 26 maggio 2015 n.17407 di cui si è detto avesse il valore di una autorizzazione paesaggistica, per le ragioni spiegate sopra, che tale autorizzazione paesaggistica potesse essere illegittima per omessa considerazione dei valori paesaggistici coinvolti, ma che essa fosse comunque efficace, al pari di ogni atto amministrativo illegittimo, ma non impugnato né annullato. Ad avviso dell’appellante, invece, la mancata considerazione degli interessi paesaggistici comporterebbe che l’autorizzazione, ancorché si potesse ritenere rilasciata, sarebbe affetta da radicale nullità, e non da semplice illegittimità, e quindi dovrebbe considerarsi come non esistente: da ciò deriverebbe il carattere abusivo delle opere realizzate pur in sua apparente vigenza;

- con il terzo motivo, corrispondente alla censura A4 a p. 19 dell’atto di impugnazione, deduce illogicità della sentenza di I grado nella parte in cui annulla l’ordinanza di demolizione 95/2017, ma non l’atto impugnato congiuntamente con essa, ovvero la nota 5 maggio 2017 della Soprintendenza meglio citata in epigrafe (doc. 2 in I grado ricorrente in ricorso n.685/2017), con la quale il Comune ha ricevuto la sollecitazione a reprimere il presunto abuso;

- con il quarto motivo, corrispondente alle censure B1, B2 e B3 alle pp. 21, 24 e 25 dell’atto, deduce ulteriore illogicità della sentenza impugnata, perché a suo dire il decreto di proroga del termine per ultimare i lavori sarebbe illegittimo, in quanto relativo ad un’autorizzazione illegittima per quanto appena spiegato e adottato non da tutte le amministrazioni le quali hanno adottato il decreto di autorizzazione iniziale;

- con il quinto motivo, corrispondente alla censura B4 a p. 25 dell’atto, deduce infine violazione degli artt. 7 e ss. della l. 241/1990, per mancato avviso dell’inizio del procedimento e mancata indicazione nell’atto del termine di ricorso e dell’autorità cui indirizzarlo.

L’impresa, con atto 1 agosto 2018, ha chiesto che tale appello sia respinto.

L’amministrazione statale, con atto 17 agosto 2018, ha dichiarato di volervi resistere.

L’’impresa ha altresì proposto appello incidentale con atto depositato il giorno 14 settembre 2018, in cui ha chiesto che l’appello principale sia dichiarato inammissibile ovvero respinto, ed ha comunque riproposto i motivi assorbiti in primo grado.

In dettaglio:

- in via preliminare, ha eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto il Comune appellante non avrebbe contestato specificamente l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 14 ter l. 241/1990 ritenuta in sentenza;

- nel merito, ha chiesto che esso sia comunque respinto;

In via incidentale, ha poi riproposto sei censure, corrispondenti secondo logica ai quattro motivi che seguono, i primi tre di riproposizione dei motivi assorbiti, il quarto di appello incidentale vero e proprio:

- con il primo di essi, corrispondente alla prima censura a p. 6 dell’atto, ha dedotto la violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, perché il Comune avrebbe adottato l’ordinanza impugnata senza avviso dell’avvio del procedimento;

- con il secondo motivo, corrispondente alle censure seconda, quarta e quinta alle pp. 7, 8 e 11 dell’atto, deduce in sintesi violazione dell’art. 57 comma 3 ter del d. l. 5/2012, perché nel caso di specie si sarebbe dovuta ritenere l’esistenza di una autorizzazione paesaggistica, compresa nel decreto autorizzativo originario, a tutto voler concedere illegittima, ma non nulla o inesistente. Osserva in proposito (atto, p. 9) che il Comune avrebbe dovuto, se mai, impugnare nei termini il decreto autorizzativo, ma non consta aver proceduto in tal senso, dato che un suo ricorso straordinario è stato dichiarato irricevibile, perché non consentito nella materia delle infrastrutture strategiche (doc. 7 in I grado ricorrente appellata in ricorso n.685/2017, decisione relativa). Osserva ancora (atto, pp. 11 e ss.) che la Soprintendenza, nel corso del procedimento per la verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale, aveva espresso una valutazione positiva sul progetto;

