Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-05-09, n. 201802773
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Pubblicato il 09/05/2018
N. 02773/2018REG.PROV.COLL.
N. 08085/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8085 del 2016, proposto dal signor A C, rappresentato e difeso dall'avvocato G M S, con domicilio eletto presso lo studio Cuggiani-Necci &Associati in Roma, via del Plebiscito, n. 107;
contro
Il Comune di Capodimonte, in persona del Sindaco
pro tempore
, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per il Lazio, Sede di Roma, Sez. I quater, n. 5128/2016, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 maggio 2018 il Cons. Francesco Mele e udito l’avvocato G M S;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con la sentenza n. 5128 del 4 maggio 2016, il Tribunale Amministrativo per il Lazio (Sezione I quater) rigettava il ricorso proposto dal signor C Antonio, inteso ad ottenere l’annullamento dell’ingiunzione di demolizione n. 71 del 17 luglio 2014, relativa alla esecuzione di lavori di completamento interni ad immobile abusivo già oggetto di ordinanza di demolizione.
La sentenza esponeva in fatto quanto segue.
“ Espone l’odierno ricorrente di essere proprietario di un terreno sito in Capodimonte (VT), loc. Madonna, sottoposto a vincolo paesaggistico, sul quale ha realizzato, nel corso degli anni 1995/2003, un fabbricato di due piani da destinare a civile abitazione.
Il 16 luglio 2004 ha quindi presentato domanda di condono.
Con ordinanza n. 53 del 9 agosto 2004, non avversata, è stata ordinata al ricorrente la demolizione del detto fabbricato poiché realizzato in assenza di titolo abilitativo. Sulla domanda di condono alcun provvedimento è stato assunto dal Comune di Capodimonte. Espone ulteriormente il ricorrente che per completare l’immobile, nel maggio 2006, ha presentato una D.I.A. bloccata dall’Amministrazione comunale con nota del 6 giugno 2006, anch’essa non avversata. Rappresenta, quindi, che a distanza di otto anni, ha comunque provveduto a sistemare parzialmente il fabbricato nella sua parte interna, al fine di renderlo fruibile.
A seguito di sopralluogo effettuato il 14 luglio 2014, il Comune ha adottato l’ordinanza n. 71 del 17 luglio 2014 con cui è ingiunta la demolizione delle opere interne consistenti nella “pavimentazione dell’intero piano terra con piastrelle in ceramica e/o gres e realizzazione di tramezzi divisori che hanno dato origine a n. 4 ambienti, un disimpegno e un servizio igienico. Realizzazione della scala di accesso al piano primo con rivestimento di gradi e sottogradi in pietra. Risultano essere stati predisposti sotto traccia gli impianti tecnologici mentre alle aperture esterne sono stati installati infissi in PVC ed un portone. Le pareti sono rifinite con intonaco civile pronto per la tinteggiatura. Realizzazione al primo piano di massetto e tramezzi divisori che hanno originato n. 3 ambienti ed un disimpegno. Le pareti sono intonacate e debbono essere rifinite con successiva tinteggiatura”, in quanto trattasi di “lavori di completamento interni ad immobile completamente abusivo già oggetto di ordinanza di demolizione…”, che “ricade in zona sottoposta a … vincolo paesaggistico….vincolo cimiteriale ”.
Ed è avverso detta ultima ordinanza relativa ai ricordati lavori interni che è proposto il ricorso ora in esame, a sostegno del quale si deduce violazione dell’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001 con riguardo al disposto dell’art. 32 d.l. 269/2003 in combinato con la l.r. n. 12/2004 nonché eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti, travisamento dei fatti, contraddittorietà ”.
Avverso la sentenza di rigetto di primo grado il signor C ha proposto appello, deducendone l’erroneità e chiedendone l’integrale riforma.
Egli ha in proposito lamentato:
1) Error in iudicando: mancata applicazione della normativa sul condono edilizio (art. 32 e 43 d.l. n. 269/2003, in combinato disposto con la legge regionale n. 12/2004) – errata valutazione dei presupposti;
2) Error in iudicando: errata applicazione dell’art. 37 DPR n. 380/2001, violazione di legge con riferimento agli artt. 3, c. 1, lett. b e 6 c. 2 lett. c) del DPR 380/2001 – Errata valutazione dei presupposti con riguardo alla natura delle opere contestate, illogicità della motivazione;
3) Errore in diritto con riferimento all’articolo 35, comma 13 della legge n. 47/1985 – erronea motivazione relativa alle opere di completamento, contraddittorietà ed errata valutazione dei presupposti;
4) Errore in diritto circa il vincolo cimiteriale – errata valutazione dei presupposti.
