Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2024-03-13, n. 202402452

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2024-03-13, n. 202402452
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202402452
Data del deposito : 13 marzo 2024
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 13/03/2024

N. 02452/2024REG.PROV.COLL.

N. 05066/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5066 del 2021, proposto dal Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

contro

-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avv. L P, con domicilio digitale presso il medesimo in assenza di elezione di domicilio fisico in Roma;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione prima quater , del -OMISSIS- resa tra le parti


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del dott. -OMISSIS-

Visti tutti gli atti della causa;

Viste le istanze di passaggio in decisione senza discussione orale, depositate dalle parti;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 novembre 2023 il cons. Francesco Guarracino, presente per la parte appellante l’avv. dello Stato Fabio Tortora;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il Ministero dell’interno ha proposto appello avverso la sentenza in epigrafe, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha annullato il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio del dott. -OMISSIS- dirigente superiore della Polizia di Stato, adottato dal Capo della Polizia il 28 ottobre 2020 a seguito della pubblicazione del dispositivo di sentenza del 7 ottobre 2020 con cui il Tribunale di Rimini ha ritenuto il dott.-OMISSIS-all’epoca dei fatti questore della provincia -OMISSIS- responsabile dei reati di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità (artt. 56 e 319 quater c.p.) e di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (artt. 48 e 479 c.p.), condannandolo a anni due di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

La domanda di sospensione dell’esecutività della sentenza appellata, proposta in via incidentale dal Ministero appellante, è stata rinunciata.

L’appellato si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello e ha successivamente prodotto una memoria difensiva.

Con ordinanza collegiale n. 6076 del 21 giugno 2023 la trattazione del ricorso è stata rinviata al fine di acquisire l’esito del giudizio d’appello in sede penale.

Il 13 settembre 2023 il Ministero ha depositato copia del dispositivo della sentenza emessa il 14 luglio 2023 dalla Corte di appello di Bologna che ha confermato, con un diverso trattamento sanzionatorio, la condanna dell’appellato per il delitto di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità.

L’appellato ha depositato una memoria di discussione e, su concorde istanza delle parti di passaggio in decisione senza trattazione orale, alla pubblica udienza del 14 novembre 2023 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

1. – La questione controversa attiene all’applicabilità anche ai delitti tentati dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97, per il quale « Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall’articolo 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio ».

Il richiamato art. 3, comma 1, fa riferimento ai « delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall’articolo 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 » e riguarda i dipendenti « di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica ».

L’odierno appellato ha subito una condanna per il delitto tentato (art. 56 c.p.) di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319- quater c.p.).

L’Amministrazione di appartenenza lo ha sospeso dalla funzione e dall’ufficio nel convincimento che la sospensione cautelare obbligatoria, ai sensi degli artt. 3 e 4 della l. n. 97/2001, riguardi sia il caso di condanna per delitto consumato, sia il caso di condanna per delitto tentato in relazione alle predette fattispecie di reato (tra cui quella prevista dall’art. 319- quater c.p.).

Il Tribunale amministrativo regionale, osservando che il delitto tentato costituisce una fattispecie di reato autonoma rispetto a quella del delitto consumato, ha annullato il provvedimento di sospensione perché « [d]alla distinzione tra la fattispecie penale del delitto consumato e quella del delitto tentato discende che, nella fattispecie astratta per la quale, dal combinato disposto dell’articolo 4, comma 1, e dell’articolo 3, comma 1, della legge 97 del 2001 consegue la sospensione obbligatoria dal servizio, non rientra la condanna per il delitto tentato di induzione indebita a dare o promettere utilità ». Secondo il primo giudice, se la legge avesse voluto estendere anche alle condanne per delitti tentati la sospensione automatica dal servizio avrebbe dovuto prevederlo espressamente.

2. – Tale conclusione è avversata in appello dal Ministero, il quale, con un unico motivo, sostiene che la disposizione sulla sospensione obbligatoria, nel rinviare genericamente ai delitti sopra menzionati, utilizza una locuzione ampia, priva di alcun distinguo, tale da riferirsi a tali reati in qualunque forma si manifestino e quindi inclusiva del delitto “tentato”, del delitto in “concorso di persone”, del delitto in “concorso di reati” e del delitto “circostanziato”.

