Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-07-20, n. 202206373

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-07-20, n. 202206373
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202206373
Data del deposito : 20 luglio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 20/07/2022

N. 06373/2022REG.PROV.COLL.

N. 05104/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5104 del 2014, proposto dalle sig.re M T I e F S e proseguito dal sig. A I, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avvocati F L e M L R L, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, via G. G. Belli, n. 39,

contro

Comune di Anacapri, non costituito in giudizio,

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per la Campania, sede di Napoli (Sezione VI) n. 5227 del 21 novembre 2013, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 marzo 2022 il Cons. Francesco Guarracino, nessuno comparso per le parti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Con due distinti ricorsi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, spediti per la notifica rispettivamente il 23 e 24 dicembre 2008 e depositati entrambi il 22 gennaio 2009, le sig.re M T I e Filomena S, nelle qualità rispettive di nuda proprietaria e di usufruttaria della intera verticale ovest del fabbricato sito alla via traversa La Vigna n. 35 nel comune di Anacapri, il cui intero territorio è stato dichiarato di notevole interesse pubblico, ai sensi della l. 29 giugno 1939, n. 1497, e quindi sottoposto a tutte le disposizioni ivi contenute con D.M. 20 marzo 1951, impugnavano:

- col ricorso iscritto al n.r.g. 425 del 2009, l’ordinanza n. 15330 del 20.10.2008 con la quale il responsabile del Servizio tutela ambientale del Comune di Anacapri aveva ingiunto la sospensione immediata dei lavori eseguiti sul predetto immobile in difetto di autorizzazione paesaggistica, consistenti in:

« portico, di circa mq 10.33, sul lato Ovest al piano seminterrato del fabbricato, aperto su due lati la cui copertura costituisce terrazzo al livello dell’appartamento al piano terra;

locale ripostiglio, di circa mq.

3.51 e mc. 7.02, sul lato N/O del fabbricato;

locale deposito, di circa mq.

9.39 e mc. 26.30, in ampliamento al piano seminterrato del fabbricato;

corpo di fabbrica adibito a servizio igienico, di circa mq.

5.31 e mc. 14.34, in ampliamento al piano terra del fabbricato;

locale lavanderia, di circa mq.

3.11 e mc. 6.22, in ampliamento sul lato Ovest del fabbricato
».

- col ricorso iscritto al n.r.g. 426 del 2009, unitamente al provvedimento n. 14022 del 26.9.2008 di sospensione dei lavori, l’ordinanza n. 15328 del 20.10.2008 con il quale il Comune di Anacapri ha annullato in autotutela « gli effetti della D.I.A. n. 51, prot. 14589 del 9/10/02, limitatamente alla creazione di ambienti deposito mediante l’utilizzo della retrostante cisterna » e « gli effetti della D.I.A. n. 1022, prot. 5484 del 10/4/2006 esibita per la realizzazione di un camminamento a sbalzo a livello del piano terra, per il collegamento dei due terrazzi » e ha ingiunto la demolizione delle opere già sopra descritte.

Con sentenza n. 5227 del 4 dicembre 2013 il T.A.R. ha riunito i ricorsi, respinto il ricorso n. 426 del 2009 e dichiarato improcedibile il ricorso n. 425 del 2009.

Avverso la decisione di primo grado le ricorrenti hanno interposto appello.

Il Comune di Anacapri, ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio.

Con ordinanza (sez. VI) del 20 ottobre 2020, n. 6337, il giudizio è stata riunito con gli appelli n. 5102/2014 e n. 5103/2014 del r.g., concernenti controversie riguardanti opere abusive inerenti allo stesso fabbricato, e dichiarato interrotto per l’intervenuto decesso dell’appellante sig.ra S.

Nelle more dell’interruzione del processo è intervenuto il decesso anche della sig. M T I.

Il giudizio è stato riassunto, in qualità di erede delle originarie appellanti, dal sig. Antonio Iaccarino, che in vista dell’udienza di discussione ha prodotto memorie.

All’udienza pubblica dell’8 marzo 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.