Il Comune di Capodimonte non si è costituito in giudizio.
Con ordinanza n. 5408/2016 è stata disposta, in via cautelare, nelle more della decisione di merito, la sospensione dell’esecutività della gravata sentenza.
Il signor C ha prodotto memoria illustrativa e documentazione.
La causa veniva discussa e trattenuta per la decisione all’udienza del 3 maggio 2018.
DIRITTO
Con il primo motivo di appello il signor C lamenta: Error in iudicando: mancata applicazione della normativa sul condono edilizio (art. 32 e 43 d.l. n. 269/2003, in combinato disposto con la legge regionale n. 12/2004) – errata valutazione dei presupposti.
Egli lamenta che la sentenza di primo grado parte dall’erroneo presupposto che il condono edilizio sull’immobile non si sia perfezionato, mancando in atti un provvedimento espresso di autorizzazione paesaggistica.
In primo luogo, rileva che il giudice di prime cure non ha considerato che, in base al comma 37 dell’articolo 32 del d.l. 269/2003 e del comma 3 dell’articolo 6 della legge regionale n. 12/2004, “il pagamento degli oneri di concessione, la presentazione della documentazione di cui all’articolo 35, della denuncia in catasto, della denuncia ai fini dell’imposta comunale degli immobili, di cui al decreto legislativo 30-12-1992 n. 504, nonché, ove dovute, delle denunce ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e per l’occupazione di suolo pubblico, entro il 31 ottobre 2005, nonché il decorso del termine di ventiquattro mesi da tale data senza l’adozione di un provvedimento negativo del Comune, equivalgono a titolo abilitativo in sanatoria ”.
Egli evidenzia, altresì, che la sentenza ha dato atto che il privato aveva tempestivamente richiesto il preventivo parere paesaggistico, senza considerare che lo stesso Comune risultava subdelegato, ai sensi della legge regionale n. 24/98 al rilascio dei pareri ex art. 32 della legge n. 47/85.
L’appellante deduce che il comportamento concludente del Comune avrebbe creato un legittimo affidamento nel positivo esito delle domande di condono, avendo egli prodotto tutta la documentazione richiesta dall’ente locale per la definizione della pratica.
Sotto altro profilo, egli rileva che il Tribunale Amministrativo, pur rimandando al giudicato penale in base al quale egli era stato prosciolto sia dal reato edilizio che da quello ambientale, erra nel valutarne l’efficacia probatoria nell’ambito del giudizio amministrativo.
Se è vero che non sussistono tutti gli elementi richiesti dall’articolo 654 c.p.p., va considerato comunque che la sentenza penale reca, nella motivazione, l’accertamento degli stessi fatti materiali che assumono rilevanza nel processo amministrativo, dando atto che egli aveva richiesto tutti i pareri necessari e che il Comune aveva posto in essere comportamenti tali da definire la pratica.
Da tanto dovrebbe ritenersi definito il condono edilizio del fabbricato.
Il signor C deduce ancora, in via subordinata, che, anche a volere ritenere non perfezionato il condono, questo doveva ancora essere ritenuto pendente, con la conseguenza che non potevano emanarsi provvedimenti repressivi, in quanto non risultava ancora definitivamente acclarato il carattere abusivo dell’immobile.
Il motivo di appello è infondato.
Rileva, infatti, la Sezione che, condivisibilmente con quanto affermato dal giudice di primo grado, il condono edilizio del fabbricato non si era formato per silenzio assenso, non risultando essere stato mai rilasciato il necessario parere favorevole previsto dall’articolo 32 della legge n. 47/1985.
Non rileva, in proposito, la circostanza che il richiamato comma 37 dell’articolo 32 del d.l. n. 269/2003 non lo richiami espressamente, ai fini della formazione del titolo edilizio abilitativo tacito.
