Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-02-08, n. 201600486

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-02-08, n. 201600486
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201600486
Data del deposito : 8 febbraio 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 03300/2015 REG.RIC.

N. 00486/2016REG.PROV.COLL.

N. 03300/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 3300 del 2015, proposto da:
S D I, A D I, rappresentati e difesi dagli avv. G A, O A, con domicilio eletto presso Studio Titomanlio in Roma, Via Terenzio, 7;

contro

Soprintendenza Per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento, Ministero Per i Beni e Le Attività Culturali, in persona dei rispettivi legali rappresentanti in carica, tutti rappresentati e difesi dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, sono ope legis domiciliati;
Espropri Italia Srl;

nei confronti di

Mario Dello Iacono;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. della CAMPANIA – Sezione Staccata di SALERNO - SEZIONE II n. 00100/2015, resa tra le parti, concernente risarcimento danni subiti a causa di illegittima occupazione delle aree di proprietà di parte impugnante;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Soprintendenza Per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento e di Ministero Per i Beni e Le Attivita' Culturali;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 gennaio 2016 il Consigliere F T e uditi per le parti l’ Avvocato Abbamonte e l'Avvocato dello Stato Fedeli;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con la sentenza in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale della Campania –Sede di Napoli ha scrutinato –previa riunione dei medesimi – due ricorsi proposti dalla odierna parte appellante Salvatore Dello Jacono ed Antonio Dello Jacono.In particolare, con il ricorso n. 157 del 2012 era stato chiesto l’annullamento della nota MBAC-SBA-SA0015312 del 22.11.2011, con la quale si era disposto il rigetto dell’istanza inoltrata il 13.6.2011 relativamente alla conclusione del procedimento di accordo amichevole per la corresponsione delle indennità di occupazione illegittima ed acquisitiva concernente la proprietà dei ricorrenti, per l’accertamento del diritto alla liquidazione del risarcimento dovuto e di tutte le indennità spettanti anche ai sensi degli artt. 43 e/o 42 bis d.P.R. n. 327/2001, sia a titolo di occupazione legittima che illegittima, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Con il ricorso n. 1357 del 2013 era stato chiesto l’annullamento del decreto n. rep. 332/2012 del 28.11.2012 e 13.1.2013 a firma del Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per i Beni Archeologici, con il quale si era disposta la dichiarazione di pubblica utilità preordinata all’espropriazione degli immobili di proprietà dei predetti originarii ricorrenti e di D J G e D J M, siti in Atripalda alla località Civita, censiti al foglio 1, p.lle 159, 161, 211, 212 e 213, del decreto di espropriazione rep. n. 97/2013 del 10.4.2013 concernente i suddetti beni immobili, dell’avviso prot. n. 4765 del 30.4.2013, recante la comunicazione di immissione nel possesso per il giorno 10.6.2013, nonché per l’accertamento del diritto a percepire, nei limiti della loro quota di comproprietà, il valore effettivo del suolo occupato e mai restituito e ad ottenere il risarcimento dei danni subiti e subendi per l’effettiva apprensione e trasformazione delle aree, calcolando anche l’intervenuta distruzione di tutti i fabbricati esistenti nel periodo di occupazione dei suoli, oltre che per la condanna dell’amministrazione alla corresponsione delle somme richieste per l’occupazione dal 1975 alla data del rinnovato esproprio, oltre interessi legali e rivalutazione fino al soddisfo, nonché per l’accertamento del diritto alla corresponsione del premio dovuto per il rinvenimento dei resti archeologici come risultanti dai diari di scavo in possesso dell’amministrazione.

Quanto al primo mezzo (n. 157/2012) i sigg. D J S e D J A, avevano fatto presente di aver impugnato con precedente ricorso il decreto del 24.4.2009, con il quale il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali aveva disposto, ex art. 43 d.P.R. n. 327/2001, l’acquisizione sanante dell’area edificatoria di circa mq. 24.000 sita in Atripalda, alla località Civita, di proprietà degli stessi ed interessata fin dal 1975 dall’occupazione d’urgenza disposta dall’intimata amministrazione a seguito del rinvenimento di reperti archeologici.

La prima ordinanza di occupazione d’urgenza e le successive proroghe erano state annullate in sede giurisdizionale ma , nonostante gli annullamenti, il Ministero aveva prorogato ulteriormente l’originaria occupazione di anno in anno, finché nel 1988 non era intervenuto il decreto di riedizione della dichiarazione di pubblica utilità, mai attuato ed ugualmente annullato dal T.A.R., così come i successivi decreti ministeriali di proroga dell’occupazione (l’ultimo dei quali intervenuto in data 8.9.1997).

Essi avevano fatto presente di aver altresì convenuto innanzi al Tribunale di Napoli il Ministero dei BB.CC.AA. per responsabilità da atto illecito, in quanto, nelle more delle ripetute proroghe dell’occupazione e della dichiarazione di pubblica utilità dei suoli di loro proprietà, tutte come già detto annullate in sede giurisdizionale dall’adito T.A.R., era intervenuta (nell’anno 1979) la modifica del P.R.G. con la eliminazione della vocazione edificatoria dei suoli e la classificazione dell’area come destinata a Parco Archeologico, che precludeva la possibilità di realizzare i fabbricati assentiti dal Sindaco di Atripalda fin dal 1974: il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 14374/2001, parzialmente riformata dalla Corte di Appello con la sentenza n. 443/2004, aveva condannato quindi l’amministrazione al risarcimento dei danni subiti sia per tutte le spese sostenute per ottenere le licenze edilizie ed avviare i lavori sia per il lucro cessante, commisurato alla perdita dei canoni di locazione dalla presumibile data di ultimazione dei lavori, così come al pagamento dell’indennità di occupazione fino al 1998 (data di intervento del decreto di esproprio, poi annullato dal T.A.R.).