- con il terzo motivo, corrispondente alla terza censura a p. 8 dell’atto, deduce infine violazione dell’art. 167 d. lgs. 42/2002, perché a suo dire il Comune avrebbe dovuto, in luogo di ingiungere la demolizione, dettare disposizioni per la compatibilità delle opere;

- con il quarto motivo, corrispondente alla sesta censura a p. 28 dell’atto, deduce violazione dell’art. 5 comma 7 della l. 171/1973. Sostiene in proposito che il Piano urbanistico del Comune di Chioggia sarebbe stato già adeguato al Piano di area della laguna veneta – PALAV, e che da ciò sarebbe derivata, in base alla norma citata, la cessazione delle competenze della Commissione per la salvaguardia di Venezia. Sostiene quindi che per tal motivo, a maggior ragione, la convocazione e la partecipazione del Comune, ente competente a rilasciare l’autorizzazione paesaggistica, alla conferenza di servizi che ha portato ad emanare il più volte citato decreto MISE-MIT 26 maggio 2015 n.17407, va ritenuta sufficiente a far assumere al decreto stesso il relativo valore.

La Regione si è costituita nel procedimento 6035/2018, con atto 17 settembre 2018, ed ha chiesto il relativo appello principale sia accolto e che il procedimento fosse comunque riunito ad altro appello proposto contro la medesima sentenza, ovvero al procedimento 7274/2018 R.G. di cui subito.

Alla camera di consiglio del giorno 20 settembre 2018, fissata per decidere della domanda cautelare contestuale all’appello, il Presidente del Collegio, su richiesta di tutte le parti, rinviava il ricorso 6035/2018 alla camera di consiglio del giorno 25 ottobre 2018, per riunione con il connesso ricorso 7274/2018 sopra citato.

Con memoria 22 ottobre 2018, il Comune ribadiva le proprie difese, invitando altresì l’amministrazione statale a chiarire la propria posizione, ovvero il significato della volontà di resistere al ricorso di cui si è detto, tenendo conto che a dire del Comune la Soprintendenza avrebbe dichiarato di voler reprimere il presunto abuso.

Alla camera di consiglio del 25 ottobre 2018, sempre su richiesta di tutte le parti, il Presidente rinviava entrambi i ricorsi alla pubblica udienza del 24 gennaio 2019 per la trattazione del merito.

Il ricorso 7274/2018 è l’appello, depositato il giorno 18 settembre 2018, parallelamente proposto contro la medesima sentenza di cui in epigrafe dall’associazione ambientalista interveniente ad opponendum in I grado, la quale ha dedotto cinque censure, riconducibili secondo logica ai seguenti tre motivi:

- con il primo di essi corrispondente alle censure prima e quarta alle pp. 6 e 20 dell’atto, deduce violazione dell’art. 1 comma 553 della l. 190/2014 negli stessi termini di cui al primo motivo di appello nel ricorso n.6035/2018;

- con il secondo motivo, corrispondente alle censure seconda e terza alle pp. 11 e 19 dell’atto, deduce violazione dell’art. 21 septies della l. 241/1990, sostenendo che l’autorizzazione paesaggistica rilasciata sarebbe comunque nulla, e non semplicemente annullabile, in termini anche qui identici a quanto dedotto nel secondo motivo di appello nel ricorso n.6035/2018,

- con il terzo motivo, corrispondente alla quinta censura alla p. 26 dell’atto, critica infine la sentenza di I grado per avere ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 commi 552 e 553 della l. 190/2014, per violazione dell’art. 9 Cost. e chiede a questo Giudice di sollevarla.