Il comma 25 del citato articolo 32 prevede che “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, ….si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 ” e il successivo comma 28 dispone che “ Per quanto non previsto dal presente decreto si applicano, ove compatibili, le disposizioni di cui alla legge 28 febbraio 1985 n. 47 ”.
Da tanto consegue che la invocata disposizione del comma 37 dell’articolo 32 del d.l. n. 269/2003 si limita a sostituire l’articolo 35 della legge n. 47/85 nella sola parte in cui essa prevede che, “ decorso il termine perentorio di ventiquattro mesi dalla presentazione della domanda, quest’ultima si intende accolta ove l’interessato provveda al pagamento di tutte le somme dovute a conguaglio ed alla presentazione all’ufficio tecnico erariale della documentazione necessaria all’accatastamento ”.
Si applica inoltre il comma successivo dell’articolo 35 della legge n. 47/85, per il quale “ Nelle ipotesi previste dall’articolo 32 il termine di cui al comma 12 del presente articolo decorre dall’emissione del parere previsto dal comma 1 dell’articolo 32 ”.
Del resto, al di là del fondamento letterale sopra delineato, la necessità del parere favorevole dell’autorità preposta alla gestione del vincolo discende dalla natura e dalla funzione stessa del silenzio assenso, che può formarsi solo ove siano nella disponibilità dell’ente locale tutti gli elementi e gli atti per potersi pronunciare sulla domanda del privato.
O, risultando il parere favorevole dell’autorità preposta al vincolo, ai sensi dell’articolo 32 della legge n. 47/1985, presupposto indefettibile per il rilascio del titolo in sanatoria, ne consegue che il silenzio assenso non può formarsi quando tale parere non risulti essere stato ancora rilasciato.
Non ha, inoltre, rilevanza l’argomentazione dell’appellante in base alla quale egli aveva tempestivamente richiesto il preventivo parere paesaggistico e il Comune risultava subdelegato al suo rilascio.
Il parere non risulta essere stato espresso e l’inerzia, al riguardo, non può condurre a ritenere il relativo procedimento positivamente esitato.
Va, infatti, considerato, che lo stesso articolo 32 della legge n. 47/1985 non prevede per esso l’istituto del silenzio assenso, limitandosi a disporre che “ Qualora tale parere non venga formulato…entro centottanta giorni dalla data di ricevimento della richiesta di parere, il richiedente può impugnare il silenzio-rifiuto ”.
Né rileva, ai fini della formazione del silenzio assenso, il richiamo al comportamento concludente del Comune che avrebbe di fatto creato un legittimo affidamento nel positivo esito della domanda di condono, considerandosi che tale legittimo affidamento è escluso dalla previsione normativa che richiede il rilascio di un parere espresso (circostanza confermata dalla richiesta di integrazione documentale del Comune, n. 1746 del 15 marzo 2015, in cui è stata espressamente richiesta la produzione del “Nulla osta paesaggistico”), che il legittimo affidamento non può derivare dal pagamento delle tasse comunali, le quali sono dovute per la mera insistenza dell’immobile sul territorio, a prescindere dalla sua liceità o abusività;evidenziandosi, altresì, in ogni caso che un eventuale legittimo affidamento non potrebbe mai equivalere a conclusione positiva del procedimento di condono.
Né può fondatamente dolersi il ricorrente del ritardo con cui è stata esaminata la sua originaria istanza, poiché ciò ha consentito il perdurante utilizzo di un immobile abusivo.
A giudizio del Collegio, risulta infondato anche il profilo di censura che, ai pretesi fini della formazione del titolo abilitativo, richiama il giudicato penale in base al quale l’appellante era stato prosciolto sia per il reato edilizio che per quello ambientale.
La pronuncia di primo grado ha così motivato la determinazione reiettiva sul punto.
