Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2022-10-27, n. 202209227

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza 2022-10-27, n. 202209227
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202209227
Data del deposito : 27 ottobre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/10/2022

N. 09227/2022REG.PROV.COLL.

N. 04628/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 4628 del 2019, proposto da
F A, L B, R C, C C, P D C, M D L, D F, M F, G E M, M V M, E M, C M, M M, L P, M P, F P, A R, F S, F R T, F T, R T, L M U, G V, rappresentati e difesi dall’avvocato C Rienzi, con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, viale delle Milizie 9;

contro

Ministero dell’università e della ricerca, Università degli studi di Roma La Sapienza, di Bologna - Alma Mater Studiorum, degli studi di Torino, degli studi di Firenze, degli studi di Genova, degli studi di Messina, degli studi del Piemonte Orientale, degli studi Roma Tor Vergata, degli studi di Reggio Calabria, degli studi di Trieste, degli studi di Cassino, degli studi di Macerata, degli studi di Palermo, degli studi di Bari, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici sono elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (sezione terza- bis ) n. 11528/2018


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’università e della ricerca e delle Università degli studi di Roma La Sapienza, di Bologna - Alma Mater Studiorum, degli studi di Torino, degli studi di Firenze, degli studi di Genova, degli studi di Messina, degli studi del Piemonte Orientale, degli studi Roma Tor Vergata, degli studi di Reggio Calabria, degli studi di Trieste, degli studi di Cassino, degli studi di Macerata, degli studi di Palermo e degli studi di Bari;

Viste le memorie e tutti gli atti della causa;

Relatore all’udienza ex art. 87, comma 4- bis , cod. proc. amm. del giorno 30 settembre 2022 il consigliere F F, sulle istanze di passaggio in decisione delle parti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Gli appellanti in epigrafe ricorrono nella presente sede giurisdizionale amministrativa affinché sia accertato nei confronti di ciascuno di essi il rapporto di pubblico impiego con le università presso le quali hanno svolto attività di docenza in qualità di professori a contratto, ai sensi dell’art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 ( Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario ), e in precedenza in base all’art. 25 del DPR 11 luglio 1980, n. 382 ( Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica ). Con la domanda di accertamento è cumulata quella di annullamento degli regolamenti ministeriali in materia, se interpretati nel senso che gli incarichi di docenza a contratto possono dare luogo soltanto ad un rapporto di collaborazione autonoma (decreti ministeriali 21 maggio 1998, n. 242, di approvazione del regolamento recante norme per la disciplina dei professori a contratto ;
e 8 luglio 2008, recante Criteri e modalità per il conferimento da parte degli Atenei di incarichi di insegnamento gratuiti e retribuiti ), e delle note con cui gli atenei resistenti hanno respinto le loro rispettive richieste. Gli odierni appellanti hanno inoltre chiesto che siano riconosciute in loro favore le differenze retributive conseguenti all’accertamento del rapporto di pubblico impiego.

2. Le domande si fondano sull’utilizzo abusivo dello strumento contrattuale. Si assume al riguardo che gli incarichi sarebbero stati affidati non già per rispondere a specifiche esigenze didattiche e di acquisizione di professionalità altamente qualificate, in conformità alle sopra richiamate disposizioni, ma per adibire gli incaricati a mansioni e attività sostanzialmente equivalenti a quelle svolte dai professori di ruolo. Secondo la prospettazione a base del ricorso, l’abuso così descritto sarebbe servito agli atenei per coprire le proprie scoperture di organico del personale docente, come dichiarato negli stessi bandi relativi alle procedure selettive attraverso cui i contratti di docenza sono stati affidati, e per ottenere risparmi di spesa, in virtù del minor costo derivante dal corrispettivo contrattuale rispetto agli oneri per retribuzioni dei professori di ruolo.

3. Le domande così sintetizzate sono state respinte in primo grado dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma, con la sentenza in epigrafe.