Il T.A.R. di Salerno a sua volta, con la sentenza n. 393 del 26.3.2008, aveva annullato la dichiarazione di pubblica utilità, le successive proroghe ed il decreto di esproprio del 1998.

Il Ministero, quindi, aveva adottato e notificato il decreto del 25.2.2009, disponente l’acquisizione dei suoli in questione ex art. 43 dpr n. 327/2001 “…al prezzo, già erogato, di euro 16.620.650,09, di cui euro 225.266,41 a titolo di indennità di esproprio ed euro 16.395.384,58 a titolo di risarcimento danni, rivalutazione monetaria, interessi e spese dei giudizi sostenuti nei confronti dell’Amministrazione”.

Avverso il menzionato decreto essi erano nuovamente insorti, dolendosi del fatto che le somme già corrisposte erano imputabili alla perdita dello ius aedificandi (lucro cessante e danno emergente) e, quindi, ad una causa diversa dal trasferimento coattivo, il cui corrispettivo non risultava ancora versato e neppure determinato con le modalità previste dall’art. 43 del dpr n. 327/01: il predetto decreto era stato quindi impugnato nella sola parte in cui non determinava, nei modi stabiliti dal citato art. 43 dpr n. 327/01 il risarcimento del danno derivante dal definitivo trasferimento alla P. A. dei beni in esso considerati, limitandosi a determinare detto risarcimento nella misura stabilita con la sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 443/2004 (in virtù della quale gli originarii ricorrenti avevano ricevuto complessivi € 4.109.338,00), senza considerare che i titoli di attribuzione delle somme liquidate in detta sentenza non comprendevano il risarcimento per trasferimento coattivo ex art. 43 T.U. n. 327/2001, per il quale essi avevano quindi chiesto, con il ricorso predetto, la condanna dell’amministrazione, nonché nella parte in cui non liquidava l’indennità di occupazione, calcolata dal Tribunale di Napoli solo fino al 1998 e mai erogata ma solo depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti (nella misura di € 225.266,41), nonostante l’occupazione fosse iniziata nel 1975 e tuttora perdurasse, indennità per la quale ugualmente essi avevano chiesto una pronuncia di condanna.

Il T.A.R., nell’ambito del suddetto giudizio, aveva disposto una C.T.U. allo scopo di determinare il valore venale dei beni: l’ing. P, all’uopo nominato, aveva concluso le operazioni di stima attribuendo agli immobili il complessivo valore di € 1.107.833,00.

Con la sentenza n. 571 del 31.3.2011 il T.A.R., nel pronunciarsi sul citato ricorso n. 789/2009, aveva tuttavia dichiarato l’improcedibilità dello stesso, essendo stato il predetto decreto già annullato con la sentenza n. 570/2011, in conseguenza dell’intervenuto annullamento dell’art. 43 d.P.R. 327/2001 operato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010, mentre lo aveva ritenuto fondato nella parte in cui veniva lamentata la mancata liquidazione dell’indennità di occupazione per impossibilità di utilizzazione del bene, calcolata dal Tribunale di Napoli solo fino al 1998 e mai erogata, nonostante perdurasse dal 1975: a tal fine il Tribunale Amministrativo, facendo applicazione dell’art. 35 d.lvo n. 80/1998, aveva fissato alle parti il termine di novanta giorni per addivenire ad un accordo sulla somma da corrispondere ai detti originarii ricorrenti, statuendo che essa avrebbe dovuto essere determinata nel rispetto del principio del ristoro integrale del danno subito (Corte cost., n. 949/2007), con riferimento al danno relativo al periodo della sua utilizzazione senza titolo e fino alla sua effettiva restituzione, oltre gli interessi moratori, prescrivendo altresì che “la somma da corrispondere andrà depurata di ogni corresponsione di somme medio tempore eseguita in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria per cui è causa”.

Gli originarii ricorrenti avevano quindi evidenziato che lo stesso decreto in quella sede impugnato - emesso ai sensi dell’art. 43 d.P.R. n. 327/2001- confermava che era stato loro corrisposto l’importo di € 16.395.384,58 a titolo di risarcimento dei danni, come disposto dalla Corte di Appello di Napoli con la sentenza n. 443/2004, mentre l’indennità di esproprio era stata depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti, come ordinato dal Tribunale di Avellino con il decreto n. 2707 del 2.9.1997.

Sia nella perizia dell’ing. P che nella sentenza della Corte di Appello, il valore venale del fondo e della casa colonica era stato scorporato e gli importi liquidati erano solo quelli relativi ai danni, come era dimostrato dal fatto che gli altri due eredi (D J G e D J M) avevano chiesto, in luogo dell’equivalente monetario, la restituzione del bene, che era stata anche riconosciuta dal Commissario ad acta a seguito della sentenza di ottemperanza n. 18/2009.

Con il menzionato ricorso n. 157/2012 si era quindi lamentata l’illegittimità della nota impugnata, con la quale il Ministero intimato aveva affermato che essi “hanno percepito integralmente gli importi risarcitori liquidati dalla Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 443/2004”, che “in esito a detta riscossione hanno rinunciato a tutti i ricorsi presentati innanzi al TAR Campania Sez. Salerno, aventi ad oggetto sia l’annullamento dei decreti di occupazione d’urgenza e delle connesse proroghe, sia della dichiarazione di p.u. a suo tempo formulate dal Ministero in vista dell’espropriazione del compendio immobiliare”, che “le poste risarcitorie liquidate dalla Corte d’Appello con la sentenza n. 443/2004 attengono espressamente al ristoro sia del danno emergente che del lucro cessante conseguenti alla mancata disponibilità e utilizzazione delle aree di proprietà dei germani Dello Iacono”, che non può “essere richiesta alcuna indennità o risarcimento che abbia come presupposto la mancata utilizzazione del fondo” e che “il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 571/2011, pur riconoscendo astrattamente il diritto dei germani Dello Jacono alla percezione di indennità di occupazione, dispone espressamente che le stesse siano in ogni caso depurate di tutte le somme già corrisposte in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria di cui è causa”.