“ Vero è che la Corte di Appello di Roma, nel dichiarare non doversi procedere nei confronti del ricorrente per intervenuta oblazione, rileva in parte motiva che “nel corso del giudizio di appello l’imputato ha dimostrato che l’autorizzazione paesaggistica sia pure di carattere postumo date circostanze, è stata ottenuta….”, ma dice anche nel passaggio appena precedente che è vera la circostanza per cui il ricorrente non ha richiesto la concessione paesaggistica ( ragion per cui il primo grado lo aveva condannato), “ma superabile per il fatto che l’immobile realizzato sarebbe paesaggisticamente sanabile, essendo la pratica di sanatoria in corso”. O, senza entrare nel merito di altra giurisdizione chiamata a valutare altri profili della medesima vicenda consistente l’immobile di che trattasi, è agevole rilevare dall’insieme dei dati esposti e peraltro tutti in atti del presente giudizio che l’autorizzazione paesaggistica è stata solo richiesta e non formalmente ed espressamente rilasciata ”.
Il Collegio condivide la statuizione del giudice di primo grado, rilevando, in ordine all’avvenuto rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, una evidente contraddizione nella motivazione della richiamata sentenza penale ed essendo dato certo ed incontestato che l’autorizzazione paesaggistica non è mai stata espressamente rilasciata.
Sotto tale profilo, pur se una sentenza (anche del giudice penale) ravvisa l’esistenza di un provvedimento in realtà inesistente, in sede amministrativa non si può ritenere che una tale erronea determinazione equivalga al rilascio dell’atto, al fine della emanazione di ulteriori provvedimenti.
Inoltre, deve evidenziarsi la sussistenza di altri elementi, che non consentono di utilizzare il giudicato penale ai fini di ritenere positivamente definita la pratica di condono edilizio.
L’articolo 654 del codice di procedura penale prevede che la sentenza penale di condanna o di assoluzione abbiano efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo “ nei confronti dell’imputato, della parte civile o del responsabile civile che si sia costituito o sia intervenuto nel processo penale ”.
E’ necessario, dunque, che il giudicato sia pronunciato tra le stesse parti presenti nel giudizio penale ed in quello civile o amministrativo.
O, nella vicenda in esame la norma non risulta applicabile, in considerazione del fatto che il Comune, parte del presente giudizio, non ha invece partecipato a quello penale.
Va, inoltre osservato che la sentenza di primo grado del Tribunale di Viterbo, n. 138/2005, passata in giudicato con riferimento al reato edilizio contestato, non ha assolto il signor C per essersi il reato estinto per avvenuta formazione del condono, bensì per l’avvenuto versamento della somma dovuta a titolo di oblazione, in relazione alla domanda di condono edilizio presentata.
La sentenza, invero, richiama il comma 36 dell’articolo 32 del d.l. n. 269/2003, secondo il quale “ La presentazione nei termini della domanda di definizione dell’illecito edilizio, l’oblazione interamente corrisposta nonché il decorso di trentasei mesi dalla data in cui risulta il suddetto pagamento, producono gli effetti di cui all’articolo 38, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ”.
Tale disposizione prevede che “ l’oblazione interamente corrisposta estingue i reati di cui all’art. 41 della legge 17 agosto 1942 n. 1150…e all’art. 17 della legge 28 gennaio 1977 n. 10, come modificato dall’articolo 20 della presente legge. ”.
Dunque, la sentenza (ed il relativo giudicato) ha accertato l’estinzione del reato in relazione alla avvenuta presentazione della domanda nei termini ed all’avvenuto versamento dell’oblazione, ma non ha affatto affermato che sia stato conseguito, sia pure per silentium , il condono edilizio.
Deve pure essere rigettato l’ultimo profilo di censura del primo motivo di appello, con il quale si deduce che, anche a non voler ritenere formato il condono per il silenzio-assenso, il condono sarebbe ancora pendente con la conseguenza che non potevano essere adottati provvedimenti repressivi, non essendo ancora acclarata in via definitiva la natura abusiva dell’immobile.
La censura non è fondata.
L’appellante sostanzialmente invoca l’articolo 38, comma 1, della legge n. 47/85, secondo cui “ La presentazione entro il termine perentorio della domanda…, accompagnata dall’attestazione del versamento della somma di cui al comma 1 dell’art. 35, sospende il procedimento penale e quello per l’irrogazione della sanzione amministrativa ”, nonché la regola contenuta nella stessa legge del 1985, per la quale, ove sia pendente una domanda di condono, non si può far luogo alla applicazione di sanzioni edilizie fino a che la domanda stessa non venga esaminata.
