Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2019-08-07, n. 201905615
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Testo completo
Pubblicato il 07/08/2019
N. 05615/2019REG.PROV.COLL.
N. 03561/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3561 del 2012, proposto dal Ministero della difesa, in persona del legale rappresentante
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria
ex lege
in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati F S, P P, con domicilio eletto presso lo studio P P in Roma, Via Zanardelli, n. 36;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. Lombardia, Milano, sezione III^, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, in tema di corresponsione di somme non erogate nel periodo di sospensione precauzionale obbligatoria dall’impiego - perdita del grado per rimozione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 luglio 2019 il Cons. Italo Volpe e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Gianna Galluzzo e Paolo Moroni;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso in epigrafe il Ministero della difesa (di seguito “Ministero”) ha impugnato la sentenza del Tar per la Lombardia, Milano, n. -OMISSIS-, pubblicata il 3.1.2012, che, con l’onere delle spese, ha accolto – condannando altresì il Ministero al pagamento, in favore della persona fisica pure in epigrafe indicata, delle differenze retributive descritte in motivazione e sulla base di criteri per una proposta di pagamento, pure in motivazione indicata, entro un termine prefissato – le domande formulate:
- col ricorso principale:
-- per l’annullamento del decreto del Direttore generale per il personale militare del Ministero n. 0121/3-9/2010 del 15.3.2010;
-- per l’accertamento del diritto del ricorrente alla restituito in integrum in corrispondenza di tutto il periodo di sospensione precauzionale dal medesimo sofferto (dal 25.10.1996 al 25.9.2001) e del periodo di mancato impiego compreso nell’arco temporale tra il 17.6.2003 e il giorno di effettiva riammissione in servizio;
-- per la condanna del Ministero al pagamento di tutti gli importi dovuti al ricorrente in conseguenza dell’accertamento dei fatti e del risarcimento di tutti i danni da lui subiti a causa del mancato reimpiego in servizio dal giorno del deposito della sentenza del Consiglio di Stato n. 6792/2009 fino al giorno di suo effettivo reimpiego;
- con primi motivi aggiunti:
-- per l’annullamento del decreto del Vice Direttore generale per il personale militare del Ministero n. 0225/3-9/2010 del 12.5.2010;
- con secondi motivi aggiunti:
-- per l’annullamento del Decreto del Capo del III Reparto della Direzione generale per il personale militare del Ministero n. 0066/III-7/2011 del 9.2.2011, col quale nei confronti del ricorrente s’era disposta la perdita del grado, la cessazione dal servizio permanente e la collocazione nel ruolo di truppa senza alcun grado, nonché la cessazione, di fatto, del rapporto di lavoro;
-- per l’accertamento del diritto del ricorrente alla restituito in integrum in corrispondenza di tutto il periodo di impossibilità di eseguire la prestazione lavorativa, fino al giorno di effettiva riammissione in servizio e per la condanna del Ministero al pagamento di tutti gli importi dovuti al ricorrente in conseguenza dell’accertamento dei fatti.