4. Enunciata l’incompatibilità sul piano giuridico tra la « figura di prestatore d’opera intellettuale tipizzata e differenziata dalla generalità dei prestatori d’opera intellettuale » del professore a contratto e il « prestatore di lavoro dipendente », la sentenza ha conseguentemente affermato impossibilità di configurare nei confronti del primo i tipici « indici di riconoscimento della subordinazione » su cui si fondano le domande dei ricorrenti. Ha inoltre escluso che l’esistenza di un rapporto lavorativo dipendente potesse fondarsi nel caso di specie sull’affidamento ai ricorrenti di compiti di insegnamento non rispondenti a strette esigenze di integrazione della didattica istituzionale, ma sostitutivi delle ordinarie mansioni dei docenti di ruolo: innanzitutto perché quest’ultima ipotesi è riconducibile allo schema di cui al citato art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240;
inoltre perché il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato « equivarrebbe da un lato ad infrangere il principio di tipicità degli atti amministrativi e dall’altro a contravvenire all’espressa volontà negoziale delle parti, che hanno voluto la stipula di un contratto di diritto privato e non di un contratto di lavoro subordinato »;
ed ancora per i divieti di legge alla trasformazione dell’incarico contrattuale in impiego di ruolo alle dipendenze della pubblica amministrazione. In ragione di ciò ha respinto la domanda diretta a dichiarare la nullità dei termini apposti a contratti stipulati dai ricorrenti. Ha infine dichiarato manifestamente infondate le questioni di costituzionalità della disposizione di legge ora richiamata per l’asserita discriminazione rispetto ai professori universitari di ruolo da essa derivante.

5. A mezzo del presente appello, in resistenza del quale si sono costituiti il Ministero dell’università e della ricerca e gli atenei indicati in epigrafe, sono quindi riproposte le domande già respinte in primo grado per le ragioni ora esposte.

DIRITTO

1. L’appello censura la sentenza di primo grado innanzitutto per avere escluso in radice la possibilità di configurare nel contratto per attività di insegnamento universitario gli indici della subordinazione di fatto, in ragione del solo dato formale dato dello schema contrattuale utilizzato dalle parti. In contrario viene richiamata la consolidata giurisprudenza di legittimità che in materia giuslavoristica ha invece attribuito rilievo decisivo alle concrete modalità di svolgimento del rapporto lavorativo, delle quali si lamenta la mancata verifica nel caso di specie, malgrado le stesse deporrebbero in modo inequivoco per uno stabile inserimento dei ricorrenti nell’organizzazione universitaria, in ragione della dichiarata necessità a base dell’affidamento degli incarichi in loro favore di coprire scoperture degli organici del personale docente, e nello svolgimento in modo continuativo di attività di insegnamento, oltre che di ricevimento studenti in orari prestabiliti e di supporto agli stessi nella redazione delle tesi di laurea, in modo sostanzialmente equivalente ai docenti di ruolo.

2. Con un secondo ordine di censure è riproposta la domanda di nullità del termine apposto ai loro contratti di lavoro, che si assume respinta in primo grado sulla base di una non consentita disapplicazione della direttiva 1999/70/CE ( relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato ). In contrario si sostiene che nell’ambito della sua tipica efficacia diretta verticale negli ordinamenti nazionali la direttiva sarebbe applicabile anche alle università pubbliche, in coerenza con il dichiarato scopo di carattere generale di rimuovere gli abusi nell’apposizione di un termine di durata ai contratti di lavoro e di assicurare un trattamento paritario dei lavoratori a termine con quelli a tempo indeterminato. Quindi, si sottolinea che nel caso di specie i contratti stipulati dai ricorrenti hanno ecceduto i limiti entro cui essi sono consentiti ai sensi del sopra citato art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, per via del superamento del limite massimo dei cinque anni previsto ed inoltre perché nei relativi contratti non sono mai state specificate le ragioni specifiche che ne giustificassero l’utilizzo.

