Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-01-25, n. 202300809

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2023-01-25, n. 202300809
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202300809
Data del deposito : 25 gennaio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/01/2023

N. 00809/2023REG.PROV.COLL.

N. 00178/2022 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 178 del 2022, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato M B Z, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Alessandria 130;

contro

Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Questura di Milano, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Pres. M C e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

La controversia in esame trae origine dall’impugnazione da parte dell’odierno appellante del provvedimento adottato il 25 febbraio 2015, con cui la Questura di Milano ha negato il rilascio della licenza di porto di fucile per uso sportivo, in ragione di una condanna alla pena della reclusione emessa nei confronti dell’interessato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, successivamente convertita in pena pecuniaria.

Il T.A.R. Lombardia ha respinto il ricorso e, avverso la sentenza di primo grado, il privato ha proposto appello innanzi a questo Consiglio di Stato, che ha confermato la decisione del giudice di prime cure.

Il ricorrente, dopo la definizione del giudizio di appello, ha chiesto il riesame dell’istanza volta al rilascio della licenza, anch’esso rigettato da parte della Questura.

In seguito alla riabilitazione per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, ostativo al rilascio del tiitolo, il privato ha presentato alla Questura di Milano una nuova istanza per ottenere il porto di fucile.

L’Amministrazione ha respinto la richiesta, poiché, in disparte l’intervenuta riabilitazione, ha ritenuto che a carico del soggetto sussistessero diversi indicatori di inaffidabilità nell’uso delle armi.

Il ricorrente ha impugnato innanzi al T.A.R. anche il diniego appena richiamato, domandandone l’annullamento per violazione della disciplina di settore e per difetto di istruttoria, nonché per carenza, contraddittorietà, manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione.

Il T.A.R. adito, con la sentenza in epigrafe indicata, ha respinto il ricorso ed ha condannato il ricorrente alle spese del giudizio.

Nel dettaglio, la pronuncia, nell’aderire al consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia, ha affermato che l’intervenuta riabilitazione in sede penale determina, quale unico effetto, il venir meno dell’automatismo ostativo delle condanne ritenute di particolare disvalore per l’ordine pubblico e per la sicurezza pubblica, ai fini del rilascio della licenza.

Viceversa, la riabilitazione non è garanzia di sicura affidabilità del soggetto, trasformando l’automatismo l’automatismo ostativo in un potere ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, analogo a quello previsto nel caso di condanna per reati non automaticamente preclusivi al rilascio del titolo di polizia.

Il primo Giudice ha infine escluso il lamentato deficit del provvedimento impugnato, in ragione del puntuale riferimento alle circostanze fattuali poste a fondamento del diniego e non smentite dal ricorrente nelle deduzioni presentate a norma dell’art. 10-bis della l. n. 241/1990.

L’appellante ha impugnato la citata pronuncia e ne ha chiesto la riforma, riproducendo essenzialmente le censure non accolte in primo grado, in chiave critica nei confronti della gravata sentenza.

Il Ministero dell’interno si è costituito in giudizio, instando per il rigetto del ricorso avversario.

Alla pubblica udienza del 10 novembre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato.

Con il primo motivo di gravame, l’appellante deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui il giudice ha ritenuto ininfluenti la riabilitazione penale e l’archiviazione del procedimento del divieto di detenzione delle armi.

Segnatamente, secondo la tesi di parte appellante, la modifica normativa intervenuta sull’art. 43, comma 2 T.U.L.P.S. non avrebbe quale unico effetto quello di escludere, ove intervenga una riabilitazione in sede penale, l’automatismo del diniego del porto d’armi, ma dovrebbe comunque comportare una valutazione sostanziale degli effetti elidenti derivanti dalla riabilitazione medesima, ai fini di una completa lettura della personalità e del pregresso del richiedente.

Il giudice di prime cure, dunque, avrebbe errato nel ritenere legittimo il provvedimento di diniego, nonostante l’asserita assenza di condotte violente da parte del ricorrente in relazione al reato contestato, peraltro già evidenziata nelle deduzioni procedimentali.

Analoga carenza di approfondimento istruttorio e conseguente deficit motivazionale sarebbero poi riscontrabili nel provvedimento impugnato con riguardo agli altri precedenti contestati all’odierno appellante, antecedenti sia al primo rilascio del titolo sia all’archiviazione ad opera del Prefetto di Milano del procedimento finalizzato all’adozione del divieto di detenzione di armi e munizioni.