In via subordinata, chiede comunque che il proprio appello, ove non fosse riconosciuta la sua autonoma legittimazione ad impugnare la sentenza di I grado, sia considerato quale intervento nel giudizio di appello (atto di impugnazione, p.6 prime righe).

Nel procedimento 7274/2018 hanno resistito l’impresa, con atto 24 settembre e memoria 19 ottobre 2018, la quale ha chiesto che anche questo appello sia respinto;
la Regione, con memoria 22 ottobre 2018, la quale ha chiesto che l’appello sia invece accolto, e la Soprintendenza, con atto 24 ottobre 2018, la quale ha dichiarato di volervi resistere.

Nel procedimento 6035/2018, l’amministrazione statale depositava il giorno 7 novembre 2018 una relazione con documenti;
successivamente le parti precisavano le rispettive difese con memorie 18 dicembre 2018 per il MISE, il quale concludeva esplicitamente per il rigetto di entrambi gli appelli;
19 dicembre 2018 per l’impresa e 24 dicembre 2018 per la Regione, nonché con repliche 3 gennaio 2018 sia per l’impresa che per la Regione.

Lo stesso avveniva parallelamente nel procedimento 7274/2018, con memorie 19 dicembre 2018 per le amministrazioni statali, le quali hanno concluso anche in questa sede per la reiezione dell’appello;
21 dicembre 2018 per l’associazione appellante;
24 dicembre 2018 per l’impresa e per la Regione, e con repliche 2 gennaio 2019 per l’associazione e 3 gennaio 2019 per l’impresa e per la Regione.

Successivamente, il giorno 16 gennaio 2019, il MISE ha direttamente depositato una relazione la quale, alla lettera, “esprime la posizione di questo Ministero” in ordine ad entrambi i giudizi, e sostiene come a suo dire “possa configurarsi un’ipotesi di nullità dell’autorizzazione finale”.

Con memoria 21 gennaio 2019, l’impresa ha contestato tale affermazione.

Alla pubblica udienza del giorno 24 gennaio 2019, fissata come sopra si è detto, la Sezione ha infine trattenuto i ricorsi in decisione.

DIRITTO

1. In via preliminare, i ricorsi vanno riuniti ai sensi dell’art. 96 comma 1 c.p.a., in quanto si tratta di impugnazioni proposte contro la medesima sentenza.

2. Sempre in via preliminare, va dato atto che la relazione del Ministero 16 gennaio 2019 di cui s’è detto in premesse, e la memoria conseguente dell’impresa, depositata il 21 gennaio 2019, sono tardivi rispetto ai termini di deposito previsti dall’art. 73 comma 1 c.p.a.;
di conseguenza, non se ne tiene conto ai fini della decisione.

3. Ciò posto, entrambi gli appelli principali sono infondati e vanno respinti, e per conseguenza va dichiarato improcedibile l’appello incidentale proposto dall’impresa nel procedimento 6035/2018, il tutto per le ragioni che seguono.

4. In via preliminare, va respinta l’eccezione preliminare proposta dall’impresa, secondo la quale l’appello 6035/2018 sarebbe inammissibile perché il Comune, come si è detto, non avrebbe contestato in modo specifico l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 14 ter l. 241/1990 ritenuta in sentenza. Per costante giurisprudenza, infatti, l’appello per essere validamente proposto non richiede formule sacramentali, dato che in tal senso occorre e basta che il Giudice dell’impugnazione sia messo in condizione di capire le ragioni per le quali il primo Giudice avrebbe dovuto decidere diversamente: per tutte, C.d.S. sez. VI 5 aprile 2018 n.2121 e sez. IV 27 maggio 1985 n.208.

5. Ciò posto, entrambi gli appelli sono infondati nel merito;
in proposito, va precisato che i primi due motivi proposti nell’appello 7274/2018 riproducono i corrispondenti motivi proposti anche nell’appello 6035/2018, e pertanto verranno esaminati congiuntamente ad essi;
il terzo motivo proposto invece prospetta una questione di legittimità costituzionale, come tale rilevabile anche d’ufficio;
di conseguenza, diviene irrilevante accertare se l’associazione appellante nel procedimento 7274/2018 citato fosse o no legittimata a proporre in proprio l’impugnazione.