L’amministrazione intimata si era limitata ad affermare che essi “avevano già percepito gli importi risarcitori di cui alla sentenza di appello”, omettendo di considerare che la pronuncia del giudice ordinario aveva ad oggetto la liquidazione del danno emergente e del lucro cessante per la mancata realizzazione degli edifici autorizzati, non l’indennità per l’espropriazione/occupazione acquisitiva, ovvero le somme compensative della perdita della proprietà a seguito della trasformazione irreversibile del fondo e della sua acquisizione per scopi pubblici.

Con il successivo ricorso n. 1357/2013, la odierna parte appellante – nel gravare il decreto n. rep. 332/2012 del 28.11.2012 e 13.1.2013, a firma del Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per i Beni Archeologici, con il quale si era disposta la dichiarazione di pubblica utilità preordinata all’espropriazione degli immobili di proprietà dei medeimi originarii ricorrenti e di D J G e D J M, siti in Atripalda alla località Civita, censiti al foglio 1, p.lle 159, 161, 211, 212 e 213, a ed vverso il decreto di espropriazione rep. n. 97/2013 del 10.4.2013 concernente i suddetti beni immobili ed avverso l’avviso prot. n. 4765 del 30.4.2013, recante la comunicazione di immissione nel possesso per il giorno 10.6.2011 erano state veicolate le censure “centrali” dell’impugnazione.

In particolare, era stato sostenuto che che i beni interessati dal procedimento espropriativo erano sottratti illegittimamente ai proprietari, che il terreno è stato asportato e scavato in ogni dove e i fabbricati rurali sono stati abbattuti.

L’amministrazione intendeva espropriare un compendio detenuto illegittimamente da oltre 40 anni considerandolo un campo incolto, ovvero ad un valore irrisorio di € 3,5/mq, mentre il Tribunale di Napoli aveva fissato una indennità di occupazione di £ 62.000/mq nel 2001, alla quale la Soprintendenza ha prestato acquiescenza.

Un ulteriore vizio di illegittimità discendeva,poi dalla mancata determinazione del risarcimento del danno conseguente all’acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. n 327/2001, essendosi l’amministrazione limitata a quantificare una ridottissima indennità di esproprio, omettendo di verificare in contraddittorio il valore di mercato del bene, già fissato da una C.T.U. e da una sentenza.

Inoltre, era stata dedotta la nullità dei provvedimenti impugnati per violazione ed elusione del giudicato, essendo state le opere già realizzate, analogamente a quanto sancito dal Consiglio di Stato per l’ipotesi in cui il T.A.R. abbia condannato la P.A. ad operare la scelta ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, e peraltro nel caso di specie la Soprintendenza aveva attivato la procedura d’urgenza di cui all’art. 22, come se il bene fosse stato appreso per la prima volta.

Quanto al suolo sul quale avrebbe dovuto essere realizzato il fabbricato assentito con la licenza n. 344, poiché la Corte d’Appello, nel liquidare il risarcimento del danno per indebita sottrazione dello ius aedificandi, aveva ritenuto di non considerarlo, essendo necessario per l’edificazione l’autorizzazione ex artt. 11 e 12 l. n. 1089/1939, era stato chiesto di valutare anche in relazione ad esso il risarcimento del danno per lesione dello jus aedificandi e mancato godimento dei realizzandi appartamenti.

Si era altresì sostenuto che l’atto impugnato era affetto da illegittimità derivata da quella inficiante gli atti da esso richiamati e già annullati in sede giurisdizionale e che erano state omesse le garanzie partecipative, necessarie al fine di distinguere le rispettive posizioni dei singoli proprietari, sul modello dell’espropriazione di beni indivisi ex art. 599 c.p.c..

Il T ha ritenuto prioritario l’esame del ricorso n. 1357/2013 avverso il decreto dichiarativo della pubblica utilità preordinata all’espropriazione degli immobili siti in Atripalda alla località Civita, censiti al foglio 1, p.lle 159, 161, 211, 212 e 213, ed avverso il consequenziale decreto di espropriazione del 10.4.2013, concernente i suddetti beni immobili.

Ciò, in quanto la sussistenza in capo all’amministrazione di un valido titolo di acquisto della proprietà concernente gli immobili di cui si tratta, (in tesi rappresentato dal detto decreto di esproprio) incideva sulla azionabilità della pretesa (fatta principalmente valere con il ricorso n. 157/2012) alla percezione del ristoro per la perdita della proprietà sui medesimi immobili oltre che sul quantum della stessa, così come sulla sua qualificazione giuridica.

A tal proposito, ha anzitutto disatteso l’eccezione di inammissibilità del ricorso nei confronti della società Espropri Italia s.r.l. (era stato eccepito il difetto di legittimazione passiva) in quanto - ad avviso del primo giudice - la detta società, in quanto incaricata dal Ministero intimato della conduzione della procedura ablatoria de qua, rivestiva (quantomeno) la posizione di controinteressata portatrice dell’interesse (anche economicamente rilevante) all’utile espletamento della procedura suindicata.

Nel merito, ha accolto il predetto mezzo n. 1357/2013 sotto l’assorbente profilo della circostanza che il provvedimento espropriativo impugnato aveva ad oggetto beni già sottratti illegittimamente agli originari proprietari ed interessati da cospicui interventi modificativi, consistenti nell’asportazione di terreno, nella esecuzione di opere di scavo dello stesso e nella demolizione dei fabbricati rurali ivi insistenti.

