Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-02-27, n. 202001434

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-02-27, n. 202001434
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202001434
Data del deposito : 27 febbraio 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/02/2020

N. 01434/2020REG.PROV.COLL.

N. 00358/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 358 del 2019, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato A M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il Cons. Oberdan Forlenza e udito l’avvocato dello Stato Giulio Bacosi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.1.Con l’appello in esame, il signor -OMISSIS- impugna la sentenza -OMISSIS-, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I-quater ha rigettato il suo ricorso avverso il provvedimento 5 dicembre 2007 n. 333-D/34816, con il quale il Capo della Polizia ha disposto la sua destituzione dal servizio, a seguito del furto di alcune zuccheriere del ristorante “-OMISSIS-”, avvenuto in data -OMISSIS-.

L’episodio aveva coinvolto sia l’attuale appellante sia un suo collega.

Afferma la sentenza impugnata che tale provvedimento faceva seguito alla sentenza del Tribunale di Grosseto del 30 dicembre 2004 (sentenza poi confermata sia in Corte di Appello sia in Cassazione), la quale, pur avendo dichiarato l’improcedibilità del giudizio per mancata proposizione della querela, aveva accertato la responsabilità del ricorrente.

La sentenza impugnata ha affermato, in particolare:

- per il promovimento dell’azione disciplinare, ai sensi dell’art. 9 l. n. 19/1990, “l’amministrazione deve avere integrale conoscenza del testo della sentenza irrevocabile, in mancanza del quale viene meno persino la possibilità stessa di procedere con l’iniziativa disciplinare”;

- ne consegue che il termine di 180 giorni “decorre dall’effettiva conoscenza della sentenza da parte dell’amministrazione, e quindi dall’estrazione di copia della sentenza della Corte di Cassazione”;
nel caso di specie, a seguito dell’ordinanza della Corte di Cassazione 24 aprile 2007, che ha dichiarato inammissibile il ricorso, vi è stato avvio del procedimento disciplinare con la nomina del funzionario istruttore e con la nota del 29 maggio 2007;

- non vi è stato alcun difetto di istruttoria, posto che “il Consiglio provinciale di disciplina ha desunto dal complesso delle circostanze e delle dichiarazioni acquisite nella sede delle indagini preliminari un quadro di elementi indiziari coerente e verosimile nello svolgersi dei fatti, sì da ricavarne dati sufficienti a ricostruire la vicenda nei suoi tratti essenziali ed a individuare le responsabilità del ricorrente”. E ciò tenuto conto del principio secondo il quale anche una sentenza che definisce il procedimento penale con una pronuncia in rito ha la possibilità di giungere ad un accertamento dei fatti e delle responsabilità alla pari di una sentenza di condanna”;

- non vi è stata sproporzione tra sanzione e caso di specie, poiché la sanzione “è stata erogata avendo a riferimento una condotta che non poteva che essere considerata contraria ai doveri assunti con il giuramento e, quindi, allo status degli appartenenti alla Polizia di Stato” (tenuto altresì conto di precedenti procedimenti disciplinari conclusisi con irrogazione di sanzione al ricorrente: due richiami scritti e tre pene pecuniarie).

1.2. Avverso la sentenza impugnata viene proposto un unico, articolato motivo di appello, e precisamente: error in iudicando ;
violazione del principio di proporzionalità della sanzione irrogata;
difetto di motivazione;
eccesso di potere per travisamento dei fatti;
ciò in quanto, nel caso di specie, “appare evidente come la sanzione massima, quella cioè espulsiva, inflitta al ricorrente risulta oggettivamente non proporzionata avuto riguardo ai fatti accertati e alle ragioni opposte dall’interessato”, considerando in particolare che:

a) le sentenze che hanno riguardato il ricorrente sono comunque sentenze di proscioglimento, con valore meramente processuale;

b) “lo stesso pubblico ministero in appello ha concluso formulando richiesta di accoglimento dell’appello (proposto dall’odierno ricorrente) perché il fatto non sussiste”;

c) la valutazione della responsabilità disciplinare del ricorrente “appare carente sotto il profilo della motivazione, in quanto basata unicamente sull’accertamento dei fatti relativi alla sottrazione delle quattro zuccheriere del ristorante ove il -OMISSIS- e il suo collega avevano cenato nonché sul tipo di reato contestato, senza che risultino aver formato oggetto di considerazione le particolari circostanze in cui il fatto si era verificato, il tenue valore degli oggetti asportati, la mancata proposizione della querela da parte del titolare dell’esercizio”.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

All’udienza pubblica di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, nei limiti di seguito esposti.

