Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-09-26, n. 201805531
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Pubblicato il 26/09/2018
N. 05531/2018REG.PROV.COLL.
N. 08787/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8787 del 2014, proposto dai signori A M B, M F e D F, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato D F, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Vaticano, n. 48;
contro
il Ministero dei beni delle attività culturali e del turismo, in persona del Ministro
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Campania – Sezione Salerno – Sez. I n. 896 del 2014;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dei beni delle attività culturali e del turismo;Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 maggio 2018 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti l’avvocato D F e l’avvocato dello Stato Melania Nicoli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.‒ Gli odierni appellanti premettono:
- di essere proprietari di un appezzamento di terreno di mq 3184, sito in Ascea Marina (distinto in catasto al foglio 44 mappale n. 478), ricadente in zona C2 (“zona di espansione”) del PRG, ove era consentita la realizzazione di nuovi interventi edilizi, anche residenziali, secondo i seguenti parametri: a ) indice di fabbricabilità fondiaria 0.50; b ) indice di fabbricabilità territoriale 0.40; c ) indice di copertura 0,20; d ) altezza massima ml 7.00; e ) numero di piani 2; f ) distanza assoluta dagli edifici ml 10,00; g ) distanza dai confini ml 5,00; h ) parcheggi nel lotto 10 mq/100 mc;
- di avere presentato un progetto per la realizzazione di un fabbricato trifamiliare su un unico livello fuori terra nel rispetto dello strumento di pianificazione comunale, scelta progettuale invisibile dai punti di pregio paesistico del territorio, primi fra tutti il mare e l’acropoli di Velia;
- il progetto veniva assentito ai fini paesaggistici con decreto n. 3641 del 17 luglio 2007 dall’Amministrazione comunale;
- la Soprintendenza, con decreto n. 32150 del 22 novembre 2007, annullava l’autorizzazione paesaggistica, rilevando la non corrispondenza tra la «tipologia prescelta e l’interazione percettiva tra i luoghi oggetto della previsione edificatoria e la torre di Velia», valorizzando l’asserita mancanza di previsioni circa lo sviluppo dell’area e l’assenza di rilevanti interventi antropici nell’ambito interessato dall’intervento, nonché adducendo la «non corrispondenza dell’andamento orografico riportato nei grafici di progetto con il reale stato dei luoghi»;
- il Tribunale Amministrativo Regionale, Sezione di Salerno, con la sentenza n. 996 del 26 maggio 2011, passata in giudicato in data 11 gennaio 2012, annullava il decreto ministeriale;
- nelle more del giudizio, tuttavia, era approvata una modifica della normativa urbanistica, che determinava la perdita della vocazione edificatoria dell’area (segnatamente: il Piano del Parco nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, approvato nella seduta del Consiglio Regionale della Campania del 24 dicembre 2009, aveva assoggettato il fondo della ricorrente alla disciplina prevista per le zone definite C1 del Piano del Parco, in cui la costruzione di nuovi edifici sono ammessi solo in funzione degli usi agricoli, agrituristici e della residenza dell’imprenditore agricolo);
- con nuovo ricorso giurisdizionale, i ricorrenti, deducendo di avere persa la possibilità di trasformare il fondo di proprietà ai fini edilizi realizzando il progetto assentito dal Comune nel 2007 a causa del provvedimento illegittimo della Soprintendenza, chiedevano il ristoro dei danni subiti;
- Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione di Salerno, con la sentenza n. 896 del 2014, respingeva la domanda, rilevando ‒ dopo un’ampia premessa generale ‒ quanto segue: «[a]ppare, invero, corretto l’assunto della difesa erariale secondo cui, indipendentemente dall’esito (sfavorevole) del giudizio inerente all'annullamento del decreto soprintendentizio oggetto di controversia, lo stesso era stato adottato nel quadro di un preciso e costante orientamento di tutela, per giunta esplicitamente formalizzato alla Regione Campania ed al Comune di Ascea con nota n. 22066 del 05.07.2006, con la qua le si chiariva, per quanto di interesse: a) che gran parte dei fenomeni di degrado del paesaggio riscontrati nel comune di Ascea erano da ritenere imputabili al piano regolatore che, anche in aree di espansione (come nel caso di specie), consentiva gli interventi diretti (in assenza di piano attuativo), seppure nel limite volumetrico di 700 metri cubi;b) che la Soprintendenza, nell'ambito delle proprie competenze, aveva