3. Con il terzo motivo d’appello la sentenza di primo grado è censurata nella parte in cui ha respinto la domanda di conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro instaurato da ciascuno dei ricorrenti con l’università di appartenenza, ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 ( Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES ), sul presupposto che a ciò osterebbe l’art. 9 DPR 20 dicembre 1979 n. 761 ( Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali ). In contrario si deduce che nessuna disposizione di legge osterebbe alla tutela del lavoratore consistente nella conversione del suo contratto in uno a tempo indeterminato, di cui nel caso di specie ricorrerebbero tutti gli indici di fatto;
in particolare non verrebbe vulnerato il principio costituzionale del pubblico concorso (art. 97, comma 4 Cost.), in ragione del fatto che per ottenere gli incarichi di insegnamento i ricorrenti hanno dovuto sostenere procedure selettive di carattere concorsuale.

4. Con il quarto motivo è formulata è quindi riproposta la domanda risarcitoria, in relazione alla quale viene dedotta l’omessa pronuncia in primo grado, come anche sulla domanda subordinata diretta ad ottenere la tutela minima consistente nel riconoscimento del trattamento economico e giuridico previsto per il personale assunto a tempo determinato dalle Università resistenti e il riconoscimento dell’anzianità maturata con la ripetizione dei contratti di insegnamento.

5. Infine, nei confronti del più volte citato art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, sono riproposte le questioni di illegittimità costituzionale e di compatibilità con la parimenti sopra richiamata direttiva 1999/70/CE, nella parte in cui non consente il riconoscimento di un rapporto di lavoro nei confronti dei professori a contratto.

6. Tutto ciò premesso, nessuno dei motivi come sopra sintetizzati è fondato.

7. Con riguardo alle censure svolte nel primo motivo deve precisarsi che ai fini del riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato in caso di prestazione d’opera intellettuale la giurisprudenza lavoristica esige la dimostrazione che il potere direttivo del datore di lavoro si esplichi in misura tale per cui sia quest’ultimo a disporre pienamente della prestazione, in linea di principio insuscettibile di suo di essere eterodeterminata, mentre non assume rilievo decisivo l’obbligo per il prestatore di rispettare in modo rigido un orario di lavoro o comunque il fatto che lo stesso svolta le proprie attività con regolarità e continuità (di recente in questo senso: Cass., IV, ord. 4 maggio 2020, n. 8444;
sent. 20 agosto 2012, n. 14573). Il richiamo dei principi elaborati in materia dalla giurisprudenza è pertanto sufficiente al rigetto del motivo, avuto riguardo al fatto che la rigorosa prova richiesta non è stata nel caso di specie fornita, e che in particolare essa non può essere ricavata dalle sopra richiamate deduzioni, riferite in modo indistinto a tutti i ricorrenti, concernenti l’attività didattica da ciascuno di essi svolta in esecuzione dei contratti di insegnamento universitario loro affidati, quali risultanti dall’istruttoria svolta nel giudizio di primo grado.

8. A quest’ultimo riguardo, non è stata inoltre censurata l’affermazione contenuta nella sentenza secondo cui gli incarichi di insegnamento, quali ora disciplinati dall’art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, possono essere impiegati per « compiti di insegnamento non meramente integrativi del programma istituzionale ma sostitutivi, integranti in sostanza l’assegnazione di un vero e proprio corso ». Nell’ambito di questi compiti possono quindi essere collocate le attività che i ricorrenti affermano di avere svolto in modo sostanzialmente equivalente ai docenti di ruolo, e cioè: la documentazione degli argomenti trattati nelle lezioni svolte;
la partecipazione a commissioni di esame e di laurea;
l’assistenza agli studenti nella redazione delle tesi di laurea e il ricevimento degli stessi. Dal loro svolgimento non sono pertanto ricavabili gli indici di una subordinazione di fatto, né tanto meno uno svuotamento dell’autonomia connaturata al carattere intellettuale delle attività in questione.