1.1. Qui, in sintesi, i fatti esaminati dai primi Giudici:
- la persona fisica in epigrafe (attuale appellato ed appellante incidentale), sottoufficiale della Aeronautica militare, dal 1973 in servizio presso la I Regione Aerea di Milano, è stato coinvolto nel 1996 in un procedimento penale con l’accusa di corruzione e di falso materiale, all’esito del quale è stata condannata alla pena di anni due, mesi undici, giorni quindici di reclusione dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza emessa (in applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.) il 14.5.2002, passata in giudicato il 31.10.2002;
- dopo il processo penale iniziava un procedimento disciplinare (con ordine del 16.4.2003), concluso col decreto del Direttore generale per il personale militare del 17.6.2003 che disponeva la sanzione della perdita del grado;
- questo provvedimento veniva annullato dal Tar Milano con sentenza n. 5019/2003 (che ha ritenuto fondata la censura secondo cui la perdita del grado sarebbe stata disposta senza adeguata motivazione in ordine alla sussistenza del presupposto normativo della “particolare gravità”), confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 6792/2009 passata in giudicato il 2.11.2009 (diversamente motivata in ragione della sentenza della Corte Costituzionale 5.3.2009, n. 62, la quale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma attributiva del potere di determinare in peius la sanzione disciplinare rispetto alla proposta della commissione di disciplina);
- all’esito del giudicato amministrativo s’è svolto un nuovo provvedimento disciplinare (15.3.2010) col quale l’incolpato è stato, per un verso, reintegrato nel grado e, per altro verso, contestualmente sospeso per dodici mesi dal servizio, nel quale è stato poi riammesso solo al termine della sospensione disciplinare;
- nella successiva ricostruzione della carriera del militare, s’è disposto che l’arco temporale compreso tra il 17.6.2003 (data dell’irrogazione della sanzione espulsiva, poi annullata) e la data di notifica del provvedimento di riammissione non dovesse computarsi. Ciò per la necessità di scomputare il periodo di tempo corrispondente alla pena detentiva e a quella accessoria inflitta, ancorché non scontata (ovvero anni 2, mesi 11, giorni 15, di reclusione, nonché anni 5 di interdizione temporanea dai pubblici uffici);
- il militare impugnava il provvedimento (del 15.3.2010) chiedendo l’accertamento del suo diritto alla restituito in integrum in corrispondenza di tutto il periodo di sospensione precauzionale sofferto (dal 25.10.1996 al 25.9.2001) e del periodo di mancato impiego compreso nell’arco temporale tra il 17.6.2003 e il giorno di effettiva riammissione in servizio, nonché la condanna del Ministero al pagamento di tutti gli importi dovuti e al risarcimento di tutti i danni subiti;
- il Ministero si costituiva in primo grado chiedendo il rigetto delle domande;
- il presidente della Terza sezione del Tribunale, con decreto del 17.5.2010, considerata l’insussistenza di motivi di eccezionale gravità e urgenza, respingeva l’istanza di misure cautelari e fissava la camera di consiglio collegiale del 10.6.2010, poi rinviata, su richiesta della parte a quella dell’8.7.2010;
- nel frattempo, con provvedimento del 12.5.2010, il Ministero annullava parzialmente il censurato provvedimento del 15.3.2010 perchè “ a decorrere dalla data di notifica del presente decreto (avvenuta il 7 giugno 2010) , cessano gli effetti disciplinari dall’impiego di cui all'articolo 2 e il sottufficiale dovrà essere riammesso in servizio, dovendosi computare il maggior periodo di sospensione precauzionale a titolo facoltativo presofferta dal militare in argomento dal 25 ottobre 1996 al 25 settembre 2001;dell’eccedenza dovrà tenersi conto in sede di restituito in integrum. Ai fini della ricostruzione giuridica ed economica della carriera del dipendente, l’arco temporale compreso tra il 18 maggio 2004, data di decorrenza degli effetti del decreto di cui all'articolo 1 e la data di riammissione in servizio disposte dal presente provvedimento non dovrà essere computato, considerato che occorre dedurre il periodo di tempo corrispondente alla pena detentiva ed a quella accessoria inflitta, ancorché in concreto non scontata, ovvero anni 2, mesi 11, giorni 15 di reclusione nonché a quella dei 5 anni di interdizione temporanea dai pubblici uffici. L’eccedenza del periodo da dedurre dovrà essere compensata con quella della sospensione precauzionale facoltativa presofferta ”;
- questo provvedimento era impugnato con motivi aggiunti;
- con ordinanza 9.7.2010 il Tar, rilevato che il ricorrente era stato riammesso in servizio e che, dunque, non sussisteva alcun pregiudizio imminente ed irreparabile la cui tutela non potesse attendere la definizione nel merito del giudizio, respingeva la domanda cautelare. Poi, rilevando pure che la difesa erariale aveva riconosciuto parzialmente la pretesa del ricorrente al conseguimento delle somme richieste e che il ricorrente aveva chiesto, sul punto, il pagamento delle somme non contestate, ha ordinato al Ministero di liquidare al ricorrente le somme riconosciute come dovute dalla difesa erariale, entro il termine di giorni quaranta dalla comunicazione dell’ordinanza;
- alla camera di consiglio del 4.11.2010, fissata per l’esecuzione dell’ordinanza cautelare, avendo parte ricorrente riconosciuto il pagamento delle competenze spettanti secondo le indicazioni date dal Tar, contenute nella detta ordinanza, è stata dichiarata la cessazione della materia del contendere;
- poi, con decreto del Capo del III Reparto della Direzione generale per il personale militare del Ministero del 9.2.2011, è stata disposta la perdita del grado posseduto dal militare, la sua cessazione dal servizio permanente e la sua collocazione nel ruolo di truppa senza alcun grado, nonché la cessazione, di fatto, del rapporto di lavoro;
- anche questo provvedimento è stato impugnato con motivi aggiunti;
- con ordinanza n.-OMISSIS-/2011 il Tar ha accolto l’istanza cautelare e, per l’effetto, sospeso il provvedimento che disponeva la perdita del grado, fissando l’udienza pubblica del 13.10.2011 cui è seguita la sentenza qui impugnata.