In via preliminare ritiene il Collegio - rammentando che la riunione di procedimenti non fa venire meno l’autonomia delle cause riunite nello stesso processo e che il provvedimento di riunione di procedimenti relativi a cause connesse ex art. 274 c.p.c. non è altro che una misura organizzativa del lavoro giudiziario (cfr. Corte cost., ord. 7 novembre 2007, n. 370;
C.d.S., sez. III, 4 luglio 2014, n. 3380) che involge valutazioni insindacabili di opportunità - di disporre la separazione del presente procedimento da quelli rubricati al n. 5102/2014 e n. 5104/2014 di r.g., riguardanti soggetti non coincidenti e opere diverse da quelle per cui qui è causa.

Nel merito, l’appello è infondato.

I ricorsi esaminati e decisi dal giudice di primo grado vertevano sull’abusività degli interventi edilizi sopra descritti, colpiti in pari data con ordinanza di sospensione dal responsabile del Servizio tutela ambientale del Comune di Anacapri perché sforniti della necessaria autorizzazione paesaggistica e con ordinanza di demolizione, ai sensi dell’art. 31, co. 2, del D.lgs. 380/2001, dal responsabile dei Servizi tecnici comunali perché abusivamente realizzati in difetto di titoli legittimanti, quest’ultima recante annullamento contestuale degli effetti delle due D.I.A. sopra parimenti richiamate.

Il T.A.R. ha rigettato il ricorso (n. 426 del 2009) contro l’annullamento in autotutela degli effetti delle due D.I.A. e l’ordine di demolizione delle opere osservando che:

- non essendovi menzione nel ricorso di un previo assenso alla realizzazione delle opere sotto il profilo paesaggistico, doveva escludersi che le D.I.A. si fossero perfezionate per silenzio assenso, ciò valendo a svincolare l’esercizio del potere repressivo dalla necessità di rimuovere titoli abilitativi che, in realtà, sarebbero stati giuridicamente inesistenti;

- il Comune, in modo del tutto logico e lineare, aveva inteso invalidare, nei limiti suddetti, le trasformazioni comunicate con le D.I.A. del 2002 e del 2006 siccome aventi a oggetto opere (la cisterna e il terrazzo) che, nella loro stessa consistenza originaria erano da ritenersi illegittime, non essendo estate edificate in base ad un titolo ad aedificandum :

- nella rappresentazione asseverata dei lavori da effettuare (D.I.A. del 2002 e del 2006) le ricorrenti avevano taciuto tale decisiva circostanza, di contro accreditando la piena conformità degli interventi proposti con la disciplina di settore, ciò comportando una rappresentazione non esattamente fedele della pregressa situazione di fatto, tale da rendere non meritevole l’affidamento alla stabilità degli effetti favorevoli;

- le ricorrenti non avevano dimostrato la legittima edificazione delle opere (la cisterna e il terrazzo) poi trasformate;

- ciò, ai sensi dell’art. 21 octies l. n. 241/1990, privava di rilievo le doglianze sulla presunta violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, risultando dalle predette emergenze processuali che il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato;

- nessun dubbio residuava sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal Comune, di cui era indiretta conferma la stessa mancanza di pertinenti contestazioni, in fatto, sulla natura degli abusi accertati, di cui risultava offerta una chiara descrizione;

- non hanno trovato riscontro negli atti di causa le deduzioni secondo cui le opere in contestazione sarebbero state eseguite in data anteriore al 1967, in virtù di titoli abilitativi, e che non sarebbero mai state modificate nella loro originaria consistenza salvo che per gli interventi di cui alle D.I.A. sopra richiamate, non bastando a fornire la prova dell’epoca di realizzazione di un abuso edilizio, il cui onere incombe sull’interessato, le consistenze immobiliari rappresentate nell’atto di donazione del 1988 alla sig.ra Iaccarino della nuda proprietà dell’immobile ovvero la consulenza tecnica di parte ovvero ancora l’ulteriore documentazione versata a corredo del ricorso;
in particolare non essendo sufficiente il mero riferimento ai titoli rilasciati per la realizzazione dell’intero fabbricato, comunque non versati in atti così impedendo la stessa possibilità di un controllo sulla fondatezza delle (generiche) asserzioni attoree;

- l’ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione;
né vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi;

- la misura sanzionatoria applicata è proporzionata alla natura e alla consistenza degli abusi accertati, considerati in quella necessaria visione di insieme che rappresenta una condizione irrinunciabile per la corretta stima dell’impatto delle opere edilizie sul territorio, fermo che anche considerata singolarmente ciascuna di esse ha comportato incisive modifiche dello stato dei luoghi (a seconda del caso, ampliamento delle superfici delle strutture preesistenti, creazione di nuovi volumi, cambio di destinazione d’uso, incisiva modifica delle aree esterne);

- corretta, dunque, è la sussunzione dell’abuso in questione nell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, mentre la riproduzione nel corpo del provvedimento impugnato anche del contenuto del successivo art. 36 riferito alla possibilità di sanare l’abuso precedentemente consumato va intesa come effettuata per evidenti finalità di agevolare la conoscenza della normativa di settore.

