Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2017-04-07, n. 201701638

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2017-04-07, n. 201701638
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201701638
Data del deposito : 7 aprile 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 07/04/2017

N. 01638/2017REG.PROV.COLL.

N. 09762/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello n. 9672 del 2016, proposto da:
M D B in proprio e quale titolare dell'omonima ditta individuale, rappresentato e difeso dall'avvocato L B, con domicilio eletto presso lo studio Gaetano Patta in Roma, viale Trastevere, 259;

contro

Ministero dell'Interno non costituito in giudizio;
Comune di Scalea non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del TAR Calabria, sede di Catanzaro - sez. I, n. 1171/2016


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 marzo 2017 il Cons. Francesco Bellomo, nessun avvocato presente;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, sede di Catanzaro, M D B domandava l’annullamento dell’informativa interdittiva antimafia della Prefettura di Cosenza prot. n. 064627 e 64563 del 23 dicembre 2015, nonché del provvedimento di revoca della concessione demaniale Marittima n° 59 del 17/7/2008 adottato dal Comune di Scalea - Ufficio Tecnico servizio urbanistico e demanio - in data 13/1/2016.

A fondamento del ricorso deduceva plurime censure di violazione di legge ed eccesso di potere.

Si costituiva in giudizio per resistere al ricorso il Ministero dell’Interno.

Con sentenza n. 1171/2016 il TAR rigettava il ricorso.

2. La sentenza è stata appellata da M D B che contrasta le argomentazioni del giudice di primo grado.

Si è costituito per resistere all’appello.

La causa è passata in decisione alla pubblica udienza del 30 marzo 2017.

DIRITTO

1. Il sig. M D B esercita sotto forma di ditta individuale uno stabilimento balneare sull’arenile di Scalea dal 2002, allorquando ha conseguito la concessione demaniale n° 229/2002, rep. n° 121, confermata con concessione n° 59/2008, rep. n° 793 con scadenza il 31/12/2013, prorogata fino al 31/12/2020 giusta annotazione del 15/10/2014, n° 49/Reg. A-2014.

Su richiesta del Comune datata 10/9/2014, la Prefettura di Cosenza adottava l’informativa antimafia prot. n. 064627 e 64563 del 23 dicembre 2015, all’esito della quale il Comune revocava la concessione demaniale prorogata.

L’interdittiva poggia sul ruolo assunto dall’interessato nella società Promosport Aqua Mar s.n.c. di Biondi Lanuara e Rotondaro, di cui in data 18.7.2003 aveva acquistato una quota del valore nominale di 1.032,00 euro.

In data 1.6.2013 il sig. M S, cognato dell’appellante, ha acquistato la quota di partecipazione pari ad € 1.549,36 dalla moglie M S D B (socia dall’anno 1996).

Il 12.7.2013 la società è stata posta sotto sequestro preventivo nell’ambito del procedimento n. 4991/09 RGNR DDA che ha interessato il predetto sig. S.

Il 2.7.2015 le quote sociali di M D B venivano dissequestrate dal Tribunale di Paola, sull’assunto che il medesimo era estraneo al procedimento penale e che il decreto di sequestro non faceva riferimento ad una eventuale interposizione fittizia.

Il sig. S è stato socio per quaranta giorni, ossia dall’1.6.2013 al 12.7.2013.

M D B è stato amministratore della società per otto giorni, ossia dal 4.7.2013 al 12.7.2013.

Il Tar ha rilevato che non era violato né l’art. 83, comma 3 comma, lett. d) del d.lgs. n. 159/2011, atteso che la norma riguarda la stipulazione o l’approvazione di contratti e per la concessione di erogazioni a favore di chi esercita attività agricole o professionali e non le concessioni demaniali marittime, né l’art. 91 del d.lgs. n. 159/2011, poiché la richiesta delle informazioni previste dalle leggi antimafia in relazione a rapporti al di sotto del limite minimo di 150.000 euro di cui non influisce sulla legittimità della richiesta e del rilascio dell’informazione antimafia.