1.2. I primi Giudici hanno quindi deciso nei termini qui sinteticamente riportati in ordine alle seguenti questioni:
a) il militare lamentava l’illegittimità del provvedimento di sospensione di 12 mesi dall’impiego, in quanto, a suo avviso, il procedimento disciplinare era stato iniziato e concluso dopo la data di decorrenza dei termini di legge concessi all’Amministrazione per provvedervi. Inoltre, durante il suo corso, vi sarebbe stata inerzia procedimentale per oltre i 90 giorni massimi consentiti.
La censura è stata ritenuta infondata poiché, ai sensi dell’art. 5, co. 4, della l.n. 47/2001, “ Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve concludersi entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall’articolo 653 del codice di procedura penale ”.
Nella specie il giudicato di annullamento del primo provvedimento (perdita del grado), avendo implicato la riapertura dei termini per la riedizione del potere disciplinare, comportava la sola verifica del rispetto dei termini di prosecuzione del procedimento disciplinare, termini perentori nella realtà integralmente rispettati. Per gli stessi motivi neppure si è ritenuta sussistente la lamentata inerzia procedimentale di 90 giorni;
b) quanto alle censure avverso il provvedimento di perdita del grado e di cessazione dal servizio permanente, il Ministero aveva ritenuto di poter adottare, in sostanza, un provvedimento di destituzione automatica derivante dalla mera applicazione della pena accessoria (senza necessità di un procedimento disciplinare), condiviso dalla Corte d’appello di Milano in occasione dell’ordinanza n. 151/2010;
I primi Giudici hanno invece ritenuto l’illegittimità della sanzione automatica della perdita del grado e della cessazione dal servizio permanente, fatta discendere dalla pena accessoria della rimozione.
Giusta l’art. 5 della l.n. 97/2001, infatti, doveva valere il principio per cui, in caso di sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata soltanto a seguito di procedimento disciplinare, con sola eccezione per le ipotesi di cui all'articolo 32- quinquies c.p..
Non è risultata, peraltro, condivisibile nemmeno l’interpretazione dell’art. 29 c.p.m.p. data dall’Amministrazione. La piana interpretazione del codice penale militare di pace – si è ritenuto – distingue puntualmente la “degradazione” dalla “rimozione”, rispettivamente agli artt. 28 e 29. La prima soltanto determina il più grave effetto della risoluzione definitiva della relazione di servizio. Al contrario, la seconda risulta concepita per permettere la conservazione del rapporto di lavoro, ferma l’assegnazione al militare rivestito di un grado di una posizione corrispondente all’ultima posizione della carriera. Perciò non sono state rinvenute ragioni plausibili per consentire all’Amministrazione di obliterare l’instaurazione ed il regolare svolgimento di un procedimento disciplinare;
c) conseguentemente è stato sottolineato che l’effetto ripristinatorio, derivante dall’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento espulsivo illegittimo, determina l’automatica ricostituzione dello status quo ante , sicché il Ministero doveva adeguare la situazione di fatto a quella di diritto derivante dalla decisione, con il ripristino della posizione di lavoro dell’interessato, alla luce dei motivi d’impugnazione proposti ed accolti;
d) sono state quindi accolte le censure del militare, quanto alla ricostruzione della sua carriera, con un’analitica puntualizzazione dei parametri cui il Ministero si sarebbe dovuto attenere nell’effettuarla;