A fronte di tale condizione, la possibilità di emettere un provvedimento di esproprio con riguardo ad un bene immobile già interessato da interventi modificativi posti in essere dall’amministrazione occupante in vista di finalità di pubblico interesse trovava ostacolo insuperabile nel disposto di cui all’art. 42 bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327.

Detta che la norma tracciava un percorso procedimentale obbligato, altrimenti facilmente eludibile (anche nella necessità di motivazione di rilevante spessore, di penalizzazione sotto il profilo risarcitorio, etc) attraverso la reiterazione di più decreti di esproprio, in tempi diversi, l’uno sostitutivo del precedente annullato.

Né apparivano –ad avviso del primo giudice- accoglibili le contrarie deduzioni della società Espropri Italia s.r.l., che, in considerazione della irrinunciabilità da parte dello Stato della tutela del patrimonio archeologico, non sarebbe stata ammissibile la valutazione di opportunità presupposta dalla norma citata circa l’acquisizione del bene o la sua restituzione al proprietario.

In contrario senso, il T ha osservato che lo Stato poteva decidere di perseguire i suoi indeclinabili scopi di salvaguardia dei beni archeologici, pur permanendone la proprietà in capo ai privati, avvalendosi delle disposizioni di tutela all’uopo contemplate dal d.lvo n. 42/2004 (risultando quindi non assolutamente necessaria la scelta ablatoria).

Era inoltre irrilevante, irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma citata (e la connessa preclusione dell’ordinario procedimento espropriativo), il carattere irreversibile delle modifiche apportate al bene privato durante il periodo di occupazione, ed essendo anzi la reversibilità della trasformazione una delle condizioni per il compimento della scelta restitutoria.

Indiretta conferma di tale approdo, peraltro, si rinveniva nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 544 del 29.1.2013, con la quale, con riferimento alla posizione dei comproprietari e germani degli odierni appellanti (sig.ri D J G e D J M), era stato affermato che “il Ministero resta titolare del potere di emettere un ulteriore decreto di acquisizione, ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (come modificato a seguito della richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010)”.

E non si era fatto cenno alla possibilità di reiterare una “nuova” procedura espropriativa “ordinaria”.

Alla stregua di tali assorbenti considerazioni, il ricorso n. 1357/2013 è stato accolto nel petitum demolitorio,mentre il petitum risarcitorio ivi contenuto è stato esaminato dal T unitamente al mezzo n. 157/2012.

Passando allo scrutinio di tale mezzo in ultimo citato, il T ha rammentato che esso era volto ad avversare la

lamentano che, nonostante il giudice amministrativo di primo grado, con la sentenza n. 571 del 31.3.2011, abbia ritenuto fondata la domanda intesa al conseguimento dell’indennità di occupazione per l’impossibilità di utilizzazione del bene, calcolata dal Tribunale civile solo fino al 1998 e mai erogata, nonostante l’occupazione perduri dal 1975, fissando alle parti, ex art. 35 d.lvo n. 80/1998, il termine di novanta giorni per addivenire ad un accordo sulla somma da corrispondere al suddetto titolo, l’amministrazione intimata, con la nota impugnata nota MBAC-SBA-SA0015312 del 22.11.2011 essenzialmente per una ragione.

Si lamentava infatti che - nonostante il giudice amministrativo di primo grado, con la sentenza n. 571 del 31.3.2011, avesse ritenuto fondata la domanda intesa al conseguimento dell’indennità di occupazione per l’impossibilità di utilizzazione del bene ( calcolata dal Tribunale civile solo fino al 1998 e mai erogata, nonostante l’occupazione perdurasse dal 1975) fissando alle parti, ex art. 35 d.lvo n. 80/1998, il termine di novanta giorni per addivenire ad un accordo sulla somma da corrispondere al suddetto titolo, l’amministrazione intimata, con la detta nota impugnata, aveva reso affermazioni distoniche dallo stato dei fatti.

Ivi, infatti, era stato affermato essi “hanno percepito integralmente gli importi risarcitori liquidati dalla Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 443/2004”, che “in esito a detta riscossione hanno rinunciato a tutti i ricorsi presentati innanzi al T.A.R. Campania Sez. Salerno, aventi ad oggetto sia l’annullamento dei decreti di occupazione d’urgenza e delle connesse proroghe, sia della dichiarazione di p.u. a suo tempo formulate dal Ministero in vista dell’espropriazione del compendio immobiliare”, che “le poste risarcitorie liquidate dalla Corte d’Appello con la sentenza n. 443/2004 attengono espressamente al ristoro sia del danno emergente che del lucro cessante conseguenti alla mancata disponibilità e utilizzazione delle aree di proprietà dei germani Dello Jacono”, che non può “essere richiesta alcuna indennità o risarcimento che abbia come presupposto la mancata utilizzazione del fondo” e che “il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 571/2011, pur riconoscendo astrattamente il diritto dei germani Dello Jacono alla percezione di indennità di occupazione, dispone espressamente che le stesse siano in ogni caso depurate di tutte le somme già corrisposte in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria di cui è causa”.

Nel contestare tali affermazioni, l’odierna parte appellante aveva quindi richiesto la liquidazione ed il pagamento dell’indennità per l’espropriazione/occupazione acquisitiva, ovvero le somme compensative della perdita della proprietà a seguito della trasformazione irreversibile del fondo e della sua acquisizione per scopi pubblici, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Il T, rilevato che il disposto annullamento, in accoglimento del ricorso n. 1357/2013, del provvedimento ablatorio da ultimo adottato dall’amministrazione intimata, privava quest’ultima di ogni legittimo titolo di acquisizione dell’area de qua, ha rammentato che a seguito dei pronunciamenti CEDU doveva muoversi dal principio per cui la realizzazione di un'opera pubblica su un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, costituiva un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto.