9. Peraltro, in linea con quanto statuito dalla sentenza di primo grado, la prova di una totale determinazione della prestazione si pone in termini di difficile configurabilità rispetto ad incarichi di docenza universitaria ex art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (e in precedenza art. 25 DPR 11 luglio 1980, n. 382, parimenti sopra richiamato), in ragione dell’« alta qualificazione » richiesta quale requisito richiesto per il relativo affidamento, secondo le disposizioni di legge ora richiamate. La prospettazione a base delle domande azionate dai ricorrenti appare in altri termini contraddire il fondamento stesso dell’istituto, attraverso il quale le università sono poste in condizione di acquisire professionalità ulteriori rispetto a quelle in organico, per soddisfare determinate esigenze didattiche.

10. Il secondo motivo d’appello è carente nel suo complesso di una critica specifica alla sentenza di primo grado, nella misura in cui suppone che questa avrebbe disapplicato la direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e le disposizioni in essa contenute sul contrasto all’abuso dei contratti a termine, nel caso di specie concretizzatosi con il superamento del quinquennio massimo consentito per i rinnovi degli incarichi dal più volte richiamato art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240. Le censure così formulate non considerano infatti che la pretesa disapplicazione si sostanzia in realtà in una statuizione di rigetto della domanda di nullità parziale resa in via consequenziale rispetto alle domande, precedentemente esaminate, dirette ad ottenere la conversione del rapporto di prestazione d’opera intellettuale in rapporto di lavoro dipendente. La statuizione contenuta nella sentenza di primo grado si fonda più precisamente sull’« impossibilitò di giuridica (sic) dianzi illustrata di ricondurre a siffatta figura giuridica il rapporto di prestazione d’opera dei professori a contratto », derivante appunto dalla radicale incompatibilità tra la prestazione d’opera intellettuale in cui si sostanzia l’incarico di insegnamento universitario e il rapporto di lavoro subordinato, oltre che sui divieti di conversione in quest’ultimo delle forme contrattuali flessibili con la pubblica amministrazione, e non già sulla supposta impossibilità astratta di applicare la direttiva europea, come invece adombra il motivo.

11. Oltre che non censurata in modo specifico la statuizione ora richiamata è comunque immune da critiche, in particolare da quelle contenute nel terzo motivo d’appello, intese ad affermare l’inesistenza di divieti di legge alla tutela reale del prestatore d’opera a favore della pubblica amministrazione, attraverso la conversione del suo contratto in uno a tempo indeterminato, sulla base del previo accertamento dell’esistenza in concreto degli indici di fatto della subordinazione. La giurisprudenza di legittimità ha infatti escluso che l’utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione possa essere sanzionata in sede giurisdizionale con la conversione di questo in un rapporto stabile, mediante eliminazione del termine (Cass., SS.UU. civili, 15 marzo 2016, n. 5072, richiamata nello stesso appello). A fondamento del principio enunciato dalla Suprema corte con la pronuncia ora richiamata è stato posto il divieto enunciato dal c.d. testo unico sul pubblico impiego, di cui all’art. 36, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 ( Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ), secondo cui «(i) n ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative ». Nella medesima pronuncia la Cassazione ha inoltre ricordato che il divieto di cui alla disposizione ora richiamata è stato ritenuto compatibile sia con la Costituzione che con il diritto dell’Unione europea dalla Corte di giustizia (cfr. la giurisprudenza richiamata ai §§ 10 e 11 della sentenza).

12. In senso convergente al divieto enunciato in via generale dal testo unico sul pubblico impiego si aggiunge, con specifico riguardo agli incarichi di docenza universitari, l’art. 23, comma 4, della legge 30 dicembre 2010, n. 240, secondo cui la stipulazione di contratti a questo titolo « non dà luogo a diritti in ordine all’accesso ai ruoli universitari ». In contrario non può essere addotta la circostanza che gli incarichi di insegnamento svolti dai ricorrenti sono stati conseguiti sulla base di selezioni di carattere concorsuale. Come infatti condivisibilmente sottolineato dalla sentenza di primo grado nel dichiarare manifestamente infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, le modalità di selezione dei professori universitari di ruolo quali previste dalle pertinenti disposizioni della legge ora richiamata, contenute nel libro III, non consentono alcuna assimilazione con quelle prodromiche all’affidamento di incarichi contrattuali ai sensi del medesimo art. 23, la cui disciplina è rimessa al regolamento di ateneo previsto dal comma 2 della medesima disposizione. Dell’ontologica diversità dei sistemi di reclutamento dei professori di ruolo rispetto all’affidamento degli incarichi di insegnamento è quindi espressione il divieto contenuto al comma 4 della disposizione da ultimo richiamata.