e) non è stata ritenuta fondata la pretesa alla restitutio in integrum in corrispondenza di tutto il periodo di sospensione precauzionale (dal 25.10.1996 al 25.9.2001) sofferto dal militare, venendo in rilievo, in tal caso, gli artt. 20 e 23 della l.n. 599/1954, vigenti ratione temporis ;
f) stabilita la sussistenza dei presupposti necessari per configurare il credito retributivo in capo al Ministero, per la misura del quantum s’è fatta applicazione dell’art. 34, co. 4, c.p.a., previa fissazione di appositi criteri;
g) non è stata accolta la domanda di risarcimento del danno alla persona lamentato dal militare, reputandosi che lo stesso, al pari di ogni danno ingiusto, è risarcibile soltanto come pregiudizio effettivamente conseguente ad una lesione. Occorrendo al riguardo la prova ulteriore dell’entità del danno e l’allegazione di concrete circostanze comprovanti l’alterazione delle abitudini di vita, non s’è ritenuto sufficiente il mero utilizzo di formule standardizzate, a maggior ragione nel processo amministrativo per la specificità del suo contenzioso. In particolare, non sono state ritenuto sufficientemente provato il danno non patrimoniale sia in termini di sofferenza emotiva patita sia di alterazione della vita di relazione. Ciò tenuto conto del fatto che le vicissitudini cui nel passato era andato incontro il militare trovavano sicura origine nella sua condotta delittuosa, grave e penalmente accertata.
2. L’appello del Ministero, per quanto non contrassegnato da un’articolazione formale di specifici motivi di impugnazione, risulta comunque affidato ai seguenti temi censori:
a) a differenza di quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, “ mentre la degradazione è formalmente una sanzione interdittiva, la rimozione non lo è in quanto non esclude "ad origine" il soggetto dall’ordinamento militare, senza la possibilità di reingresso, ma solo lo retrocede al livello più basso della gerarchia militare, conservandogli lo "status" di militare ” e quindi nella specie, tenuto conto sia di una ricostruzione storica della normativa di settore sia della persistente sospensione della leva obbligatoria, v’era “ un’ontologica incompatibilità tra la perdita del grado e la possibilità di rimanere in servizio permanente, a riprova che l'art. 29 c.p.m.p. non si presta ad una diversa lettura ”. Pertanto, ad avviso del Ministero, “ si deve ritenere che anche la rimozione di cui all'art. 29 c.p.m.p. comporti come effetto immediato e diretto la cessazione dal servizio attivo del militare, retrocesso al grado di soldato semplice, che abbia assolto gli obblighi di leva o che non sia tenuto a svolgerli per effetto della sospensione della leva obbligatoria ”. Per questo, “ nel caso di specie, a fronte della sanzione penale militare accessoria della rimozione, di cui all'art. 29 c.p.m.p., l’Amministrazione militare ha, correttamente, adottato nei confronti dello (… appellato) un provvedimento di collocamento in congedo nella posizione di militare di ultima classe (aviere), avendo egli già assolto gli obblighi di leva ”;
b) l’impugnata decisione non è condivisibile neanche sotto il profilo della quantificazione delle somme riconosciute dovute all’originario ricorrente. In particolare, “ ai fini della ricostruzione della carriera (… del militare) deve essere dedotto anche il periodo di interdizione temporanea dai pubblici di anni 5 (cinque) inflitta dal giudice penale ”.