6. Il primo ed il secondo motivo del ricorso 6035/2018, e i conformi motivi primo e secondo del ricorso 7274/2018, che sostengono, in sintesi estrema, l’impossibilità di assegnare all’autorizzazione originaria, ovvero al decreto MISE-MIT 26 maggio 2015 n.17407, il valore di autorizzazione anche paesaggistica, e in subordine la sua nullità come tale, vanno esaminati congiuntamente perché all’evidenza connessi, e sono tutti infondati.

6.1 L’opera per la quale è causa costituisce, come si è detto, un’infrastruttura strategica ai sensi dell’art. 57 comma 1 lettera e) del d.l. 5/2012 convertito nella l. 35/2012, che appunto considera tali “ i depositi di stoccaggio di G.P.L. di capacità autorizzata non inferiore a tonnellate 200 ”, ove nella specie si tratta, come è pacifico, di un deposito di capacità pari a 9.000 tonnellate. Come tale, essa è soggetta, in base al comma 2 dello stesso articolo 57, ad una autorizzazione rilasciata “ dal Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ”, che è appunto quella citata. L’autorizzazione in parola è poi disciplinata dal comma 3 ter sempre dell’art. 57, introdotto dal comma 552 dell’art. 1 della l. 190/2014 e in vigore dal 1 gennaio 2015, secondo il quale essa, come si è detto anche in premesse, “ produce gli effetti previsti dall'articolo 52- quinquies , comma 2, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, nonché quelli di cui all'articolo 38, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 ”. Il richiamo all’art. 38 comma 1 del d.l. 133/2014 qui non rileva, trattandosi della norma per cui l’opera si considera per sua natura dichiarata di pubblica utilità, nella specie non oggetto del contendere;
interessa invece il richiamo all’art. 52 quinquies del T.U. espropriazioni, D.P.R. 327/2001, secondo il quale l’autorizzazione così rilasciata “ sostituisce, anche ai fini urbanistici ed edilizi nonché paesaggistici, ogni altra autorizzazione, concessione, approvazione, parere, atto di assenso e nulla osta comunque denominati, previsti dalle norme vigenti, costituendo titolo a costruire e ad esercire tutte le opere e tutte le attività previste nel progetto approvato, fatti salvi gli adempimenti previsti dalle norme di sicurezza vigenti ”.

6.2 L’autorizzazione per cui è causa è stata rilasciata il 25 maggio 2015, quindi molto dopo l’entrata in vigore del comma 3 ter dell’art. 57 di cui si è detto;
si potrebbe pertanto, per ciò solo, concludere che essa ha il valore anche di autorizzazione paesaggistica, ditalché dell’ordinanza di demolizione del Comune 9 maggio 2017 mancherebbe il presupposto giuridico in base al quale essa è stata emanata. Tale conclusione però è stata contestata, in particolare dalla difesa dal Comune, sulla base degli argomenti che ora si vedranno in ordine logico.

6.3 In primo luogo, è stato contestato che effettivamente la norma dell’art. 3 ter si applichi alla fattispecie per cui è causa, sostenendo quindi, secondo logica, che l’autorizzazione di cui al più volte citato decreto MISE-MIT 26 maggio 2015 n.17407, qual che ne sia il valore in positivo, non potrebbe avere quello di autorizzazione paesaggistica. Ciò sulla base del comma 553 della l. 190/2014, quello successivo appunto alla norma che ha introdotto il comma 3 ter , per cui “ le disposizioni di cui all'articolo 57 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, come modificate dal comma 552 si applicano, su istanza del proponente, anche ai procedimenti in corso relativi alla autorizzazione di opere rispetto alle quali sia stato adottato un decreto di compatibilità ambientale alla data di entrata in vigore della presente legge ”. Secondo la tesi in esame, quindi, l’autorizzazione rilasciata potrebbe avere il valore anche di autorizzazione paesaggistica a due condizioni, entrambi nel caso in esame pacificamente mancanti: si dovrebbe trattare di un’opera per cui era già stato adottato un decreto di compatibilità ambientale al 1 gennaio 2015, data di entrata in vigore della legge, e vi sarebbe dovuta essere un’istanza del proponente, qui dell’impresa, in tal senso.