2.1. Occorre innanzi tutto ricordare che questo Consiglio di Stato, con sentenza -OMISSIS-, ha già avuto modo di pronunciarsi sulla vicenda oggetto della presente controversia, giudicando (con esito negativo) dell’appello del Ministero dell’Interno avverso la sentenza del TAR che aveva accolto il ricorso proposto avverso la sanzione della destituzione dall’altro appartenente alla Polizia di Stato coinvolto, unitamente al -OMISSIS-, nella vicenda che ha formato oggetto sia di procedimento penale sia di procedimento disciplinare.

Come si è già avuto modo di affermare con la precedente decisione, la responsabilità dell’appellante per il furto commesso nell’ottobre 2001 non è mai stata accertata in sede penale.

Difatti, le sentenze emesse dal Tribunale di Grosseto in data 30 dicembre 2004 e dalla Corte d’appello di Firenze in data 14 febbraio 2006 hanno dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’imputato per carenza di una condizione di procedibilità (la querela della persona offesa dal reato);
in tale contesto, le due predette sentenze penali hanno esaminato le risultanze processuali soltanto per escludere, ai sensi dell’art. 129, secondo comma, c.p.p., la sussistenza di una ragione evidente per l’assoluzione dell’imputato con formula pienamente liberatoria (e cioè che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato).

Anche la Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso proposto dell’odierno appellato avverso la sentenza della Corte d’appello, con l’ordinanza del 3 luglio 2007 ha evidenziato il carattere eminentemente processuale della impugnata pronuncia e dunque la carenza di un effetto lesivo della stessa, in ragione del mancato accertamento nel merito della responsabilità dell’imputato.

2.2. Da quanto ora esposto, consegue che l’istruttoria compiuta in sede amministrativa in vista della adozione del provvedimento finale di irrogazione della sanzione disciplinare risulta insufficiente per aver fatto leva unicamente sulle risultanze processuali penali, stante il profilo essenzialmente neutrale di tali pronunce con riguardo alla colpevolezza dell’imputato per i fatti ascrittigli.

Al contrario, l’amministrazione avrebbe dovuto piuttosto compiutamente ricostruire i fatti accaduti e, conseguentemente, valutarli per accertare la loro incidenza sulla sua immagine e quale sanzione risultasse meritevole di irrogazione.

Orbene, se è vero che la valutazione della sanzione irrogabile una volta accertati i fatti disciplinarmente rilevanti rientra nella potestà tecnico-discrezionale dell’amministrazione – come tale in linea di massima non censurabile dal giudice amministrativo in sede di sindacato di legittimità – nondimeno tale sindacato risulta comunque esercitabile una volta che la valutazione si presenti manifestamente affetta dal vizio di eccesso di potere per illogicità, ovvero il provvedimento risulti emanato in carenza di istruttoria in ordine ai fatti disciplinarmente rilevanti, ovvero risulti un difetto di motivazione in ordine all’iter logico seguito.

2.3. Nel caso di specie, oltre alla riscontrata carenza istruttoria, il provvedimento sanzionatorio, così come dedotto dall’appellante, risulta:

- sia non accompagnato da una esauriente ed autonoma valutazione dei fatti ascritti all’incolpato (e che, solo una volta compiutamente accertati, possono integrare l’illecito disciplinare e la conseguente sanzione);

- sia non coerente con il principio di proporzionalità, posto che l’amministrazione non ha valutato con ragionevolezza la parvità dell’episodio, per modalità di concreta commissione del fatto e per tenuità del valore delle cose asportate (una non rilevanza tale da aver indotto la stessa parte lesa a non insistere nel richiedere la punizione dei colpevoli).

A fronte di ciò, l’irrogazione della massima sanzione di stato, quale la destituzione dal servizio, risulta essere sproporzionata rispetto all’episodio contestato.