3. Costituitosi, l’appellato ha ribattuto alle tesi del Ministero e, a propria volta, ha proposto appello incidentale sui seguenti temi censori:
a) è erronea la sentenza appellata lì dove ha “ ritenuto infondato il motivo di impugnativa proposto in ordine allo spirare del termine a favore dell’Amministrazione per la riattivazione del procedimento disciplinare successivamente al giudicato intervenuto a seguito della sentenza Consiglio di Stato n. 6792/09 ”. Questa sentenza era passata in giudicato il 2.11.2009 mentre l’impugnato decreto del Direttore generale per il personale militare del Ministero n. 0121/3-9/2010 portava la data del 15.3.2010, di 4 mesi e 13 giorni successiva al predetto passaggio in giudicato;
b) riproposizione – per l’eventualità che fosse ritenuto fondato il primo argomento censorio del Ministero di cui sub 2.a) supra – dei motivi di primo grado implicitamente assorbiti, ossia:
b.1) incostituzionalità degli articoli 866, 867, 861, 923 del d.lgs. n. 66/2010;
b.2) incostituzionalità della medesime disposizioni per eccesso di delega;
b.3) necessità di un procedimento disciplinare per “ licenziare ” il militare e pertanto violazione della direttiva della Direzione generale per il personale militare del 2008;
b.4) corretta procedura da seguire nell’esecuzione della pena accessoria della rimozione;
b.5) decadenza dall’esercizio della potestà disciplinare;
b.6) carenza di potere nella pronuncia della perdita del grado, che sarebbe spettata al Ministro;
b.7) errore nel procedimento di applicazione della pena accessoria;
b.8) indipendenza della perdita del grado rispetto all’impiego;
b.9) decorrenza della pena accessoria e dell’eventuale perdita del grado;
b.10) disparità di trattamento
c) revisione del criterio di quantificazione dettato dalla sentenza impugnata in ordine alla ricostruzione della carriera.
4. Il Ministero ha quindi riepilogato i propri temi con memoria del 2.4.2019.
5. Con memoria del 31.5.2019 l’appellato:
a) riferisce che il Ministero con d.m. n. 0421/III-7/2012 ha annullato quello n. 0066/III-7/2011 del 9.2.2011 (impugnato in primo grado ed annullato dal Tar Lombardia) onde, trattandosi di atto successivo all’impugnazione della sentenza Tar n. -OMISSIS- e che annulla esplicitamente il d.m. del 9.2.2011, si sarebbero resi improcedibili i motivi di appello;
b) aggiunge di essere stato nel frattempo collocato in pensione con un trattamento previdenziale coerente col citato d.m. n. 0421/III-7/2012 e senza alcuna riserva di ripetizione di importi all’esito del presente giudizio. Tale fatto confermerebbe la volontà dell’Amministrazione di dare seguito alle prescrizioni contenute in detto provvedimento, superando i contenziosi esistenti, ed “ Il contegno dell’amministrazione è univoco, e tale contegno non può che determinare l’improcedibilità dell’appello per cessazione della materia del contendere. ”;
c) riepiloga i propri argomenti a confutazione dell’appello e a sostegno di quello incidentale;
d) conclude chiedendo “ in via preliminare: dichiarare la cessazione della materia del contendere per le ragioni esposte in atti ” e “ in via principale: in parziale riforma della sentenza T.A.R. Lombardia – Milano n. -OMISSIS- ” la reiezione dell’appello principale e l’accoglimento di quello incidentale, in tal caso previi gli indicati incombenti istruttori da assolvere.
6. A tanto ha replicato il Ministero con atto del 3.6.2019, cui ha fatto seguito ulteriore replica del 6.6.2019, anche per ribadire le obiezioni alle tesi avversarie.
7. La causa quindi, chiamata alla pubblica udienza di discussione del 2.7.2019, è stata ivi trattenuta in decisione.
8. Per quanto il più recente provvedimento del Ministero (ossia il d.m. n. 0421/III-7/2012) possa essere considerato dallo stesso appellante sostanzialmente satisfattivo, tuttavia lo stesso non pare in grado di condurre direttamente ad una declaratoria di improcedibilità dell’appello principale.
Vale al riguardo quanto osservato dal Ministero. Il provvedimento è frutto dei contenuti della sentenza impugnata, di per se stessa mai sospesa nella sua esecutività, e quindi non esprime autonome ed indipendenti volizioni del Dicastero. Da questo punto di vista, perciò, l’interesse del Ministero alla decisione non può reputarsi venuti meno.
9. Comunque l’appello principale risulta infondato.
9.1. In particolare, non è condivisibile la tesi del Ministero che, ove seguita fino ai suoi ultimi sviluppi argomentativi, porterebbe nel caso di specie ad una sostanziale evanescenza della differenza – la quale, di per sé, pur sempre ontologicamente esiste – tra gli istituti della ‘degradazione’ e della ‘rimozione dal grado’.