6.4 Tale ordine di idee non va condiviso, in base alle argomentazioni già esposte dal Giudice di I grado, che questo Collegio fa proprie e qui sinteticamente riassume. Sotto il profilo dell’interpretazione letterale, occorre anzitutto rilevare che il comma 553 prevede che le nuove disposizioni si applichino “ anche ” ai procedimenti con le caratteristiche indicate, e non “ soltanto ” ad essi: è evidente che si tratta non di una norma non restrittiva, ma ampliativa della portata della regola generale. La regola medesima, come ritenuto anche dal I giudice, va poi individuata, in termini sistematici, con la regola generale tempus regit actum, ovvero con la regola per cui l’atto amministrativo è disciplinato dalle norme in vigore nel momento in cui viene emanato, ed è innegabile che, nel momento in cui il decreto 26 maggio 2015 è stato emanato, la norma era in vigore, e quindi, secondo la regola delineata, il nuovo comma 3 ter non poteva non applicarglisi. Sempre in termini sistematici, e per completezza, si deve delineare quale sia allora lo scopo della norma ampliativa del comma 553, e anche in questo caso si condivide l’interpretazione data dal Giudice di I grado: essa è dettata per il caso di procedimenti già in corso, disciplinati dall’art. 57 d.l. 5/2012 nel testo previgente, in cui ai sensi degli artt. 26, richiamato dal comma 4 dell’art. 57 stesso, e 27 del d. lgs. 3 aprile 2006 n.152 la valutazione di impatto ambientale già valeva come autorizzazione paesaggistica. In tal caso, il principio tempus regit actum non sarebbe potuto operare di per sé, perché gli effetti prodotti dal comma 3 ter si sarebbero configurati come duplicazione di effetti già prodotti dal provvedimento unico in materia ambientale di cui all’art. 27 d.lgs. 152/2006. Pertanto, il comma 553 lascia al proponente dell’intervento la scelta fra avvalersi dell’autorizzazione paesaggistica già ottenuta nel provvedimento unico suddetto ovvero di quella “nuova” contenuta nel decreto autorizzatorio in forza del comma 3 ter, ovviamente in questo caso con rinuncia implicita agli effetti della prima.

6.5 In secondo luogo, si è affermato che, se anche il decreto MISE-MIT 26 maggio 2015 n.17407 in astratto potrebbe avere il valore di autorizzazione paesaggistica, esso in concreto non lo potrebbe rivestire, perché nella parte relativa corrisponderebbe ad un atto nullo, e quindi inesistente come tale.

6.6 Anche tale ultima affermazione non va condivisa. Anzitutto, in termini generali, giurisprudenza costante afferma che, per non eludere il principio fondamentale della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, le cause di nullità dell’atto amministrativo vanno intese come un numero chiuso, limitato ai casi espressamente previsti dalla legge;
nei casi invece di contrasto con norma imperativa non espressamente sanzionato dalla nullità, si deve parlare non di nullità virtuale, ma di ordinario vizio di legittimità, da far valere nell’ordinario termine di decadenza: così per tutte sul principio C.d.S. sez. IV 3 marzo 2018 n.2028 e sez. V 13 febbraio 1998 n.166. La nullità in esame, pertanto, potrebbe essere già esclusa solo considerando che le norme citate non la prevedono in modo esplicito.