E non risultando adottato, nella fattispecie in esame, alcun valido atto acquisitivo da parte del Ministero intimato (e non essendosi pertanto verificato l'effetto traslativo della proprietà in capo ad esso, non potendo un fatto illecito, quale è l'irreversibile trasformazione dell'area, operata in violazione delle norme sul procedimento espropriativo, configurare un modo di acquisto della proprietà) doveva concludersi che l'illiceità del comportamento dell'amministrazione legittimava parte appellante tuttora proprietaria del suolo occupato, a chiederne la restituzione, (come del resto avvenuto (nelle more dell’adozione del citato provvedimento espropriativo nei confronti degli altri comproprietari).

Conseguiva da ciò che nessun risarcimento, conseguente alla perdita della proprietà del suolo occupato e correlato nell’importo al suo valore effettivo, era stato predicabile, non essendosi l’evento lesivo predetto mai definitivamente verificato.

Il T ha però poi affermato la propria volontà di soffermarsi ugualmente sulla spettanza di un credito risarcitorio avente ad oggetto il valore venale dell’area de qua, anche al fine di prevenire eventuali ulteriori appendici contenziose nell’ipotesi di esercizio del suddetto potere acquisitivo da parte dell’ amministrazione.

Ed ha in proposito rammentato che gli odierni appellanti avevano già vittoriosamente agito in sede giudiziale (ordinaria) al fine di ottenere il risarcimento del danno commisurato al valore del compendio immobiliare di loro proprietà, determinato alla luce della sua originaria vocazione edificatoria e degli ipotetici risultati della sua esplicazione, conformemente ai progetti edilizi assentiti dalla pubblica amministrazione ( stralci della sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 443/2004, riportati nell’atto di ricorso).

Dalla sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 443/2004, risultava che il danno emergente (ovvero la perdita di valore patrimoniale) derivante dall’illecito consumato dall’amministrazione mediante l’occupazione e trasformazione della proprietà in carenza di un valido titolo espropriativo era stato quantificato senza tenere conto del valore del fondo (pari a £ 436.176.600), espressamente sottratto, insieme ad altre voci (quali il costo complessivo di realizzazione della costruzione), dal valore del patrimonio immobiliare complessivo, costituito dai tre condomini che sarebbero stati realizzati qualora parte proprietaria avesse potuto esplicare le facoltà edificatorie.

Ad avviso del T, doveva ritenersi che il valore del suolo fosse stato scomputato, nell’operazione liquidatoria effettuata dal giudice civile, perché inerente ad una posta patrimoniale ancora (fino, cioè, alla formale acquisizione da parte dell’amministrazione) di pertinenza di parte appellante,e che essa quindi integrasse tuttora un bene meritevole di ristoro, nell’ipotesi di apprensione autoritativa da parte dell’amministrazione.

Non era invece sostenibile che lo scomputo del valore del suolo da quello del compendio patrimoniale “ipotetico” trovasse spiegazione nel fatto che esso avrebbe concorso, nell’ipotesi di effettivo esercizio dello ius aedificandi da parte dei proprietari, al pari del costo di costruzione, ad integrare i mezzi necessari per la realizzazione degli edifici residenziali, non potendosene quindi tenere conto in sede risarcitoria (secondo il principio della compensatio lucri – sotto specie di risparmio di spesa - cum damno): il suolo non costituiva infatti l’oggetto di una spesa che i proprietari, non avendo potuto esercitare i loro diritti edificatori, avevano evitato di sostenere (come sarebbe stato se essi avessero dovuto acquistarlo ex novo), ma un bene di cui erano già titolari, non vanificabile quindi, nel suo valore patrimoniale, in sede di liquidazione risarcitoria del predetto danno emergente.

Né il valore del suolo poteva “evaporare”, sul piano patrimoniale, ipotizzando che, per effetto della sua trasformazione in chiave edificatoria (di carattere ipotetico, per quanto detto), esso sarebbe divenuto “altro” rispetto alla sua identità originaria: con la conseguenza che, una volta accordato il risarcimento del danno per la mancata attuazione del programma residenziale, non residuerebbe alcun autonomo valore del suolo, suscettibile di ristoro nell’ipotesi di definitiva acquisizione dello stesso da parte dell’amministrazione.

La detta tesi, non era rilevante ai fini del decidere (ovvero al fine di stabilire, pur dopo la citata sentenza civile, la persistenza di un autonomo valore del suolo, da ristorare nell’ipotesi di sua apprensione autoritativa): essa ad avviso del T non elideva invero la circostanza decisiva della espressa sottrazione del valore del suolo da quello del complesso residenziale operata dal giudice civile in sede di quantificazione del risarcimento del danno, la quale non avrebbe avuto ragion d’essere se il giudice civile avesse considerato il suolo come trasformato e incorporato negli immobili residenziali il cui valore aveva posto a base del risarcimento ed impone anzi l’esigenza di ristorare i proprietari, pur nei limiti che saranno tra breve precisati, nell’ipotesi di definitiva perdita dei loro diritti dominicali sull’area.

Inoltre l’opzione risarcitoria già utilmente esperita da parte appellante non era suscettibile di assumere valenza abdicativa dei loro diritti dominicali, sia perché ne era rimasto fuori il valore del suolo), sia per i principi Cedu (sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo 30 maggio 2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera) per cui l’opzione risarcitoria perseguita non produceva effetti abdicativi.

Il T ha quindi affermato che, qualora l’amministrazione intimata dovesse ritenere di avvalersi del meccanismo acquisitivo di cui all’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, essa avrebbe dovuto tenere conto e soddisfare i diritti risarcitori degli originarii ricorrenti, correlati al valore del fondo illecitamente occupato ed utilizzato per le sue finalità.