Afferma, inoltre, che il tentativo non costituisce un reato autonomo, rappresentandone, invece, una semplice forma di manifestazione;
che se in sede penale l’art. 56 c.p. consente di estendere l’ambito di applicazione della norma incriminatrice, non si comprende per quale ragione debba svolgere la funzione opposta in sede amministrativa riducendo l’ambito di applicazione degli istituti disciplinari;
che già in altre occasioni la giurisprudenza amministrativa e quella contabile hanno riconosciuto l’equiparabilità del reato tentato con quello consumato e l’irrilevanza della distinzione con riguardo ad ipotesi di reato particolarmente gravi come la concussione;
che anche il delitto nella sua forma “tentata” elide il rapporto fiduciario col dipendente pubblico, sicché la credibilità dell’apparato statale agli occhi dei cittadini sarebbe gravemente compromessa se continuasse ad avvalersi di dipendenti condannati per i gravi reati previsti dal citato art. 3 cit. nella loro forma “tentata”;
che una diversa interpretazione tradirebbe la ratio sottesa all’art. 4, comma 1, della l. n. 97/2001, della quale propugna un’interpretazione teleologica, avallata da una delibera dell’Autorità Nazionale Anticorruzione in fattispecie analoga;
che, considerata la pacifica natura cautelare e non sanzionatoria della sospensione obbligatoria dal servizio, risulta inconferente il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla disciplina delle misure di sicurezza e delle pene accessorie previste dal codice penale.

3. – A sostegno della fondatezza del suo assunto il Ministero ha prodotto in seguito copia di un parere di questo Consiglio recentemente reso in un caso analogo, su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso un decreto di sospensione cautelare dal servizio di un ispettore superiore della Polizia di Stato condannato per un tentativo di concussione (art. 56 c.p. e 317 c.p.).

In quel parere (C.d.S., sez. I, 15 febbraio 2022, n. 379) si esclude la possibilità di fare richiamo al principio penalistico di tassatività e di autonomia tra la fattispecie tentata e quella consumata del medesimo reato ritenendo « improprio utilizzare sul piano amministrativo la concezione penale del tentativo, trattandosi di ambiti completamente diversi sia per ratio che per funzione; (…) sotto il profilo amministrativo, il delitto tentato e il delitto consumato non possono che ricevere lo stesso trattamento, atteso che la finalità delle disposizioni recate dagli artt. 3 e 4 della legge 97/2001 è la tutela del buon andamento della pubblica amministrazione e la necessità di evitare di esporla al cd. strepitus fori, interessi che possono essere lesi in egual modo sia dal reato consumato che tentato ». Si esclude, inoltre, la possibilità di giungere a una diversa conclusione qualificando la sospensione obbligatoria come misura sanzionatoria in base alla giurisprudenza della Corte E.D.U. (c.d. criteri Engel ), poiché vi osta la finalità meramente cautelare della sospensione.

Richiamati tre precedenti pronunce in sede cautelare (una di primo grado, due d’appello) e l’analogo orientamento assunto dalla Corte dei Conti, sez. giurisd. per la Sicilia (n. 3588 del 3 novembre 2011) e dall’A.N.A.C. (delibera n.447 del 17 aprile 2019), nel parere si condivide la linea interpretativa che, valorizzando il carattere cautelare della misura, ritiene che « il generale riferimento della norma alla condanna per uno dei delitti previsti dal capo I del titolo II del codice penale, pur in assenza di specificazione in ordine a fattispecie consumata piuttosto che tentata, deve essere considerato comprensivo di entrambe le fattispecie di reato, e ciò in considerazione sia del bene giuridico tutelato, appunto l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa, che non ammette una diversa rilevanza delle fattispecie di reato consumato rispetto a quello tentato, sia della completezza, dal punto di vista di tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, del delitto tentato rispetto a quello consumato ». Diversamente opinando, si sostiene, si avrebbe un’irrazionale contraddizione sistematica all’interno dell’ordinamento e un vuoto di tutela dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa.

4. – Il Collegio, tuttavia, è di diverso avviso.

5. – Gli interrogativi essenziali che sono alla base del problema hanno formato oggetto di particolare approfondimento a opera della giurisprudenza penale di legittimità quando si è dovuta occupare della questione della possibilità di disporre anche nel caso di delitto tentato, e non solo in quello di delitto consumato, il sequestro preventivo finalizzato alla c.d. confisca “allargata” di cui all’art. 12 sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con l. 7 agosto 1992, n. 356, vigente all’epoca che ne individuava le ipotesi elencando nominativamente specifici delitti nel primo comma e contemplava invece tutti i delitti nel secondo comma purché aggravati ai sensi dell’art. 7 della l. n. 203/1991, senza fare alcun riferimento a delitti tentati o delitti consumati.