Per il T.A.R. « Tanto refluisce in negativo sulla stessa concreta possibilità di coltivare le residue censure spiegate avverso l’ordine di sospensione n. 14022 del 26.9.2008, peraltro di per se stesso privo di una propria, autonoma stabilità e, dunque, destinato a rimanere assorbito nel provvedimento di demolizione e nelle statuizioni ad esso riferite ».

Infine, il T.A.R. ha dichiarato improcedibile il ricorso (n. 425 del 2009) avverso il provvedimento di sospensione delle opere, poiché realizzate in violazione della disciplina sugli interventi edilizi in zona vincolata, in quanto il provvedimento, esaurendo i suoi effetti nell’inibire l’ulteriore prosecuzione dei lavori, doveva ritenersi superato in ragione dell’intervenuta convalida in sede giurisdizionale della sanzione demolitoria, implicante l’integrale rimozione delle opere abusive accertate, con conseguente venir meno di ogni interesse residuo alla coltivazione del gravame.

Contro il capo della sentenza relativo al rigetto del ricorso n. 1164 del 2009 la parte appellante articola sette complessi motivi di appello (pagg. 5-39), con cui imputa al T.A.R.:

(i) di essere incorso in vizio di extrapetizione per avere surrogato in via giudiziale la motivazione degli atti impugnati, che non avrebbero in alcun modo fatto riferimento alla mancanza dell’autorizzazione paesaggistica;

(ii) di aver errato nel ritenere non accreditata la piena conformità delle opere, poiché, al contrario, l’esatta consistenza degli interventi assentiti in D.I.A. e in particolare la consistenza dell’organismo edilizio preesistente che comprendeva il locale cisterna e la preesistenza di due piccole terrazze a livello (una sul lato ovest e l’altra sul lato sud del fabbricato) erano descritte e provate dalla relazione tecnica asseverata prodotta a corredo delle D.I.A. e supportata da documentazione grafica e fotografica, la quale menzionava i titoli e le autorizzazioni rilasciati per il fabbricato Iaccarino dal 1955 (licenza edilizia n. 75 del 3.3.1955;
permesso di costruzione n. 904 del 26.10.1965;
licenza edilizia n. 581 del 31.3.1966), circostanze su cui non vi erano contestazioni per la contumacia del Comune e il T.A.R. non aveva ritenuto di disporre istruttoria;
di aver, altresì, illegittimamente omesso di esaminare le diffuse censure di violazione dell’art. 21 nonies della l. 241/90 mosse al provvedimento impugnato, di cui non sarebbe dato comprendere le ragioni giustificatrici e che non avrebbe rispettato il vincolo del termine ragionevole, risalendo le D.I.A. al 2002 e al 2006 e riguardando interventi edilizi assentiti da anni;

(iii) di aver errato nel ritenere applicabile l’art. 21 octies della l. 241/90, in quanto, al contrario, le risultanze processuali non avrebbero affatto chiarito che il contenuto del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso, anzi le allegazioni degli appellanti deporrebbero nel senso dell’insussistenza di valide ragioni a sostegno dell’annullamento in autotutela dei titoli in D.I.A. del 2002 e del 2006;