disposto l'annullamento di “numerose autorizzazioni paesaggistiche”, anche richiamando formalmente l'amministrazione comunale ai tini di “una più accorta gestione del paesaggio vincolato”. Che il costante orientamento della Soprintendenza fosse quello di garantire adeguate condizioni di tutela paesaggistica al territorio di Ascea situato a monte della linea ferrata è ulteriormente confermato dalle valutazioni effettuate dalla commissione interna del 16.11.2007, tenutasi proprio per l'esame dell'autorizzazione per cui è causa: nel corso di tale seduta (il cui verbale risulta versato agli atti del giudizio e la cui acquisizione sarebbe stata, in ogni caso, determinante ai fini dell’apprezzamento del complessivo “comportamento” amministrativo) la commissione evidenziò la necessità di annullare l’autorizzazione paesaggistica rilasciata alla sig.ra Buonomo, proprio in ragione dei richiamati (ed ormai acquisiti) orientamenti di tutela. La circostanza è sufficientemente eloquente al fine di dimostrare che il provvedimento soprintendentizio annullato non ha costituito il frutto di valutazione episodica e disparitaria (e, come tale, “negligente”), ma fu adottato in coerenza con la posizione formalmente assunta, che avrebbe caratterizzato, dal 2006 in poi, il modus operandi della Soprintendenza. In sostanza, che il Tribunale abbia ravvisato il travisamento dei fatti idoneo a giustificare l’annullamento (per illegittimità) del provvedimento impugnato non esclude che la Soprintendenza debba ritenersi – se non altro sotto il profilo della coerente valorizzazione delle esigenze paesaggistiche della zona – esente da colpa (come prova – per quanto possa sembrare paradossale, proprio il successivo intervento protettivo prefigurato dal sopravvenuto piano del parco) ».
2.– I signori A M B, M F e D F hanno quindi proposto appello, contestando la statuizione con cui il giudice di prime cure ha ritenuto che i profili di illegittimità censurati nel giudizio di annullamento non erano idonei ad integrare l’elemento soggettivo della colpa rilevante ai fini risarcitori, in quanto il provvedimento ministeriale sarebbe stato «adottato nel quadro di un preciso e costante orientamento di tutela, per giunta esplicitamente formalizzato alla Regione Campania ed al Comune di Ascea con nota n. 22066 del 05.07.2006».
In particolare, secondo gli appellanti:
- il T.a.r. non avrebbe potuto riconoscere rilievo dirimente alla nota n. 22066/06 della Soprintendenza, in quanto prodotta (in data 3 febbraio 2014) oltre il termine di quaranta giorni liberi prima dell’udienza (previsto dall’art. 73 c.p.a.), da calcolarsi a ritroso rispetto all’udienza pubblica del 6 marzo 2014;
- l’accertamento, su cui si è formato il giudicato, della illegittimità del decreto soprintendentizio per falsità di presupposti doveva essere rilevato nel successivo giudizio risarcitorio, al fine di valutare la “colpa” della amministrazione statale;
- la declaratoria di responsabilità della pubblica amministrazione si sarebbe potuta escludere solo in ipotesi di riconoscimento di un errore scusabile, che non sussisterebbe nel caso di specie;
- peraltro nelle valutazioni istruttorie effettuate, sia dalla commissione interna del 16 novembre 2007, sia nel provvedimento con il quale la Soprintendenza ha annullato l’autorizzazione paesaggistica comunale, non vi sarebbe traccia del «costante orientamento di tutela», formalizzato nella citata nota prot. n. 22066/2006;
- considerato che la Soprintendenza aveva basato la propria determinazione su circostanze ed elementi di fatto diversi (poi ritenuti non significativi in sede giurisdizionale), la nota n. 22066/2006, per come arbitrariamente valorizzata dal giudice di prime cure, avrebbe determinato l’integrazione postuma del provvedimento annullato.
Su queste basi, gli istanti insistono per l’accoglimento della domanda risarcitoria, pretendendosi la riparazione: in via principale, del danno derivante dalla perdita dei profitti che gli interessati avrebbero conseguito una volta realizzato l’intervento edilizio (quantificato in € 486.972,98);in via subordinata, del “deprezzamento” subito dal terreno divenuto privo di capacità edificatoria (stimato in € 245.168,00).
4.– Il Ministero dei beni delle attività culturali e del turismo si è costituito nel presente giudizio di appello ed ha chiesto che il gravame sia respinto.
5.‒ All’esito dell’udienza pubblica del giorno 3 maggio 2018, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.‒ L’appello risulta infondato e va respinto.
2.‒ Con l’autorizzazione paesaggistica di data 17 luglio 2007, n. 3641, il Comune di Ascea assentiva la realizzazione di tre unità abitative a schiera in località Pennino.