6.7 La difesa delle parti interessate, tenendo per implicito ferma la regola generale di cui sopra, ha invece sostenuto che nel caso concreto il vizio dell’autorizzazione 26 maggio 2015, costituito in ipotesi dalla mancata considerazione dell’interesse paesaggistico, sarebbe talmente grave da produrre ugualmente la nullità, per diretta derivazione dai principi. Gli argomenti portati a sostegno di questa tesi, però, non sono condivisibili.

6.8 In primo luogo, non è vero quanto sostengono le difese del Comune e della Regione, ovvero che nelle conferenze di servizi 17 giugno 2014 e 3 marzo 2015, all’esito delle quali fu emanato il decreto 26 maggio 2015, l’amministrazione preposta alla tutela degli interessi paesaggistici fosse completamente assente. Tale amministrazione infatti va identificata con il Comune intimato appellante, che nella regione Veneto è competente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica stessa, in quanto ente idoneo compreso nell’elenco di cui alla deliberazione della Giunta regionale 14 dicembre 2010 n.2945. Il Comune stesso, come risulta dal decreto (doc. 3 ricorrente in I grado ricorrente in ricorso 669/2017, cit.) alle conferenze indicate fu presente, ed espresse parere favorevole, con prescrizioni, oltretutto completamente tutto estranee alla materia paesaggistica. Si applicherebbe quindi in ogni caso l’art. 14 ter della l. 241/1990, nel testo all’epoca vigente, per cui “ Si considera acquisito l'assenso dell'amministrazione, ivi comprese quelle preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità, alla tutela paesaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di VIA, VAS e AIA ” evidentemente estranei alla fattispecie “ il cui rappresentante, all'esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la volontà dell'amministrazione rappresentata .”

6.9 Tale conclusione non viene meno neanche considerando le competenze da un lato della Soprintendenza e dall’altro della Commissione di salvaguardia istituita dalla l. 16 aprile 1973 n.171, dal cui mancato coinvolgimento, in ipotesi, deriverebbero il mancato esame degli interessi paesaggistici e quindi la nullità dell’autorizzazione. Rispetto a tali due organi, infatti, va svolta una considerazione comune, ovvero che si tratta in entrambi i casi di organi consultivi, ai sensi per la prima dell’art. 146 comma 5 del d. lgs. 42/2004 e per la seconda dell’art. 6 comma 1 della l. 171/1973. Pertanto, nessuno di questi due organi aveva titolo per essere presente nella conferenza di servizi, essendo invece il Comune che avrebbe dovuto rivolgersi loro per acquisirne il parere. In tali termini, diventa allora irrilevante stabilire se la Commissione di salvaguardia abbia o no conservato le sue funzioni limitatamente al territorio del Comune intimato appellante.

6.10 Non sono rilevanti nel senso della nullità nemmeno i precedenti asseritamente conformi di questo Giudice citati dalle difese, che riguardano due vicende di tipo diverso. Nei casi analoghi decisi da C.d.S. sez. IV 8 gennaio 2018 n.67 e sez. VI 23 maggio 2012 n.3039, la nullità di un provvedimento, nella specie l’autorizzazione unica regionale per la costruzione e l’esercizio di un aerogeneratore, rilasciata all’esito di una conferenza di servizi, è stata ritenuta nell’ipotesi, verificatasi in tutte e due le occasioni, in cui una delle amministrazioni invitate aveva manifestato un esplicito dissenso, e l’amministrazione procedente, anziché promuovere la procedura di legge per eventualmente superarlo ricorrendo al Consiglio dei Ministri, aveva proceduto ugualmente. In tal caso, è stato ritenuto il difetto di attribuzione, perché la competenza a deliberare, di fatto, alla Regione ancora non spettava.

6.11 Tutto ciò non significa, va detto per completezza, che nell’ambito del procedimento che ha portato ad emanare il decreto 26 maggio 2015 un’esplicita considerazione degli interessi paesaggistici vi sia stata;
significa soltanto che eventuali vizi in materia potevano comportare non la nullità dell’atto, ma la sua annullabilità, che si sarebbe potuta far valere impugnandolo nell’ordinario termine di decadenza, il che, come s’è visto, non si è verificato.