(iv) di aver errato nel ritenere legittima la comminatoria della sanzione demolitoria,

convincimento basato su una disamina degli atti del giudizio erronea e parziale in quanto, come già dedotto col secondo motivo di appello, il complesso degli atti del giudizio proverebbe che lo stato dei luoghi, per volumetria e consistenza, sarebbe immutato negli anni e legittimo in virtù dei titoli rilasciati dalla amministrazione comunale (licenza edilizia n. 75 del 1955;
permesso di costruzione n. 904 del 1965;
licenza edilizia n. 581 del 1966), essendo in particolare tutte le opere contestate inequivocamente attestate come preesistenze e parte integrante del fabbricato, con conseguente erroneità dei rilievi che sono stati formulati dal T.A.R. sulla pretesa inadeguatezza probatoria del ricorso trascurando di disporre istruttoria e criticando ingiustamente la metodologia di contestazione dei ricorrenti perché “atomistica” senza considerare che tale, anzitutto, è la contestazione delle opere nell’ordinanza di demolizione;

(v) di essere incorso in errore sul punto dell’inadeguatezza del corredo probatorio versato agli atti dalle ricorrenti, dovendosi censurare, ferme la rilevanza probatoria della documentazione versata agli atti, l’omissione di pronuncia sulle richieste istruttorie formulate in primo grado;
l’onere probatorio sarebbe assolto enunciando i fatti e, nella specie, le prove delle censure sarebbero state allegate e non confutate;

(vi) di aver parimenti errato nella distinta disamina della rilevanza edilizia dei singoli abusi in contestazione, poiché le considerazioni che precedono, i rilievi tecnici nelle perizie allegate alle D.I.A. e i titoli abilitativi richiamati dimostrerebbero che le opere sanzionate con la misura demolitoria erano state realizzate in data anteriore al 1° settembre 1967, erano munite di titolo abilitativo e mai modificate, salvo gli interventi manutentivi assentiti per D.I.A. ed erano pienamente conformi all’assetto urbanistico, edilizio e paesistico vigente, di scarsa incidenza sul carico insediativo e del tutto irrilevanti sul piano della tutela paesaggistica;

(vii) di aver erroneamente disatteso il sesto e il nono dei motivi di ricorso assumendo l’ordine di demolizione adeguatamente motivato e proporzionato.

In merito al capo di sentenza relativo alla declaratoria di improcedibilità del ricorso n. 425 del 2009 la parte appellante contesta che non vi fosse interesse a coltivare l’impugnazione (pag. 40 appello) e di conseguenza ripropone testualmente i motivi del ricorso non esaminati nel merito in primo grado (pagg. 41-50).

Infine, nell’ultimo scritto difensivo l’appellante insiste sull’omessa contestazione delle deduzioni svolte, con conseguente applicazione dell’art. 115 c.p.c., e perché, a ogni modo, si disponga una consulenza tecnica d’ufficio sugli elementi definiti dalla consulenza tecnica di parte.

I motivi di gravame avverso la decisione di rigetto del ricorso di primo grado n. 426 del 2009 si prestano a esame congiunto e, come anticipato, sono da respingere nel loro complesso.

Costituisce un dato di fatto che in entrambi i giudizi di primo grado le ricorrenti, coi rispettivi ricorsi e i relativi provvedimenti impugnati, non abbiano depositato che le due D.I.A. del 2002 e del 2006 e che esse non recassero in allegato che (i) la relazione tecnica asseverata, (ii) i grafici illustrativi, (iii) la documentazione fotografica dello stato dei luoghi, (iv) l’attestazione di versamento dei diritti edilizi, (v) la dichiarazione di assunzione della direzione dei lavori, (vi) il documento d’identità del tecnico incaricato, (vii) la scheda Tarsu e (viii) le schede catastali allegate catastali al titolo di proprietà (non invece, a quanto consta, copia del titoli di proprietà, il che, per, non incide su quanto appresso si dirà).

Perciò corrisponde al vero quanto risolutivamente osservato dal T.A.R. sul fatto che le allegazioni sulla legittimità edilizia delle specifiche opere in contestazione, affidate al mero richiamo di titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione dell’intero fabbricato che neppure sono stati versati in atti, non sono state in alcun modo provate e che, in particolare, le ricorrenti non avevano affatto dimostrato la legittima edificazione delle opere (la cisterna e il terrazzo) successivamente trasformate.

Tutte le corrispondenti allegazioni finalizzate alla dimostrazione dell’illegittimità dei provvedimenti impugnati sono, perciò, rimaste allo stato di semplici asserzioni, prive anche solo di un principio di prova.