I principi invocati da parte appellante, tuttavia, non si attagliano alla fattispecie in esame.
Invero, l’ordinanza di demolizione impugnata nel presente giudizio ha ad oggetto opere pacificamente non indicate nella originaria domanda di condono edilizio.
Il richiamato effetto sospensivo ed il divieto di irrogazione di sanzioni prima della definizione del condono valgono per le opere oggetto della domanda di condono edilizio e non anche per ulteriori e diverse opere realizzate ed in essa non previste.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, dunque, il primo motivo di appello deve essere rigettato, in quanto infondato.
Con il secondo motivo di appello il signor C lamenta: Error in iudicando: errata applicazione dell’art. 37 DPR n. 380/2001, violazione di legge con riferimento agli artt. 3, c. 1, lett. b e 6 c. 2 lett. c) del DPR 380/2001 – Errata valutazione dei presupposti con riguardo alla natura delle opere contestate, illogicità della motivazione.
Egli censura la sentenza di primo grado per non aver correttamente individuato l’oggetto del provvedimento di demolizione impugnato ed evidenzia che il Comune ha emesso un’ordinanza di demolizione ex art. 31 del DPR 380 del 2001 non per l’immobile nel suo insieme, ma solo per le opere interne realizzate, confermando, in sede istruttoria, che tali opere interne non sono state oggetto di condono e che, quindi, sono soggette al regime DIA/SCIA (considerando il regime applicabile all’epoca della loro realizzazione) e, nell’attualità, a quello dell’attività edilizia libera.
Egli deduce che erroneamente il giudice di prime cure ha ritenuto che, stante il carattere presumibilmente abusivo della struttura esterna (per la quale pendeva ancora istanza di condono), le opere di finitura interne soggiacciono allo stesso regime giuridico della costruzione nel suo insieme e siano, quindi, passibili di demolizione ai sensi dell’art. 31 del T.U. Edilizia.
Invero, la realizzazione di opere interne, ove illegittima, deve essere soggetta alle sanzioni per esse espressamente previste, che non sono certamente costituite dalla demolizione, prevista in ipotesi di mancanza, totale difformità e variazione essenziale rispetto al permesso di costruire.
Con il terzo motivo di appello il signor C lamenta: Errore in diritto con riferimento all’articolo 35, comma 13 della legge n. 47/1985 – erronea motivazione relativa alle opere di completamento, contraddittorietà ed errata valutazione dei presupposti.
Egli censura la sentenza di primo grado nella parte in cui, integrando sostanzialmente in maniera illegittima la motivazione del provvedimento comunale, ha ritenuto illegittime le opere interne contestate, richiamando la disciplina dell’articolo 35 della legge n. 47/85 sulle opere di completamento.
Il signor C evidenzia che tale riferimento normativo risulta errato, in quanto non si è in presenza di opere di completamento oggetto di condono.
Le opere interne oggetto di contestazione, come precisato dal Comune in sede istruttoria, non erano presenti nel progetto originario depositato per ottenere il condono ed erano opere soggette a mera DIA/SCIA.
Anche ammesso che potesse darsi applicazione al richiamato articolo 35 della legge n. 47/85, la mancata comunicazione da essa prevista al Comune non è assoggettata a sanzione alcuna, proprio perché si tratta di opere che vengono ad essere coperte dal condono.
Egli evidenzia che la fattispecie in esame è, invece, diversa, in quanto gli interventi contestati accedono ad un immobile oggetto di condono, ma sono opere interne ulteriori, che non rientrano nel progetto di condono e, dunque, soggette ad una disciplina normativa propria.
La sentenza sarebbe erronea quanto ai riferimenti di diritto operati, atteso che il regime giuridico applicabile è quello specifico del T.U. Edilizia e non anche la normativa in tema di condono edilizio.
Il secondo ed il terzo motivo di appello possono essere congiuntamente esaminati, atteso che, sia pure sotto diversi profili, sottopongono la questione relativa al corretto regime sanzionatorio da applicare per il caso di opere interne realizzate successivamente alla presentazione della domanda di condono relativa ad un immobile abusivo per il quale l’istanza di sanatoria non sia stata ancora definita.
I motivi, a giudizio della Sezione, non sono fondati.
