Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2019-12-05, n. 201908337

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2019-12-05, n. 201908337
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201908337
Data del deposito : 5 dicembre 2019
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/12/2019

N. 08337/2019REG.PROV.COLL.

N. 06895/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6895 del 2015, proposto da Sea Fishes s.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocato A P e dall’Avvocato V B, con domicilio eletto presso lo studio Gentili &
Partners Studio Legale in Roma, via Po, n. 24;

contro

Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza n. 411 del 13 gennaio 2015 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II, resa tra le parti, concernente il riconoscimento del diritto al risarcimento danni conseguenti allo stato di calamità meteo-marina.


visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio dell’odierno appellato, il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il Consigliere Massimiliano Noccelli e udito per l’odierna appellante, Sea Fishes s.r.l. in liquidazione, l’Avvocato A P e per il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali l’Avvocato dello Stato Stefano Vitale;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. L’odierna appellante, Sea Fishes s.r.l. ora in liquidazione (d’ora in avanti Sea Fishes o anche la società), ha adìto il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, per vedersi riconoscere il risarcimento dei danni patiti a causa del ritardo da parte del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali nell’emanazione del provvedimento dichiarativo dello stato di calamità naturale e di quello, conseguente, di concessione del contributo del Fondo di Solidarietà Nazionale della Pesca e dell’Acquacoltura di cui all’art. 14 del d. lgs. n. 154 del 2004, calcolato in base ai danni subiti alla produzione a causa dell’evento calamitoso dedotto.

1.1. La ricorrente ha domandato l’annullamento degli atti, con cui il Ministero ha provveduto sulla domanda, e il risarcimento dei danni patiti, dovuti all’inerzia a suo avviso ingiustificata della pubblica amministrazione che, a fronte di un termine pari a novanta giorni entro il quale avrebbe dovuto concludersi il procedimento, ha impiegato invece oltre due anni, con ciò dando causa all’applicazione di una normativa più sfavorevole, quella del D.M. dell’8 gennaio 2008, quanto ai criterî per liquidare l’indennità, frattanto entrata in vigore.

1.2. Nel primo grado del giudizio si è costituito il Ministero per resistere al ricorso.

1.3. Con la sentenza n. 411 del 13 gennaio 2015 il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha respinto il ricorso e ha compensato le spese di lite.

2. Avverso tale sentenza ha proposto appello l’interessata e, nel dedurne l’erroneità per tre distinti motivi che di seguito saranno esaminati, ne ha chiesto la riforma.

2.1. Si è costituito il Ministero appellato, con un’articolata memoria, per chiedere la reiezione del gravame.

2.2. Nella pubblica udienza del 21 novembre 2019 il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione.

3. L’appello è infondato.

4. Con un primo motivo (pp.

7-12 del ricorso) l’odierna appellante censura la sentenza per avere essa escluso qualsivoglia ritardo imputabile all’amministrazione per via dell’affermata natura ordinatoria del termine per la conclusione del procedimento.

4.1. Ad avviso dell’appellante, invece, dalla natura ordinatoria del termine non potrebbe farsi discendere la conclusione, avallata dal Tribunale, secondo cui il termine potrebbe essere impunemente violato dalla pubblica amministrazione senza temere conseguenze risarcitorie di nessun genere, ove si consideri che ad essere tutelato dall’art. 2- bis della l. n. 241 del 1990, di cui si assume la violazione, è il tempo come bene della vita, in sé, e nel caso di specie tale macroscopica violazione sussiste per essersi il procedimento concluso dopo oltre due anni, a fronte dei novanta giorni previsti.

4.2. Il motivo non merita accoglimento.

4.3. Come ha ben rilevato la sentenza impugnata, infatti, dalla semplice violazione del termine per la conclusione del procedimento, che non ha natura perentoria, non discende ex se la responsabilità della pubblica amministrazione per danno da ritardo, secondo una nozione meramente calendaristica e formale dei tempi procedimentali, perché occorre che tale danno sia imputabile alla pubblica amministrazione in forma di inerzia immotivata e/o di inescusabile negligenza.

4.4. E in realtà, come ha pure ben rilevato il primo giudice, i tempi procedimentali nel caso di specie hanno subito un sensibile allungamento per la complessità procedurale che ha caratterizzato l’ iter accertativo dell’evento calamitoso, ove si considerino l’elevato numero di passaggi amministrativi cadenzati dalla normativa primaria e secondaria, la quale prevede una fase di verifica delle precondizioni per gli interventi, di cui all’art. 14, comma 2, del d. lgs. n. 154 del 2004, e in particolare per l’attivazione del procedimento, di cui ora all’art. 4 del D.M. 8 gennaio 2008, la successiva fase istruttoria, con l’acquisizione e la verifica di copiosa documentazione, con il parere obbligatorio di organi consultivi che si sono dovuti pronunciare sul riconoscimento dell’evento eccezionale, i supplementi istruttori resi necessari dagli approfondimenti e dalle verifiche del caso, le richieste di integrazioni documentali motivate da carenza imputabili anche alla domanda, che ha dato impulso alla procedura, nonché i tempi dei controlli contabili, durati dal 4 settembre 2008 al 29 gennaio 2009 (quasi cinque mesi).