Come in fin dei conti ben illustrato nella sentenza di prime cure, il primo istituto ha una portata estrema e conduce ad una perdita di ogni ‘grado’ conseguito da un militare nella sua carriera. Ne consegue naturalmente allora, proprio perché un militare finisce allora per non avere grado alcuno, il fatto che lo stesso non possa che essere allontanato definitivamente dal Corpo di appartenenza ed essere pertanto restituito alla vita civile.
Tecnicamente (e giuridicamente) diverso, invece, è l’altro istituto, che di per sé porta soltanto alla perdita di uno o più gradi, fino al punto – nella sua latitudine applicativa più ampia – di ricondurre il militare al ‘grado’ di partenza della sua carriera. Situazione, questa, che però non esclude altresì che il rapporto del militare con il Corpo di appartenenza sussista ancora. Fatto questo che, allora, non consente di poter restituire il militare alla vita civile.
Non vale allora, a tale ultimo riguardo, speculare sulla circostanza che un militare possa, a differenza di un altro, aver iniziato la propria carriera con assolvimento o meno di obblighi di leva e che tali ultimi possano non essere più tali (come nel passato) dopo il riordino subíto dal reclutamento militare. Ciò allo scopo di inferirne che, in ultima analisi, ormai (ed in caso quale quello in discorso) ‘degradazione’ e ‘perdita di grado’ sono istituti che praticamente si equivalgono.
Piuttosto, è condivisibile l’opinione (diversa da quella sostenuta dal Ministero) fatta propria dai primi Giudici, alla luce della quale dunque, non ricorrendo un caso di (legittima) cessazione dal servizio, l’attuale appellato meritava di ottenere ristoro attraverso (secondo le parole della sentenza impugnata) “ l’automatica ricostituzione dello status quo ante, ossia il ripristino della situazione giuridica anteriore alla sua determinazione [ossia la determinazione della cessazione dal servizio] , sicché spetta all’amministrazione adeguare la situazione di fatto a quella di diritto derivante dalla statuizione giurisdizionale, ripristinando la posizione di lavoro dell’interessato, alla luce dei molteplici motivi di impugnativa proposti ed accolti ”.
9.2. Risulta altresì condivisibile il giudizio di infondatezza espresso dai primi Giudici relativamente alla censura sollevata avverso l’assunto del Ministero (ribadito in questo grado di giudizio) secondo il quale cui occorrerebbe dedurre, rispetto al periodo di servizio del ricorrente, anche cinque anni di interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Ciò perché “ la pena della interdizione non è stata comminata al ricorrente con la sentenza di condanna in appello emessa il 14.05.2002 e passata in giudicato il 31.10.2002. [… onde] è bene ricordare come l’unica pena che possa essere eseguita è quella risultante dal dispositivo ”.
10. Con la reiezione dell’appello principale vengono altresì meno le censure di primo grado riproposte della parte appellata per la (sola) eventualità di accoglimento del primo motivo di tale appello (v. sub 3.b) supra ).
11. Dell’appello incidentale non risulta peraltro fondato il primo motivo. Cosa che fa venir altresì meno il suo terzo motivo, che dal primo (solo ove accolto) conseguirebbe.
11.1. Al riguardo, in particolare, è condivisibile quanto enunciato dai primi Giudici, che hanno rammentato che ai sensi dell’art. 5, co. 4, della l.n. 97/2001 e successive modificazioni, “ Il procedimento disciplinare deve concludersi entro centottanta giorni decorrenti dal termine di (…) di proseguimento ” dello stesso.
Conclusione tempestiva che nella specie si è inverata, avuto riguardo alla data del provvedimento disciplinare finale, successivo a quello precedente annullato però in sede giurisdizionale.
12. In conclusione, devono essere respinti sia l’appello principale sia quello incidentale, con conseguente conferma della sentenza di primo grado impugnata e – incidentalmente detto – solidificazione del decreto ministeriale da ultimo adottato dall’Amministrazione e sostanzialmente satisfattivo per la parte qui appellata, per quanto dalla stessa enunciato.
13. Ricorrono giustificati motivi per compensare integralmente fra le parti le spese di questo grado di giudizio.