E’ ben vero che le opere realizzate dal signor C ed oggetto dell’ingiunzione di demolizione, in sé considerate, risultano assoggettate, con riferimento all’epoca di edificazione, al regime edilizio della DIA/SCIA (derivandone, in ipotesi di realizzazione abusiva, la sola sanzione pecuniaria).
Purtuttavia, il regime sanzionatorio da applicare deve essere individuato sulla base non della natura delle opere isolatamente ed atomisticamente considerate, ma in relazione alla complessiva realtà urbanistico-edilizia nella quale esse vengono ad inserirsi.
O, gli interventi di pavimentazione, tramezzatura, impianti ed apposizione infissi non risultano essere stati eseguiti in un immobile regolarmente autorizzato ed assentito sotto il profilo urbanistico-edilizio.
Essendo, invero, pendente una pratica di condono edilizio per l’immobile al grezzo - pratica non ancora esitata positivamente e per la quale, per quanto sopra esposto, non si è formato il titolo in sanatoria per silentium – è evidente che i richiamati lavori accedono ad un immobile abusivo (tale dovendosi lo stesso considerare fino a quando non venga esitato positivamente il procedimento di condono).
Di tanto dà atto la stessa amministrazione appellata nel provvedimento impugnato (ingiunzione n. 71, del 17 luglio 2014), laddove riferisce espressamente di “ lavori di completamento interni ad immobile completamente abusivo già oggetto di ordinanza di demolizione n. 53 del ….2004 ”.
O, considerando che il fabbricato abusivo, oggetto della domanda di condono, era al grezzo, le opere interne realizzate non possono ricevere considerazione, da un punto di vista urbanistico-edilizio, quali opere meramente interne, come tali di manutenzione straordinaria e, dunque, non assoggettate al previo rilascio del permesso di costruire.
Ciò potrebbe avvenire ove le stesse accedessero ad un immobile regolare ovvero ove, sempre in relazione ad un immobile regolare, esse venissero a porsi in termini di rinnovazione, sostituzione o integrazione di elementi già esistenti, così configurando la fattispecie dell’intervento edilizio sul preesistente.
Nel caso in esame, invece, esse accedono ad un immobile allo stato grezzo abusivo (in quanto non ancora condonato) e, dunque, rilevano, sotto il profilo della qualificazione urbanistico-edilizia, quali opere di ultimazione del fabbricato abusivo.
Proprio per tale ragione, esse non possono essere isolatamente considerate e, pertanto, ritenute assoggettabili al regime della DIA/SCIA.
Costituendo, invero, ultimazione del fabbricato abusivo, esse rilevano in termini di prosecuzione dei lavori di realizzazione del suddetto fabbricato e ne mutuano, di conseguenza, il relativo regime sanzionatorio previsto per il caso di abusività.
Trattandosi di fabbricato costituito da piano terra e primo piano, con realizzazione di superficie e volumetria, esso soggiace al regime del permesso di costruire ed, in ipotesi di abusività, alla sanzione demolitoria di cui all’articolo 31 del DPR n. 380 del 2001.
A tale sanzione, per le ragioni sopra svolte, soggiacciono anche le opere interne di ultimazione dello stesso, atteso che esse non possono essere isolatamente considerate, ma indissolubilmente legate al fabbricato originario, abusivo, costituendone ultimazione e mutuandone il relativo regime sanzionatorio.
Neppure risulta fondata la censura relativa all’erroneo richiamo, nella gravata sentenza, alla disciplina del “completamento” di cui all’articolo 35 della legge n. 47/1985.
Nell’operare tale disamina il Tribunale Amministrativo non ha integrato la motivazione del provvedimento impugnato (come si è sopra detto, questo già parlava di “ lavori di completamento interni ad immobile completamente abusivo ”), ma ha inteso giustificare l’irrogazione della sanzione demolitoria pur in ipotesi di lavori di completamento dell’immobile oggetto di condono.
Invero, il legislatore non esclude che, in pendenza della domanda di condono edilizio, i lavori possano essere completati, sia pure sotto la responsabilità del privato (che se ne assume le conseguenze della demolizione in caso di rigetto della pratica).
Tuttavia, trattandosi di fattispecie eccezionale (costituendo regola generale quella secondo cui i lavori abusivi non possono essere completati), la sua operatività è soggetta ad un peculiare procedimento previsto dall’articolo 35 della legge n. 47/1985.