In sede disciplinare, infatti, deve esservi la specifica valutazione dei fatti accaduti, poiché la loro eventuale lievità può giustificare una sanzione diversa da quella massima (salve le più severe valutazioni, in presenza dei relativi presupposti, se il dipendente commetta ulteriori mancanze e addirittura reati): altrimenti opinando, qualsiasi reato doloso o comportamento disdicevole potrebbe essere posto a base della misura disciplinare dell’estinzione del rapporto di lavoro.

Per le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso instaurativo del giudizio di primo grado, con conseguente annullamento del provvedimento in tale sede impugnato.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese ed onorari del doppio grado di giudizio.

3. Il Collegio intende, inoltre, riconfermare quanto già affermato con la precedente sentenza n. -OMISSIS-, con riferimento alle conseguenze derivanti dalla pronuncia di annullamento.

Premesso che “ il giudice amministrativo ben può individuare quali sono i principi cui si deve attenere l’amministrazione (Sez. IV, 7 gennaio 2011, n. 25;
Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353)
”, nella specie, dunque, “ trattandosi dell’annullamento di un provvedimento incidente su un interesse legittimo, non si applicano gli art. 88 ss. del testo unico n. 3 del 1957 e i principi sulla restitutio in integrum (rilevanti per legge solo nel caso di completo proscioglimento dell’incolpato dall’addebito).

Tenuto conto delle circostanze del caso concreto, e poiché il mero annullamento dell’atto impugnato non comporta di per sé la spettanza del risarcimento, ritiene inoltre la Sezione che, a parte il potere di rinnovare il procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 119 del medesimo testo unico, non si giustifichi alcuna conseguente pretesa dell’appellato, volta ad ottenere risarcimenti o retribuzioni per il periodo di tempo in cui non ha prestato servizio, in considerazione dei principi di carattere generale riguardanti il contributo causale alla determinazione del danno e più in generale gli elementi costitutivi dell’illecito.

La mancata prestazione dell’attività lavorativa è infatti risultata comunque la conseguenza di una mancanza dell’appellato, di per sé giustificativa dell’esercizio del potere disciplinare, anche se nella specie questo è stato esercitato . . . in violazione del principio di proporzionalità.

Al riguardo, ritiene il Collegio che il giudice amministrativo – nel valutare se l’Amministrazione abbia rispettato il principio di proporzionalità in sede di emanazione di un provvedimento di destituzione – debba unitariamente valutare quali siano le conseguenze delle proprie statuizioni e possa anche seguire una soluzione diversa e intermedia tra le due alternative tradizionalmente ritenute giuridicamente possibili (reiezione del ricorso di primo grado, con perdita irrimediabile del posto di lavoro;
accoglimento del ricorso di primo grado, con attribuzione degli emolumenti arretrati in ragione della portata retroattiva della sentenza di annullamento).

Una soluzione intermedia – che tenga ragionevolmente conto delle posizioni in conflitto - può anche consistere nell’accoglimento della domanda di annullamento e nell’accertamento della non spettanza di emolumenti arretrati, quando il dipendente abbia commesso una mancanza, la cui obiettiva gravità in sede giurisdizionale sia tuttavia ritenuta non giustificativa del provvedimento espulsivo. . . .

Rapportate tali considerazioni ai presupposti indefettibili per ravvisare l’illecito amministrativo quando sia stato emanato un atto di destituzione in violazione del principio di proporzionalità, la Sezione ritiene, da un lato, che emerge la preponderante efficienza causale del comportamento dell’appellato quale presupposto dell’attivazione del procedimento disciplinare e anche dell’atto finale, e dall’altro che la rimproverabilità del medesimo comportamento, sia pure non incompatibile col ripristino del rapporto di lavoro, rende a lui giuridicamente imputabile il mancato svolgimento del servizio.

Pertanto, in sede di esecuzione della presente sentenza, l’appellato ha titolo alla reimmissione in servizio (con la spettanza dei relativi emolumenti a decorrere dalla data di sua comunicazione o di previa notificazione a istanza di parte), ma oltre al ripristino del rapporto di lavoro non ha anche titolo alla corresponsione di emolumenti arretrati”.

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