Nel fare ciò, essa non potrebbe comunque non depurare quel valore del quid pluris connesso all’originaria vocazione edificatoria della proprietà, la cui esplicazione (sebbene ipotetica) era già stata risarcita a favore dei suddetti, a pena di indebita duplicazione del quantum risarcitorio: in tale (limitato) senso doveva essere intesa ed applicata –ad avviso del primo giudice- la precisazione, contenuta nella sentenza del giudice di appello n. 544/2013, secondo cui l’amministrazione, nell’adottare un nuovo decreto acquisitivo, “dovrà tenere conto delle somme già corrisposte in precedenza in base a titoli di acquisto giuridicamente divenuti irrilevanti o comunque finalizzate all’acquisto dell’area, anche in esecuzione di sentenze”.

In particolare, non l’Amministrazione che avesse deciso di agire ex art. 42bis, non avrebbe potuto –né dovuto- assumere, quale parametro di riferimento per la determinazione del ristoro relativo alla perdita della proprietà del suolo, il valore dello stesso così come quantificato dal c.t.u. (ing. Luigi P) nell’ambito del giudizio amministrativo conclusosi con la sentenza n. 571/2011, pari ad € 1.107.883,00.

Esso infatti risultava ispirato ad una ipotetica attitudine edificatoria dei suoli de quibus ma ciò contrastava - oltre che con la destinazione urbanistica ormai impressa (quantomeno a far data dal 1979, attoree) dallo strumento urbanistico generale del Comune di Atripalda- con il già avvenuto risarcimento conseguito per il danno derivante dalla mancata realizzazione dell’attività edilizia programmata.


Per analoghe ragioni doveva essere ugualmente respinta, allo stato –ad avviso del T- l’analoga domanda, formulata con il ricorso n. 1357/2013, avente ad oggetto il risarcimento dei danni per l’effettiva apprensione e trasformazione delle aree ( ancora di proprietà pro quota degli originarii ricorrenti) calcolando anche l’intervenuta distruzione di tutti i fabbricati esistenti nel periodo di occupazione dei suoli.

E comuqnue, sotto tale ultimo profilo, peraltro, il T ha osservato che non era neppure dimostrato che i manufatti asseritamente distrutti non sarebbero stati sostituiti da quelli assentiti con le citate concessioni edilizie, con il conseguente assorbimento del loro valore in quello del patrimonio immobiliare valutato dal giudice civile e posto a fondamento della condanna risarcitoria già inflitta all’amministrazione.

In ultimo, il T ha scrutinato le ulteriori ed accessorie domande di parte appellante.

E’ stata per prima esaminata la domanda con la quale parte appellante aveva chiesto la quantificazione e corresponsione dell’”indennità per il periodo di occupazione legittima ed illegittima”, a fronte presumibilmente (anche se non esplicitamente) del danno correlato alla transitoria perdita della disponibilità del suolo de quo per effetto della sua occupazione da parte dell’amministrazione intimata, nelle more della sua restituzione ai proprietari (o della sua definitiva acquisizione da parte della stessa amministrazione).

Il T ha premesso che trattavasi (anch’esso) di petitum formalmente estraneo (almeno per il periodo successivo al 1998) alla portata decisoria delle citate sentenze civili, come peraltro già riconosciuto dal T con la sentenza n. 571/2011, con la quale erano stati indicati anche i criteri cui attenersi nella quantificazione dell’importo da corrispondere al suddetto titolo (nel senso che esso avrebbe dovuto essere determinato “nel rispetto del principio del ristoro integrale del danno subito -Corte cost., n. 949/2007-, con riferimento al danno relativo al periodo della sua utilizzazione senza titolo e fino alla sua effettiva restituzione, oltre gli interessi moratori”) pur prescrivendosi che “la somma da corrispondere andrà depurata di ogni corresponsione di somme medio tempore eseguita in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria per cui è causa”.

In proposito, il T ha osservato che, non avendo le parti raggiunto alcun accordo sul quantum del risarcimento, la detta formula non poteva essere applicata in maniera indiscriminata, ovvero prescindendo da un rapporto di omogeneità tra la voce risarcitoria/indennitaria da liquidare e quella già giudizialmente riconosciuta: ne conseguiva che né il già riconosciuto e liquidato risarcimento del danno da perdita del valore patrimoniale subito dagli originarii ricorrenti, né quello relativo al danno emergente (temporalmente limitato, nel dies ad quem, fino al gennaio 1998, data della nuova procedura espropriativa, caducata da questo Tribunale con la sentenza n. 393 del 26.3.2008), avrebbero potuto assumere rilievo ostativo all’accoglimento della domanda.

Senonchè, parte appellante non aveva –ad avviso del T- allegato gli elementi necessari, nel rispetto del principio dispositivo, per effettuare la valutazione non concordemente operata.

Né poteva opporsi che il giudizio aveva ad oggetto la quantificazione di una voce risarcitoria sul cui an si era già pronunciato il Tribunale con la sentenza n. 571/2011, in mancanza di accordo delle parti sul punto: ciò in quanto, considerata la mancata formulazione di puntuali criteri di liquidazione mediante la sentenza citata, ad eccezione del precetto di massima secondo cui deve assicurarsi il “ristoro integrale del danno subito”, ad avviso del T sarebbe spettato alla odierna parte appellante, proprio in virtù della correlazione instaurata dalla sentenza citata con il pregiudizio effettivamente subito, offrire congrue allegazioni, assertive e probatorie, in relazione a quest’ultimo.

Non poteva soccorrere, in proposito, neppure il criterio legale di cui all’art. 42 bis, comma 3, secondo periodo d.P.R. n. 327/2001: non v’era ancora stata l’adozione del provvedimento acquisitivo sanante;
e neppure –come in precedenza chiarito- poteva assumersi, quale parametro di riferimento per la determinazione del ristoro (da illecita utilizzazione da parte dell’amministrazione del fondo altrui) ai sensi della disposizione citata, il valore del suolo risultante dalla relazione di c.t.u. redatta dall’ing. Luigi P.