Invero, tale disposizione prevede che “ decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell’oblazione, il presentatore dell’istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità le opere di cui all’articolo 31 non comprese fra quelle indicate dall’articolo 33. A tal fine l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data di notificazione….I lavori per il completamento delle opere di cui all’art. 32 possono essere eseguiti solo dopo che siano stati espressi i pareri delle competenti amministrazioni ”.
Ciò posto, parte appellante ribadisce che non si tratta di opere di completamento del fabbricato, in quanto non presenti nella domanda di condono edilizio, configurando opere diverse ed ulteriori soggette a regime giuridico proprio.
I rilievi non sono fondati.
E’ indubitabile che, intervenendo su di un fabbricato abusivo allo stato grezzo, le opere in questione ne costituiscano completamento ed ultimazione, onde non possono essere considerate autonomamente dal manufatto principale in termini di regime sanzionatorio.
D’altra parte, ove si esaminino gli atti del giudizio di primo grado, risulta che il signor C ha presentato una DIA (inibita dal Comune), ai sensi degli artt. 22 e ss. del DPR n. 380 del 2001, per interventi che vengono, nella allegata relazione tecnica asseverata, qualificati “ interventi edilizi di completamento di opere condonate ai sensi della legge n. 47/85 art. 35 ”.
Osserva, peraltro, il Collegio che l’attività di completamento del manufatto non ha seguito il procedimento previsto dal richiamato articolo 35 per la legittimazione dei suddetti interventi.
Il cennato articolo 35 non consente la realizzazione dei lavori di completamento prima che siano espressi i pareri delle autorità preposte alla tutela del vincolo e che il completamento non è consentito per le opere che scontino di un vincolo di inedificabilità ai sensi dell’articolo 33 della richiamata legge n. 47/1985.
Nella fattispecie in esame si tratta di un immobile soggetto a vincolo paesaggistico, per il quale non è stato mai espresso il parere, rilevandosi pure che trattasi di manufatto rientrante nella fascia di rispetto cimiteriale.
Sulla base delle argomentazioni sopra esposte risultano, dunque, infondati anche i motivi secondo e terzo dell’appello.
Le medesime argomentazioni valgono a ritenere l’infondatezza anche del quarto motivo.
Con tale mezzo di gravame il signor C lamenta: Errore in diritto circa il vincolo cimiteriale – errata valutazione dei presupposti.
Egli deduce che anche per tale profilo la sentenza è errata, in quanto estende il giudizio sull’intero immobile e non solo sulle opere oggetto di contestazione da parte del Comune.
Rileva, dunque, che, essendo il provvedimento demolitorio rivolto solo ed esclusivamente alle opere interne, la contestata esistenza del vincolo cimiteriale non è ostativa alla realizzazione di tali opere interne.
Invero, l’articolo 338 del R.D. 1265/1934 (Testo Unico delle leggi sanitarie) prevede che “ all’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso ”.
A confutazione della censura, vale in primo luogo ribadire che i lavori svolti, se pure interni, si configurano come opere di ultimazione dell’originario edificio al grezzo oggetto della domanda di condono, mutuandone perciò il regime sanzionatorio.
Atteso l’indissolubile legame con l’opera principale e la considerazione dei lavori quali parte integrante (in termini di ultimazione) della stessa, ne consegue che la disposizione invocata non si applica, non trattandosi di interventi di recupero ovvero funzionali all’utilizzo di edifici esistenti.
La deroga opera con riferimento a edifici “esistenti”, dovendosi ritenere come tali manufatti che già avevano originariamente acquistato una dimensione di completezza urbanistico- edilizia che ne consentisse l’utilizzo.
Invero, gli interventi di recupero presuppongono, per definizione stessa della fattispecie, il ripristino di una situazione già preesistente e lo stesso concetto di “funzionalità” risulta riferito all’edificio “esistente”, nella accezione sopra delineata.
Sulla base delle considerazioni tutte sopra svolte, in conclusione, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della gravata sentenza.
Nulla è dovuto per le spese del secondo grado, attesa la mancata costituzione in giudizio del Comune di Capodimonte.