L’atto veniva annullato per illegittimità dalla Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Salerno ed Avellino, con decreto 22 novembre 2007, sulla scorta dei seguenti rilievi:
- l’ubicazione in una zona quasi integra nella sua naturalità, interessata dalla presenza di irrilevanti interventi antropici;
- la bellezza dei luoghi, separati dalla zona urbana dal rilevato ferroviario;
- la mancanza di ogni previsione circa lo sviluppo urbanistico dell’area;
- l’essere in corso di realizzazione un nuovo PUC;
- la contrarietà verso futuri insediamenti abitativi, altrimenti favoriti dall’urbanizzazione della zona;
- l’interazione visiva con l’acropoli di Velia;
- la non corrispondenza tra l’andamento orografico in progetto ed il reale stato dei luoghi;
- l’eccesso di aree pavimentate all’esterno, in luogo del verde e di opere di mitigazione dell’impatto.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Salerno, con sentenza n. 996 del 2011, passata in giudicato, accoglieva la censura relativa al vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti, così motivando:
« E’ infondata l’affermazione secondo cui manca “ogni previsione” circa lo sviluppo urbanistico dell’area, risultando questa, al contrario, normata da un PRG, che la inserisce in zona C2.
Né può utilmente sostenersi la possibilità di una moratoria in attesa del PUC.
Spetterà invece al PUC il compito, eventualmente, di arrestare nuovi insediamenti nell’area.
Viene poi stigmatizzata, in via del tutto non circostanziata, la non corrispondenza tra l’andamento orografico in progetto ed il reale stato dei luoghi.
L’evenienza, tuttavia, non è risultata confermata in sede istruttoria, tramite accertamento congiunto demandato alle parti.
E’ inoltre evidente che un siffatto rilievo da parte di un’autorità pubblica, sottendendo gli estremi di un illecito penale e deontologico, avrebbe dovuto determinare conseguenze ben più gravi rispetto all’impugnato annullamento del nulla osta, che agli atti non risultano.
Residuano, quindi, le osservazioni inerenti la localizzazione dell’opera.
In proposito, si fa valere:
- l’ubicazione in una zona quasi integra nella sua naturalità, interessata dalla presenza di irrilevanti interventi antropici;
- la bellezza dei luoghi, separati dalla zona urbana dal rilevato ferroviario.
E però, gli esiti del sopralluogo congiunto hanno evidenziato che l’area del comune di Ascea posta aldilà del rilevato ferroviario si caratterizza oramai da una notevole presenza antropica, insistendo:
- un manufatto rurale su due livelli, sul lotto adiacente a sud;
- manufatti di notevoli dimensioni, sul lotto adiacente a nord;
- un’imponente lottizzazione a m. 300 dal fondo Buonomo, sempre sul lato nord;
- lotti limitrofi a monte “ampliamente antropizzati”.
A questo punto, quali cause ostative dell’intervento, permarrebbero:
- l’interazione visiva con l’acropoli di Velia;
- l’eccesso di aree pavimentate all’esterno, in luogo del verde e di opere di mitigazione dell’impatto.
Ma la prima di queste, formulata in via apodittica, appare smentita dal verbale di sopralluogo congiunto, dove è messo in chiaro che la quota di posa del manufatto è di molto inferiore a quella dello stesso rilevato ferroviario, mentre la seconda non è senz’altro da sola sufficiente a giustificare il provvedimento negativo adottato ».
3.1.‒ Accertata, con sentenza passata in giudicato, l’illegittimità dell’originario diniego e l’attuale non assentibilità della istanza in forza del sopravvenuto Piano del Parco, ai fini della disamina della domanda risarcitoria occorre valutare la sussistenza dei relativi presupposti.
L’illegittimità del provvedimento non equivale all’illiceità della condotta dell’Amministrazione autrice del provvedimento, giacché le risultanze del giudizio risarcitorio sono strettamente commisurate alla verifica della consistenza effettiva dell’interesse materiale che si assume leso.
A questi fini, la questione della lesività, attenendo all’ingiustizia del danno, precede quella della colpevolezza. Nell’illecito provvedimentale, soltanto se l’illegittimità accertata ha determinato la privazione (o il diniego) di un’utilità che il diritto assicurava, o ne ha pregiudicato l’acquisizione, può dirsi che il provvedimento è lesivo dell’interesse materiale. È ben possibile, infatti, che la violazione di una norma non abbia avuto un ruolo eziologico nel determinare il contenuto provvedimento che si assume pregiudizievole, potendo darsi disposizioni protettive la cui la violazione non produce ‒ di per sé ‒ il nocumento lamentato, e che pertanto non può dirsi «ingiusto».