A riguardo, evidenzia l’appellante, la motivazione della sentenza impugnata non sarebbe pertinente rispetto alla censura articolata nel ricorso, avente ad oggetto l’erroneità del giudizio formulato dal Questore, per avere richiamato fatti già valutati in occasione dell’originario rilascio della licenza e che avrebbero dovuto comunque ritenersi neutralizzati dal decreto di archiviazione del procedimento finalizzato all’adozione del divieto ex art. 39 T.U.L.P.S.

Le censure non sono suscettivedi positivo apprezzamento.

La materia del rilascio del porto d’armi è disciplinata dagli artt. 11 e 43 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.

Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.

La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».

Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».

La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972;
Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).

Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.

Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato, tanto più nei casi di impiego dell’arma per attività di diporto o sportiva.

L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.

Del resto, è in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).

Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.

Tutto ciò premesso, quanto all’incidenza della riabilitazione sul giudizio di affidabilità del soggetto, occorre evidenziare che la precedente formulazione dell’art. 43 T.U.L.P.S. (anteriore alla novella legislativa del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 104, sui cui effetti si tornerà più avanti) attribuiva valore automaticamente ostativo alla sussistenza di una condanna per uno dei reati menzionati nel primo comma, senza attribuire rilevanza alla sentenza di riabilitazione eventualmente pronunciata.

In ciò, pertanto, la norma si distingueva rispetto a quanto previsto dall’art. 11 del citato regio decreto per le autorizzazioni di polizia in generale, ai sensi del quale: “Salve le condizioni particolari stabilite dalla legge nei singoli casi, le autorizzazioni di polizia debbono essere negate … a chi ha riportato una condanna a pena restrittiva della libertà personale superiore a tre anni per delitto non colposo e non ha ottenuto la riabilitazione”.

Il Legislatore, con il d.lgs. 10 agosto 2018, n. 104, ha modificato l’art. 43 del T.U.L.P.S., prevedendo al comma 2 che «la licenza può essere ricusata ai soggetti di cui al primo comma qualora sia intervenuta la riabilitazione, ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi».

La successiva giurisprudenza della Sezione ha recepito tale mutamento normativo, chiarendo, da ultimo, che “l’art. 43, comma 2, T.U.L.P.S attualmente in vigore (come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. e, del D. Lgs. n. 104/2018), infatti, prevede che l’Amministrazione competente al rilascio o rinnovo del porto d’armi “può”, e non più “deve”, rifiutarlo ai soggetti condannati per i delitti di cui al primo comma per i quali sia intervenuto il beneficio della riabilitazione, così configurando come discrezionale (e non più vincolata) la valutazione rimessa all’Autorità di pubblica sicurezza” (id. 19 novembre 2019, n. 7901).

Alla luce di quanto fin qui esposto e dei fatti valorizzati dal provvedimento gravato in primo grado, ritiene il Collegio che la prognosi compiuta dall’Amministrazione resista al vaglio di questo giudice.

Sul punto, giova rilevare che l’Amministrazione non ha omesso di valutare l’intervenuta riabilitazione dell’appellante in relazione alla condanna ostativa al rilascio del titolo, ma ha formulato un giudizio complessivo sulla personalità del richiedente, prendendo in considerazione anche il deferimento del soggetto all’Autorità giudiziaria per uso di falso, nonché i numerosi episodi di conflittualità familiare, deducendo da tali circostanze una inclinazione all’inosservanza delle leggi da parte dell’interessato, tale da far venire meno i requisiti soggettivi richiesti in capo a chi intenda detenere armi.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, nel caso di specie è stata svolta una valutazione della personalità complessiva del ricorrente rapportata all’attualità, poiché nel provvedimento impugnato si dà atto che:

- “i fatti comportamentali alla base di tutte le vicende sopraindicate continuano ad indurre questo Ufficio a ritenere che il signor Becciani non sia in possesso dei requisiti soggettivi e di assoluta affidabilità, richiesti dalla legge per essere titolare di autorizzazioni di polizia in materia di armi”;
- “la mera ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza, di riabilitazione della condanna per resistenza a Pubblico Ufficiale non sia di per sé sola sufficiente a fugare i dubbi che il signor Becciani possa abusare del titolo richiesto e non dia sufficiente affidamento nella delicata materia delle armi”.

Non è ravvisabile, pertanto, alla luce altresì della finalità preventiva e non sanzionatoria del provvedimento impugnato, alcuna carenza istruttoria né motivazionale dello stesso.

Per le ragioni che precedono, l’appello deve essere respinto.

Sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

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