13. Nell’escludere la tutela reale per il contratto a tempo determinato con le pubbliche amministrazioni, la sopra richiamata sentenza delle Sezioni unite civili della Cassazione 15 marzo 2016, n. 5072, ha nondimeno fatto salvo il rimedio risarcitorio per il caso di abusivo utilizzo dello strumento, in conformità a quanto previsto dall’art. 36, comma 5, secondo periodo - sopra richiamato - del testo unico sul pubblico impiego. Con la pronuncia in questione si è tuttavia precisato che il danno risarcibile ai sensi di questa disposizione non è quello da mancata conversione, oggetto di un legittimo divieto di legge, ma innanzitutto quello da perdita della chance di assunzione a tempo indeterminato alle dipendenze dell’amministrazione, cui si aggiungono tutti gli ulteriori pregiudizi che potrebbero derivare da una « prolungata precarizzazione per anni » (§ 13 della sentenza). In ogni caso - ha aggiunto la Suprema Corte - secondo le regole generali « l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore » ( ibidem ), ma nel caso di abusivo ricorso a contratti di lavoro a termine esso è temperato, in ragione delle oggettive difficoltà per il lavoratore insite nel regime probatorio di matrice civilistica e della necessità di rendere effettivo l’impianto dissuasivo stabilito in materia dalla più volte citata direttiva 1999/70/CE. Come sottolinea l’appello, a questo scopo è stata quindi ritenuta applicabile l’indennità risarcitoria prevista nei casi di « conversione del contratto a tempo determinato » dall’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 ( Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro ), fissata nella seguente misura « un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto ». Alla tutela minima così assicurata si aggiunge in ogni caso quella derivante dalla prova, in concreto fornita di avere subito « un danno patrimoniale più elevato », a causa dell’abusivo ricorso a contratti di lavoro a termine (§ 17).

14. Tutto ciò precisato, nel presente giudizio i ricorrenti non hanno precisato quale sarebbe la base di computo dell’indennità risarcitoria, posto che essa è data dall’« ultima retribuzione di fatto » e nemmeno in quale misura dovrebbe essere moltiplicata entro la forbice stabilita dalla legge per ciascuno di essi, in relazione al superamento del limite massimo di legge ai rinnovi dei contratti a termine. Tanto meno hanno dato la prova del maggiore danno, che peraltro deve in radice escludersi sulla base della loro elevata qualificazione professionale e scientifica, desumibile dal fatto di essere stati destinatari di contratti di insegnamento universitario. Al medesimo riguardo deve anche essere respinta la domanda « subordinata, volta ad ottenere almeno il trattamento economico e giuridico riservato al personale assunto a tempo determinato dalle Università », di cui non è stato individuato il fondamento normativo.

15. Va infine ribadita la manifesta infondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale prospettate nei confronti del più volte richiamato art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, nella parte in cui vieta ai professori a contratto di rivendicare diritti ai fini di un’immissione nei ruoli del personale docente delle università (comma 4, sopra richiamato), sotto ogni profilo dedotto dai ricorrenti, i quali si infrangono sull’insuperabile diversità ontologica della figura dei professori a contratto rispetto a quelli di ruolo. Deve peraltro aggiungersi l’irrilevanza delle questioni medesime, dal momento che la lesione lamentata nel presente giudizio deriva non già dalla disposizione in sé, che al fine di prevenire abusi pone un limite massimo ai rinnovi dei contratti (art. 23, comma 1), ma dal relativo superamento, in relazione al quale è stata nondimeno accertata l’infondatezza delle domande conseguentemente proposte.

16. L’appello deve pertanto essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado, ma per la particolarità e complessità delle questioni controverse le spese di causa possono essere compensate.

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