7. Si esamina ora, in ordine logico, il terzo motivo del ricorso 7274/2018, che prospetta, come si è detto, una questione che sarebbe rilevabile anche d’ufficio, ovvero la possibile incostituzionalità della norma del comma 552 della l. 190/2014, per violazione dell’art. 9 della Costituzione, nel senso che la norma avrebbe creato un’autorizzazione paesaggistica pronunciata senza alcuna concreta considerazione degli interessi coinvolti. Anche in questo caso, vanno condivise le considerazioni svolte in proposito dal Giudice di I grado, e quindi il motivo va respinto per manifesta infondatezza della questione.

7.1 Secondo la tesi dell’associazione appellante, la norma del comma 552 sarebbe incostituzionale nella parte in cui, applicandosi ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, comporta che l’autorizzazione emessa al relativo esito abbia il valore di autorizzazione paesaggistica senza garantire comunque, ad esempio con una norma transitoria che la preveda, lo svolgimento di un’apposita istruttoria sul punto.

7.2 La tesi però non è condivisibile perché, come osserva anche la sentenza di I grado, tale automatismo in realtà non sussiste. L’autorizzazione unica di cui al comma 3 ter che la norma in esame introduce, infatti, è pur sempre il risultato di un atto espresso dell’amministrazione, che conserva intatto il suo potere di decidere, e quindi non è un effetto diretto della norma. Pertanto, nel caso di specie, e in tutti quelli consimili, all’entrata in vigore del comma 552 l’amministrazione stessa avrebbe potuto, e dovuto, chiedersi se la necessaria istruttoria sugli interessi paesaggistici fosse o no stata fatta, e in caso negativo eseguirla, ovvero scegliere di respingere la domanda del privato. Se ciò non si è verificato, dipende da una scelta dell’amministrazione, e non dalla norma, che pertanto non può dirsi incostituzionale.

8. Il terzo motivo del ricorso 6035/2018 è a sua volta infondato, perché come è evidente l’atto 5 maggio 2017 con cui la Soprintendenza invitò il Comune a reprimere il presunto abuso ha natura di atto non provvedimentale e come tale non impugnabile, sì che la sentenza non avrebbe dovuto né potuto annullarlo.

9. Il quarto motivo del ricorso 6035/2018, rivolto contro la parte di sentenza che respinge il ricorso del Comune contro la proroga dell’autorizzazione 26 maggio 2015 è ancora infondato: per quanto si è detto, l’autorizzazione stessa non era nulla, e quanto ad eventuali vizi di legittimità era ormai divenuta inoppugnabile;
di conseguenza non vi era ragione di ritenerla non prorogabile;
lo stesso decreto 26 maggio 2015 originario prevedeva poi all’art. 2 ultima parte che le proroghe potessero essere accordate non più con decreto interministeriale, ma con semplice decreto del MISE, sì che il motivo è infondato anche su questo punto specifico.

10. Il quinto motivo del ricorso 6035/2018 infine è inammissibile perché le presunte violazioni dell’art. 7 della l. 241/1990 possono essere fatte valere, ai sensi del successivo art. 8 della stessa legge, solo dai soggetti nel cui interesse esse sono stabilite;
fra questi, non vi è il Comune, che sicuramente aveva interesse a impugnare il provvedimento di proroga, ma non rientra fra i destinatari di effetti giuridici diretti dell’atto.

11. La reiezione dell’appello principale 6035 comporta improcedibilità dell’appello incidentale dell’impresa originaria ricorrente, la quale non potrebbe dall’esame di esso ottenere un’utilità superiore a quella che già ha così conseguito.

12. La particolarità e complessità delle questioni trattate, sulle quali non constano precedenti editi negli esatti termini, è giusto motivo per compensare le spese del presente grado di giudizio.

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