Ha poi ritenuto l’informativa legittima, sull’argomento che, al di là del vincolo di affinità, l’esistenza del pericolo di infiltrazione mafiosa era basata sulla proprietà di una quota di una società cui partecipa con soggetto ritenuto appartenente a una cosca criminale, risultato essere l’effettivo amministratore della società stessa.

Il Tar, infine, ha respinto le censure proposte nei confronti della revoca della concessione da parte del Comune di Scalea, in quanto a seguito dell’emissione dell’informazione antimafia era atto dovuto.

Con il primo motivo di appello si contesta l’esistenza del pericolo di infiltrazione mafiosa, siccome ricavato dalle mere circostanze che l’appellante è cognato di S Mario ed è titolare di una quota sociale della Promosport Aqua Mar dal 2003.

Il periodo in cui i due si sono incrociati è stato però minimo e l’eventuale controllo di fatto della società da parte del sig. S riguarderebbe l’epoca successiva, quando la società era sotto sequestro.

L’appellante evidenzia di essere titolare di un’impresa individuale, peraltro di modeste dimensioni. La forma con cui si esercita l’attività imprenditoriale segna la necessità che vi siano nel corso del tempo indici rilevatori concreti del rischio di infiltrazione in una ditta individuale di tali dimensioni, nella quale la forza lavoro del titolare costituisce la maggiore risorsa aziendale. Il Tar non ha chiarito come, in una ditta individuale di tale tipologia e dimensione, possa esercitarsi il condizionamento mafioso, una volta esclusa l’interposizione fittizia in favore di M S.

Peraltro, in base a una nota del 28/4/2001 – ossia l’anno precedente al rilascio della concessione demaniale e due anni prima dell’acquisto della quota sociale della Promosport Aqua Mar – lo stesso Comando Provinciale di Cosenza non aveva ravvisato segni di appartenenza o collusione del sig. S con organizzazioni delinquenziali.

Con il secondo motivo di appello si reitera la censura di violazione e falsa applicazione del d.lgs. 159/2011.

In sostanza l’appellante lamenta che, essendo egli non già legato da rapporti contrattuali con la PA, ma titolare di un una concessione di beni pubblici, era soggetto al regime non dell’informativa ma della comunicazione antimafia, in particolare alle previsioni di cui agli artt. 85 e 67 d.lgs. 159/2011, per cui la comunicazione antimafia poteva essere emessa solo se a suo carico risultava una causa di decadenza indicata al citato art. 67.

Con il terzo e il quarto motivo di appello si reiterano le censure di violazione dell’art. 91 lett. b) del d.lgs. n. 159/2011, dei principi in tema di revoca, dell’art. 83, comma 3 comma, lett. d) del d.lgs. n. 159/2011.

2. In ordine logico è preliminare l’esame del secondo motivo,

La censura è inconferente, perché le concessioni demaniali ricadono nell’ambito di applicazione classico dell’informativa antimafia.