La giurisprudenza della Cassazione si era divisa, infatti, in tre distinti indirizzi:

uno restrittivo che restringeva la confisca ai soli reati consumati, facendo leva, per quanto in questa sede più interessa, sull’autonomia del delitto tentato rispetto a quello consumato, sui principi di legalità e tassatività delle misure di sicurezza, sull’impossibilità di estendere in malam partem le norme sfavorevoli siccome di stretta interpretazione, sulla minore gravità del delitto tentato rispetto a quello consumato che rendeva ragionevole ritenere si fosse trattato di una scelta del legislatore;

uno opposto, per il quale, non facendo alcuna distinzione tra l’ipotesi tentata o consumata, il legislatore avrebbe voluto, invece, comprendere nell’espressione “delitto” sia quello consumato che quello tentato, in considerazione della finalità perseguita dalla norma;

uno intermedio, il quale, pur condividendo l’affermazione dell’impossibilità di un’interpretazione estensiva della norma che non menzionava il delitto tentato, poiché esso costituisce una fattispecie criminosa autonoma risultante dalla combinazione della norma incriminatrice e dell’art. 56 c.p. (sicché l’indicazione nominativa, specifica, di singoli delitti non può essere che effettuata con riferimento ai delitti consumati, in quanto, per indicare i delitti tentati, il legislatore dovrebbe menzionarli ovvero accostare ad ogni fattispecie incriminatrice il richiamo all’art. 56 c.p.), tuttavia ritiene che la formula che non conteneva specificazioni di norme incriminatrici e titoli (come era quella di cui all’art. 12 sexies , comma 2, cit.) ma un generico riferimento ai delitti aggravati - in quel caso - ex art. 7 l. n. 203/1991 (agevolazione o metodo mafioso), indipendentemente dallo specifico titolo di reato, sarebbe stato chiaramente comprensiva di ogni delitto in tal guisa aggravato, consumato o tentato che fosse.

Quel contrasto è stato composto dalle Sezioni unite penali della Corte di cassazione con sentenza n. 40985 del 24 settembre 2018.

Le Sezioni unite hanno, anzitutto, ricordato i numerosi precedenti in cui la giurisprudenza penale di legittimità già aveva adottato la diversa interpretazione dell’indicazione nominativa di uno specifico delitto, come comprendente solo l’ipotesi consumata, rispetto a quella dell’indicazione generale di una categoria di delitti, come comprendente sia i delitti tentati che quelli consumati, in fattispecie afferenti diversi campi del diritto penale in cui si era posta un’analoga questione per il fatto che la formulazione delle norme accostava elenchi nominativi di delitti ad indicazione di categorie di delitti (in particolare, quelli aggravati ex art. 7 l. n. 203/1991) e l’opzione di considerare compresi in tali categorie anche i delitti tentati produceva effetti sfavorevoli per l’interessato.

Hanno, quindi, riconosciuto come « centrale e risolutivo » per risolvere il contrasto a favore della tesi intermedia l’argomento della natura autonoma del delitto tentato.

Hanno osservato, in particolare, che l’indirizzo estensivo « sembra ignorare il tema dell’autonomia del delitto tentato, limitandosi a sostenere che il silenzio del legislatore sul punto non autorizza alcuna distinzione tra fattispecie consumate e fattispecie tentate: ma, appunto, la mancanza di indicazioni specifiche deve essere affrontata sulla base dei principi generali, in base ai quali "accanto" ad un delitto consumato è sempre ipotizzabile un corrispondente delitto tentato » e hanno criticato la conclusione secondo cui il disposto normativo sarebbe chiaro nel comprendere entrambe le ipotesi anche quando omette di menzionare delitti certamente esistenti, vale a dire i delitti tentati, in quanto per superare il dato letterale non è sufficiente richiamare la finalità e l’oggetto della norma, ciò non potendo ribaltare l’interpretazione letterale della medesima.

Hanno, quindi, concluso che « [s]e il delitto tentato rappresenta "una fattispecie criminosa autonoma, risultante dalla combinazione di una norma principale - la norma incriminatrice - e di una norma secondaria, prevista dall’art. 56 c.p.", allora è corretto sostenere che il legislatore, quando menziona, ad esempio, il "delitto previsto dall’art. 314 c.p.", intenda riferirsi al solo delitto consumato », mentre se la norma non indica nominativamente un determinato delitto, ma richiama una categoria di delitti non specificati (come nel caso dell’art. 12 sexies cit. che evocava un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), il riferimento si deve intendere fatto a tutti i delitti che posseggono le caratteristiche per essere inclusi in quella categoria, siano essi consumati o tentati (si « interpreta la legge attribuendole il senso fatto palese dal significato proprio delle parole: perché, appunto, la parola "delitto", senza ulteriore specificazione, è comprensiva anche dei delitti tentati »).