Anche ammesso che la domanda testualmente indennitaria (come tale, esulante anche dalla giurisdizione amministrativa) potesse essere qualificata in chiave risarcitoria, la suddetta voce di danno, rapportata alla mancata utilizzazione del fondo da parte dei proprietari, non poteva prescindere dalla vocazione urbanistica (Parco Archeologico) posseduta dall’area interessata nel periodo dell’illecita occupazione.

Neppure poteva farsi leva sulla citata sentenza della Corte di Appello di Napoli, con la quale il risarcimento del danno emergente (rappresentato dalla mancata percezione dei canoni di locazione che sarebbero stati prodotti dalle unità abitative progettate e non realizzate per il fatto illecito dell’amministrazione) era stato limitato al periodo antecedente l’esproprio del 1998 (poi, come si è detto, caducato dal T.A.R. con la sentenza n. 393/2008), per riconoscere eventualmente il risarcimento del danno, quantificato secondo analoghe modalità e criteri, per il periodo successivo al 1998, in conseguenza della rimozione giudiziale dell’evento ablatorio del 1998: doveva infatti considerarsi –secondo il T- che nessuna espressa domanda in tal senso, a prescindere dalla sua fondatezza, era stata formulata dagli originarii ricorrenti, che si erano limitati genericamente a richiedere l’”indennità da occupazione legittima ed illegittima”.

La domanda predetta, introdotta con il ricorso n. 157/2012, è stata dichiarata allo stato, per la sua genericità, inammissibile.

Ed analoga sorte il T ha riservato a quella - formulata con il ricorso n. 1357/2013- avente ad oggetto la condanna dell’amministrazione alla corresponsione delle somme richieste per l’occupazione dal 1975 alla data del rinnovato esproprio.

Ha in proposito osservato che peraltro, per gli anni 1975-1998, erano stati gli stessi odierni appellanti, con il ricorso n. 157/2012, ad evidenziare che l’occupazione dell’amministrazione era già stata indennizzata per effetto della citata sentenza del Tribunale Civile di Napoli, mentre il mancato effettivo pagamento del relativo importo non poteva costituire oggetto del giudizio di merito in primo grado.

Il T ha dichiarato di volere prescindere dall’annullamento della nota MBAC-SBA-SA0015312 del 22.11.2011, con la quale si era disposto il rigetto dell’istanza inoltrata dai ricorrenti il 13.6.2011 ai fini della conclusione del procedimento di accordo amichevole scaturito dalla sentenza n. 571/2011: essa infatti, pur contrastante nel contenuto con i rilievi in precedenza svolti (sotto il profilo del carattere non esaustivo del risarcimento del danno già riconosciuto in sede civile), non possedeva carattere autoritativo e non era suscettibile di pregiudicare il soddisfacimento dei diritti risarcitori.

In ultimo, il T ha dichiarato inammissibile, la domanda, contenuta nel ricorso n. 1357/2013, volta a conseguire la corresponsione del premio dovuto per il rinvenimento dei resti archeologici come risultanti dai diari di scavo in possesso dell’amministrazione: la natura di interesse legittimo vantato ostava all’adozione di una pronuncia di condanna al pagamento del premio.

Conclusivamente, il T ha respinto allo stato i ricorsi relativamente alla domanda di condanna al pagamento del risarcimento del danno commisurato al valore della proprietà degli originarii ricorrenti, ha dichiarato inammissibili i ricorsi, relativamente alla domanda di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione ha dichiarato del pari inammissibile il ricorso n. 1357/2013, relativamente alla domanda di condanna al pagamento del premio per i ritrovamenti archeologici, ha accolto il ricorso n. 1357/2013, relativamente alla domanda di annullamento del decreto n. rep. 332/2012 del 28.11.2012 e 13.1.2013 a firma del Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per i Beni Archeologici, del decreto di espropriazione rep. n. 97/2013 del 10.4.2013 e dell’avviso prot. n. 4765 del 30.4.2013.

La originaria parte ricorrente, rimasta parzialmente soccombente, ha impugnato la detta decisione criticandola, nella parte in cui essa non aveva provveduto a determinare e quantificare la posta risarcitoria dovuta per il periodo di “occupazione legittima ed illegittima” e riprospettando “per quanto occorrere possa” i motivi di censura di primo grado.

Mercè tre distinti motivi di ricorso ha in proposito sostenuto che essa aveva soddisfatto l’onere del “principio di prova” depositando le perizie disposte dalle varie Autorità giurisdizionali (Ordinarie ed Amministrative) che erano intervenute nel risalente e protratto contenzioso, e che il primo giudice avrebbe agevolmente potuto fare ricorso ad una eventuale CTU integrativa, ove non avesse ritenuto esaustiva la documentazione versata in atti.

Con memoria depositata il 19.12.2015 parte appellante ha ribadito e puntualizzato le proprie doglianze.

Alla odierna pubblica udienza del 21 gennaio 2016 la causa è stata posta in decisione dal Collegio

DIRITTO

1.L’appello è infondato e va disatteso nei sensi di cui alla motivazione che segue.

1.1.Prima di affrontare le tematiche devolute alla cognizione del Collegio appare utile perimetrare gli argomenti oggetto di scrutinio che –si ritiene di precisare immediatamente – sono di portata assai più contenuta rispetto a quelli che il primo giudice ha ritenuto di dovere esaminare.