4.5. L’accurata ricostruzione dell’ iter procedimentale, effettuato dal primo giudice e nemmeno contestato in tutti i suoi singoli passaggi dall’appellante, smentisce perciò già in radice l’intero impianto argomentativo della censura in esame.

4.6. Di qui l’infondatezza della censura, che a torto invoca una presunta contraddittorietà della sentenza impugnata nell’avere correttamente affermato, da un lato, la natura solo ordinatoria del termine fissato per la conclusione del procedimento e, dall’altro, nell’avere negato, altrettanto correttamente, l’esistenza di un ritardo ingiustificato imputabile a negligenza della pubblica amministrazione.

5. Con il secondo motivo (pp. 12-15 del ricorso), ancora, l’odierna appellante lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nell’avere escluso la colpa della pubblica amministrazione per via di una, a suo avviso indimostrata, complessità dell’istruttoria, recependo acriticamente le affermazioni contenute nella breve memoria difensiva depositata dall’Avvocatura dello Stato in prime cure.

5.1. Al contrario, secondo Sea Fishes, la complessità dell’istruttoria costituisce una circostanza eccezionale, esonerativa dalla colpa, che la pubblica amministrazione resistente doveva dimostrare in giudizio, mentre invece non sarebbe stata offerta alcuna prova dello sforzo che l’organo consultivo, prima, e il Ministero, poi, avrebbero profuso per dimostrare un ritardo, ingiustificabile, di oltre due anni per concludere il procedimento.

5.2. Anche questo motivo è destituito di fondamento.

5.3. Il Collegio ha già rilevato che la sentenza impugnata, ben lungi dall’assidersi acriticamente sulle considerazioni difensive della parte pubblica, ha offerto una accurata ricostruzione del complesso iter procedimentale, che – tralasciando la lunga fase di verifica dei prerequisiti – ha contraddistinto la fase istruttoria, preceduta, come detto, da una lunga fase prodromica intesa alla verifica delle precondizioni, con l’acquisizione, dopo la produzione e la verifica di tutta la documentazione necessaria, del parere obbligatorio dell’Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare (ICRAM, oggi ISPRA) e, poi, del parere della Commissione consultiva centrale della pesca e sull’acquacoltura, alla quale è chiesto il parere di competenza sul riconoscimento di calamità naturale.

5.4. Non si può dunque imputare al Ministero, che ha dovuto acquisire detti pareri, e successivamente attendere la fase di registrazione presso la Corte dei Conti, conclusasi il 29 gennaio 2009, alcuna negligenza inescusabile nella conduzione della complessa istruttoria, che ha poi richiesto la presentazione di ulteriori documenti in seguito al mutamento normativo nel frattempo intervenuto, circostanza, questa, in alcun modo addebitabile a colpa dello stesso Ministero.

5.5. Di qui il ricorrere di una fattispecie, come quella della complessità dell’istruttoria oggettivamente incontestabile per la vicenda che ne occupa, tale da escludere qualsivoglia responsabilità da ritardo in capo al Ministero appellato.

6. Infine, con il terzo motivo (pp. 15-18 del ricorso), l’odierna appellante deduce l’erroneità della sentenza impugnata anche laddove ha imputato parte del ritardo al rilascio del parere obbligatorio da parte dell’ICRAM, considerando che dall’emanazione del parere dell’ICRAM, in data 11 giugno 2008, alla pubblicazione del decreto di dichiarazione dello stato di calamità, in data 6 marzo 2009, sono decorsi ben 9 mesi.

6.1. Anche volendo obliterare il ritardo imputabile all’ICRAM, comunque, il Ministero non andrebbe esente da responsabilità perché doveva emettere il decreto con il quale si riconosce lo stato di calamità in trenta giorni, mentre ha lasciato trascorrere nove mesi per emettere tale decreto.

6.2. E ciò senza considerare che, comunque, il Ministero avrebbe potuto richiedere il parere ad altro organo consultivo ai sensi dell’art. 17 della l. n. 241 del 1990.

6.3. Anche questo motivo è infondato.

6.4. L’appellante trascura che, dopo il parere obbligatorio dell’ICRAM, è stato necessario richiedere il parere della Commissione consultiva centrale, di cui si è detto, e poi attendere la registrazione del decreto, che ha dichiarato lo stato di calamità, da parte della Corte dei Conti, che ha restituito il decreto il 29 gennaio 2009, dopo aver richiesto il 31 ottobre 2008 alcuni documenti.

6.5. Poco più di un mese dopo, e dunque pressoché tempestivamente, il 6 marzo 2009 il decreto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

6.6. Non si ravvisa in ciò alcuna negligenza inescusabile o inerzia ingiustificata in capo al Ministero, che ha osservato correttamente tempi e scansioni procedimentali anche in questa ultima fase dell’ iter procedimentale.

6.7. Di qui l’infondatezza anche del terzo e ultimo motivo in esame.

7. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve essere respinto in tutti e tre i suoi motivi, con la conseguente conferma della sentenza impugnata e reiezione di tutte le domande, annullatorie e risarcitorie, proposte nel presente giudizio.

8. Le spese del presente grado del giudizio, attesa la complessità della vicenda, possono essere interamente compensate tra le parti.

8.1. Rimane definitivamente a carico dell’appellante il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame.

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