6. – Quelle considerazioni, per la loro natura sistematica e la loro portata generale, paiono al Collegio pianamente estendibili al caso in esame, dove la disposizione applicata all’appellato, come si è visto, richiama nominativamente i « delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale e dall’articolo 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 », che corrispondono a fattispecie criminose specifiche quali, nel nostro sistema giuridico, i delitti consumati sono rispetto ai delitti tentati, risultanti invece dalla combinazione delle stesse norme incriminatrici con l’art. 56 c.p.

Se il legislatore avesse voluto imporre la sospensione dal servizio anche per i dipendenti condannati per il tentativo di uno di quei delitti avrebbe potuto farlo ad esempio con l’inciso “consumati o tentati” oppure accostandovi il richiamo all’art. 56 c.p.

L’argomento, indubbiamente suggestivo, incentrato sulla pretesa ratio legis e sul vulnus o sul vuoto di tutela che ne deriverebbe all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione non pare tener conto che la diversa gravità del delitto tentato rispetto al delitto consumato in relazione alla medesima norma incriminatrice rende ragionevole la scelta, che compete unicamente al legislatore, di riservare la sospensione obbligatoria dal servizio al solo caso di condanna per delitto consumato e quindi di affidare, nel caso di condanna per delitto tentato, la tutela degli interessi pubblici evocati dal Ministero appellante ad altri strumenti (già il T.A.R., nella sentenza appellata, ha sostenuto che il Ministero « avrebbe dovuto valutare, in concreto, la gravità dei fatti per applicare, eventualmente, la sospensione cautelare dal servizio, nei termini previsti dal proprio ordinamento disciplinare »).

La presenza di distinti strumenti di intervento (la sospensione cautelare facoltativa) non solo esclude l’utilizzabilità dello strumento interpretativo (che peraltro, nel caso di specie, sembra controvertibile) del ricorso alla ratio legis , ma, al contrario, rafforza le conclusioni cui perviene questo Collegio.

Difatti, in presenza di già esistenti strumenti di intervento “mediati”, nella loro applicazione, dalla procedimentalizzazione e dall’esercizio della discrezionalità dell’amministrazione (come nel caso della sospensione facoltativa), il ricorso ad una misura caratterizzata da automatismo (come quella in esame) costituisce un “rafforzamento di tutela” che, nel sacrificare alcuni elementi di garanzia per il dipendente pubblico a fronte del bene consistente nel buon andamento amministrativo e nell’immagine della pubblica amministrazione, richiede necessariamente – onde giustificarne la previsione ed in ossequio ad un diverso bilanciamento di valori tutti costituzionalmente tutelati – il ricorso alla interpretazione letterale, poiché è corretto ritenere, in tale contesto, che solo per i reati da essa contemplati la norma preveda il predetto “rafforzamento di tutela” ed il corrispondente sacrificio di altri beni e valori pur essi contemplati e tutelati dalla Costituzione.

Né è possibile condividere l’argomento secondo il quale non sarebbe possibile applicare alla norma amministrativa (quale è l’art. 4 della legge n. 97/2000), il principio di tassatività proprio delle norme penali.

In disparte la valutazione se una sospensione automatica, non prevedendo concreto esercizio di potere amministrativo, possa effettivamente ritenersi estranea alla categoria degli “effetti penali”, occorre osservare come, nei casi in cui è la norma penale che prevede fattispecie di reato a costituire presupposto per l’applicazione in concreto della norma amministrativa, il Giudice non può comunque sottrarsi ad un esame rigoroso della sussistenza (o meno) del presupposto penale normativamente previsto, secondo gli strumenti interpretativi propri di tale norma, ancorché regolante la produzione dell’effetto definito “amministrativo”, onde evitare che il presupposto penale venga individuato secondo regole interpretative che non gli sono proprie.

7. – Per queste ragioni, in conclusione, l’appello è infondato e dev’essere conseguentemente respinto.

8. – Sussistono i presupposti per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado, in considerazione dei mutamenti della giurisprudenza in argomento.

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