3.2.‒ Nel caso in esame, l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è stato censurato sotto i profili della logicità e coerenza di una valutazione che resta connotata da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità.
L’effetto conformativo del giudicato di annullamento ‒ ove si fosse potuto esplicare in assenza della sopravvenienze normative che hanno reso l’area comunque non più edificabile ‒ avrebbe imposto la riedizione del potere senza alcun vincolo positivo rispetto al conseguimento dell’efficacia dell’autorizzazione paesaggistica.
Infatti, per la consolidata giurisprudenza, nei casi di annullamento in sede giurisdizionale dell’atto statale di annullamento di una autorizzazione paesaggistica (nel regime poi trasfuso nell’art. 159 del Codice n 42 del 2004), la sentenza del giudice amministrativo comportava che l’Autorità statale dovesse nuovamente esercitare il proprio potere di verificare, entro un rinnovato termine perentorio, la legittimità della originaria autorizzazione comunale (in tal senso Cons. St., Sez. VI, 20 maggio 2011, n. 3000;v. anche Ad. Plen. 14 dicembre 2001, n. 9, sui principi applicabili affinché l’autorizzazione comunale potesse diventare efficace).
La regola violata ‒ relativa al dovere di logica e corretta motivazione ‒ aveva dunque privato gli interessati non del risultato finale (la certezza di potere edificare), bensì di una utilità intermedia, consistente nella mera possibilità di un risultato vantaggioso.
3.3.‒ La domanda risarcitoria sollevata nel presente giudizio ha ad oggetto la riparazione del risultato sperato (che, invece, non si sa affatto se ci sarebbe stato), e non il valore ‒ distinto ed autonomo ‒ costituito dalla perdita della possibilità di conseguirlo.
Sennonché, la liquidazione del danno da perdita di chance non può essere operata d’ufficio dal giudice, in quanto non può dirsi insita, come un minus , in quella volta a far valere il pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato.
La domanda per perdita di chance , infatti, è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, perché in questo secondo caso l’accertamento è incentrato sul nesso causale, mentre nel primo oggetto dell’indagine è un particolare tipo di danno, e segnatamente una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, quale la mera possibilità del risultato finale (in questo senso, anche la giurisprudenza civile: cfr. Cass., sez. III, 29 novembre 2012, n. 21245).
Pertanto, trattasi di domanda diversa, sulla quale, ove non proposta, il giudice non può pronunciare.
3.‒ Oltre alle precedenti osservazioni, la domanda risarcitoria proposta in primo grado risulta infondata anche perché non sussiste – né è stato rappresentato dall’appellante - alcun elemento per ravvisare la rimproverabilità dell’Amministrazione statale (indispensabile per ravvisare la responsabilità amministrativa, quando sia stato leso un interesse legittimo con un atto annullato in sede giurisdizionale: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 1047 del 2005;n. 4297 del 2006;n. 3521 del 2013;n. 5611 del 2015).
Il provvedimento soprintendentizio del 22 novembre 2007 ‒ come correttamente statuito dal giudice di prime cure ‒ non ha costituito il frutto di una valutazione episodica ed arbitraria, bensì è stato adottato:
- nel quadro di un coerente indirizzo volto alla valorizzazione delle esigenze paesaggistiche della zona, culminato non a caso con il successivo intervento disposto dal sopravvenuto Piano del Parco;
- sulla base di una articolata motivazione basata sul particolare pregio dei luoghi, che la sentenza del TAR n. 996 del 2011 ha ritenuto non basata su comprovati riscontri, ma che in questa sede (ove vanno valutati i presupposti per ravvisare o meno l’ingiustizia del danno) risulta coerente con le oggettive risultanze del Piano all’epoca in itinere e poi sopravvenuto (mentre, per di più, proprio la medesima sentenza aveva ipotizzato che una successiva pianificazione avrebbe potuto, sia pure ‘eventualmente’, impedire sull’area ‘nuovi insediamenti’).
4.‒ D’altra parte, neppure risulta che si sarebbe potuto rilasciare il titolo edilizio, in presenza della previsione urbanistica che – in ragione della prevista volumetria - lo subordinava all’approvazione di uno strumento attuativo, nella specie mancante.
5.‒ Inoltre, l’interessata avrebbe potuto rimuovere la lesione arrecata da tale Piano al suo interesse pretensivo, qualora avesse impugnato fondatamente il Piano sopravvenuto, ciò che non risulta avvenuto.
6.‒ Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite del secondo grado di giudizio, attesa la particolarità della vicenda.