Non giova alla parte appellante invocare il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., poiché quest’ultimo impone al giudice di porre a fondamento della decisione « i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita » e, quindi, presuppone che la parte cui spetterebbe contestare i fatti sia costituita in giudizio (cfr. Cass., SS.UU., 16 febbraio 2016, n. 2951: la contumacia esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti);
nell’ordinamento processuale amministrativo attuale a quella disposizione corrisponde l’art. 64, comma 2, c.p.a., il quale fa parimenti riferimento a « i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite » con la conseguenza che la mancata costituzione in giudizio della parte resistente non solleva la controparte dall’onere della prova e non rappresenta un comportamento valutabile, ai sensi dell’articolo 116, comma 1, c.p.c., per trarne argomenti di prova in danno della parte medesima (C.d.S., sez. VI, 28 luglio 2020, n. 4805).

Il T.A.R. avrebbe potuto esercitare il suo potere acquisitivo se la parte ricorrente avesse assolto l’onere del principio di prova - tanto più che nella specie gli elementi di prova atti a sostenere la domanda giudiziale erano nella piena disponibilità della parte interessata - secondo un principio ora codificato nella previsione dell’art. 64, comma 3, c.p.a., per cui “ Il giudice amministrativo può disporre, anche di ufficio, l’acquisizione di informazioni e documenti utili ai fini del decidere che siano nella disponibilità della pubblica amministrazione ”;
previsione che, come osservato da questo Consiglio, si connota per l’evidente finalità di agevolare la parte privata nella acquisizione al processo di elementi utili alla decisione che non sono nella sua immediata disponibilità (risultando, invece, in quella dell’amministrazione), rendendo evidente che l’esercizio della facoltà decisoria prevista dal comma 4 può riguardare solo elementi che siano nella esclusiva disponibilità dell’amministrazione e non anche in quella del privato (C.d.S., sez. VI, n. 4805/2020 cit.).

Né occorreva disporre, come vorrebbe ancora l’appellante, una consulenza tecnica d’ufficio, che, al pari della verificazione, non può ritenersi una relevatio ab onus probandi , essendo unicamente un mezzo di ausilio del giudice per la valutazione della prova, il cui onere ricade sulle parti, non potendo in alcun modo detti mezzi istruttori essere utilizzati per colmare lacune probatorie delle parti (in termini, C.d.S., sez. VI, 11 dicembre 2019, n. 8424).

Deve convenirsi col T.A.R. anche sul punto che in difetto di rappresentazione fedele della pregressa situazione di fatto non fosse meritevole di tutela l’affidamento alla stabilità degli effetti delle D.I.A. invocato dalle ricorrenti e che, data la natura abusiva delle nuove opere e di quelle (cisterna e terrazzo) successivamente trasformate l’atto impugnato non avrebbe potuto avere un diverso contenuto, rendendosi possibile, perciò, l’applicazione dell’art. 21 octies della l. 241/90.

Per il resto, per consolidato orientamento giurisprudenziale ( ex multis , C.d.S., sez. VI, n. 8/2022 cit.;
Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 9) l’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede alcuna motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso, e tale principio non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso.

Venendo alla disamina dell’impugnazione del capo di sentenza sull’improcedibilità del ricorso n. 405 del 2009, l’appellante contesta la carenza d’interesse a coltivare l’impugnazione, ma non ne individua e tantomeno ne spiega le ragioni, ricordando solo che l’oggetto dei due ricorsi era diverso.

Le ragioni della declaratoria di improcedibilità sono, invece, esattamente individuate dal T.A.R. nel fatto che, poiché il provvedimento impugnato col ricorso n. 405 del 2009 esauriva i suoi effetti nell’inibire l’ulteriore prosecuzione di lavori oggetto di accertamento, esso era da ritenersi superato in ragione dell’intervenuta convalida in sede giurisdizionale della sanzione della demolizione, la quale implicava l’integrale rimozione delle opere abusive accertate.

Infatti, trattandosi di provvedimento provvisorio ad efficacia temporanea, esso era destinato a rimanere assorbito nel successivo provvedimento di demolizione (C.d.S., sez. V, 12 dicembre 2008, n. 6174).

In conclusione, per tutte queste ragioni la sentenza impugnata merita conferma, con parziale diversa motivazione, e l’appello dev’essere, di conseguenza, respinto.

Nulla va disposto per le spese del grado del giudizio, in difetto di costituzione della amministrazione appellata.

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