Comunque, il Consiglio di Stato, con parere n. 3088/2015 in data 17/11/2015 – cui di recente si è uniformata la giurisprudenza della Sezione – ha così ritenuto in ordine alla questione relativa all’applicabilità dell’informativa antimafia in assenza di un rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione: « Il rapporto tra i due istituti, come delineato dall’art. 84 del d.lgs. 159/2011, è d’alternatività, nel senso che la comunicazione antimafia non dev’essere acquisita quando è necessaria l’informazione antimafia e viceversa. Ciò nondimeno l’informazione antimafia è astrattamente in grado d’assorbire la comunicazione antimafia, attestando, oltre a quanto già previsto per la comunicazione antimafia, anche la sussistenza o meno di eventuali tentativi d’infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle imprese interessate. La disposizione in esame [l’art. 89-bis del Codice] costituisce una deroga al principio d’alternatività, poiché prevede l’informazione antimafia laddove è richiesta la comunicazione antimafia, e al tempo stesso opera l’assorbimento: l’enunciato normativo equipara l’informazione antimafia alla comunicazione antimafia. Le perplessità di ordine sistematico e teleologico sollevate in ordine all’applicazione di tale disposizione anche alle ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale – appalti o concessioni – con la pubblica amministrazione non hanno ragion d’essere, posto che anche in ipotesi di attività private soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubbliche. Né l’interprete può sostituirsi al legislatore – la cui volontà è stata plasticamente enunciata nel testo – nell’effettuare il bilanciamento tra interessi pubblici e diritto di iniziativa economica privata. Quanto al coordinamento con l’art. 94 del d.lgs. 159/2011, secondo cui l’informazione antimafia interdittiva determina l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione o d’ottenere concessioni e erogazioni pubbliche, nulla prevedendo circa eventuali effetti su licenze o autorizzazioni, è sufficiente rilevare che tale disposizione disciplina la comune efficacia dell’atto, senza interferire con l’estensione stabilita dall’art. 89-bis, che individua – alle condizioni previste – nell’informazione antimafia una fattispecie equivalente alla comunicazione antimafia. In conclusione l’art. 89-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 1591 s’interpreta nel senso che l’informazione antimafia produce i medesimi effetti della comunicazione antimafia anche nelle ipotesi in cui manchi un rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione ».

Tale principio è applicabile a fortiori anche quando sia stata direttamente chiesta l’informativa antimafia.

Il secondo motivo è, dunque, infondato.

Il terzo e il quarto motivo sono inammissibili, perché non criticano la sentenza di primo grado, ma si limitano a riproporre le doglianze formulate in quella sede.

Con riferimento al primo motivo, occorre richiamare i principi fissati dalla giurisprudenza in ordine all’interdittiva prefettizia antimafia tipica, prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 490 del 1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (ed oggi dagli articoli 91 e segg. del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159:

- l’interittiva antimafia costituisce una misura preventiva volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la pubblica amministrazione;

- l’interdittiva, trattandosi di una misura a carattere preventivo, prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente;

- tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua ragionevolezza in relazione alla rilevanza dei fatti accertati;

- la misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata;

- anche se occorre che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la pubblica amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo;

- il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell’impresa), ma occorre che l’informativa antimafia indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti;

- gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.

L’informativa impugnata è stata emessa sulla base di due elementi pacifici, che ruotano intorno alla figura di M S, la cui estraneità nel 2001 ad organizzazioni mafiose non ha alcun significato, poiché i fatti contestati si riferiscono a molti anni dopo.

L’appellante sminuisce la rilevanza di tali elementi sulla base della natura individuale della sua impresa, ma non spiega perché tale natura dovrebbe suggerire una svalutazione del pericolo di infiltrazione mafiosa, che riguarda indistintamente tutte le attività economiche e, spesso, può più facilmente manifestarsi con riguardo a organizzazioni di dimensioni modeste o non protette da una struttura societarie, che funga da sbarramento ai tentativi di condizionamento.

Tanto chiarito, è di tutta evidenza come la contitolarità del rapporto in una società a base personale come la Promosport Aqua Mar s.n.c. costituisce di per sé un grave indizio.

La brevità del periodo non è decisiva, atteso che, da un lato la cessazione della partecipazione del sig. S è avvenuta a seguito del sequestro delle quote, dall’altra che lo stesso è stato ritenuto amministratore di fatto.

Inoltre, il ruolo dell’appellante in detta società non è marginale, essendone egli socio sin dal 2003 ed avendo ricoperto la carica di amministratore, per pochi giorni, ma sempre a causa dell’intervento dell’autorità giudiziaria.

A ciò si aggiunga il rapporto di affinità dell’appellante con M S, la cui moglie M S D B era socia sin dall’anno 1996, ciò stando a indicare chiaramente come la società fosse luogo di convergenza del gruppo familistico.

Si tratta di elementi ampiamente sufficienti, nel quadro interpretativo prima tracciato, a giustificare il provvedimento impugnato.

3. L’appello è respinto.

Nulla per spese, non essendosi le appellate costituite in giudizio.

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