1.1.1. Tenuto conto della statuizione dispositiva contenuta nella sentenza, infatti, e della strutturazione dell’atto di appello -nell’ambito del quale sono stati riproposti senza ulteriore specificazione (“nei limiti in cui si debbano ritenere non accolti in primo grado”: pag. 15 del ricorso in appello) i motivi del mezzo di primo grado – ritiene il Collegio di affermare quanto segue.

1.1.2. Innanzitutto, è principio consolidato in giurisprudenza quello per cui l’atto di appello debba contenere una partita critica alla decisione di primo grado, nello sviluppo logico e giuridico della motivazione ivi contenuta.

La riproposizione integrale dei motivi è consentita unicamente nel caso di assorbimento degli stessi da parte del primo giudice: non certo nel caso di specifica pronuncia sugli stessi.

E’ agevole riscontrare che la decisione di primo grado non ha assorbito alcunché, e che anzi –per espressa ammissione del T, al lodevole fine di disinnescare la possibilità di un ulteriore contenzioso tra le parti (intenzione questa però che, purtroppo, non ha raggiunto lo scopo prefissosi, come testimoniato dall’odierno appello)- si è proceduto ad una disamina che si sarebbe anche potuta omettere (avuto riguardo all’esito accoglitivo del ricorso n 1357/2013).

Ne consegue che tutti i motivi di appello riproduttivi dei motivi di primo grado sono inammissibili, in quanto intervengono su profili già oggetto di pronuncia ed in carenza di una specifica critica all’iter logico e giuridico della gravata decisione.

1.1.3. Va rilevato peraltro che, in ogni caso, parte appellante non avrebbe alcun interesse alla proposizione di dette censure.

Ciò in quanto la statuizione del T è pervenuta:

a)quanto all’originario ricorso n. 1357/2013, ad una statuizione demolitoria integrale (con portata assorbente sugli altri motivi di censura dedotti) in accoglimento della prima e più radicale censura proposta dall’appellante, e che detta statuizione demolitoria spiega efficacia conformativa anche per le future determinazioni dell’Amministrazione, essendosi ivi chiarito che non vi può essere riedizione di alcuna procedura ablatoria “ ordinaria” e che quindi, in sostanza, l’Amministrazione potrà unicamente scegliere tra l’alternativa di restituire il fondo, e quella di divenirne proprietaria attraverso la stipula di un ordinario contratto di compravendita e/o mercè provvedimento ex 42 bis del TU Espropriazione;

b)anche con riferimento al ricorso n. 157/2012 sono state rese statuizioni largamente accoglitive delle pretese di parte appellante, sebbene non si sia pervenuti ad un formale accoglimento del mezzo.

1.2. In sostanza il T, annullati gli atti gravati con l’ originario ricorso n. 1357/2013, ha dato atto del fatto che nessun valido esproprio era mai intervenuto sull’area, e che quindi parte appellante è ancora proprietaria dell’area medesima, e soltanto a fini preventivi ed orientativi ha dettato i criteri cui dovrà attenersi l’amministrazione per il ristoro del valore del suolo medesimo ove ne voglia divenire proprietaria.

Ha quindi affermato che i precedenti esborsi dell’Amministrazione non ricomprendevano il valore del suolo (così interpretando il decisum contenuto nella sentenza della Corte di Appello);

che ove l’Amministrazione in futuro emettesse provvedimento ex art. 42 bis avrebbe dovuto corrispondere il valore del suolo;
che la potenzialità edificatoria di quest’ultimo era però già stata liquidata dalla Corte di Appello (per cui la futura indennità da corrispondere avrebbe dovuto essere depurata di tale plusvalore) che ciò comprendeva anche gli immobili preesistenti sul suolo (con riferimento alla dedotta intervenuta distruzione di tutti i fabbricati esistenti nel periodo di occupazione dei suoli, “non è dimostrato che i manufatti asseritamente distrutti non sarebbero stati sostituiti da quelli assentiti con le citate concessioni edilizie, con il conseguente assorbimento del loro valore in quello del patrimonio immobiliare valutato dal giudice civile e posto a fondamento della condanna risarcitoria già inflitta all’amministrazione”).

Su tali capi non v’è censura specifica, e sui medesimi si è formato il giudicato.

2. Il T ha invece dichiarato inammissibili le domande risarcitorie contenute nei due ricorsi di primo grado.

2.1. Quanto a tale profilo, l’appellante ha rivolto le proprie censure (vedasi l’epigrafe del corrispondente primo motivo di appello) sia alla “negata verifica del dovuto valore dell’area” che “dell’indennità di occupazione illegittima”.

Viene quindi in primo luogo in rilievo la domanda tesa ad ottenere il ristoro della occupazione illegittima protrattasi negli anni in ordine alla quale il T ha rammentato che il giudice amministrativo di primo grado, con la precedente sentenza n. 571 del 31.3.2011, aveva ritenuto fondata la domanda intesa al conseguimento dell’indennità di occupazione per l’impossibilità di utilizzazione del bene, (calcolata dal Tribunale civile solo fino al 1998 e mai erogata, nonostante l’occupazione perdurasse dal 1975).

Secondariamente, viene in rilievo quella articolata in seno all’originario ricorso n. 1157/2013 avente ad oggetto la condanna dell’amministrazione alla corresponsione delle somme richieste per l’occupazione dal 1975 alla data del rinnovato esproprio.

2.2. La seconda domanda (articolata in seno all’originario ricorso n. 1157/2013) è stata dichiarata inammissibile dal T per due ragioni: perché essa, da un canto, era una duplicazione di quella articolata nell’ambito del mezzo n. 157/2012 e perché essa, per altro verso, e quanto al periodo 1975/1998 non aveva fondamento in quanto “per gli anni 1975-1998, sono stati gli stessi ricorrenti, con il ricorso n. 157/2012, ad evidenziare che l’occupazione dell’amministrazione è già stata indennizzata per effetto della citata sentenza del Tribunale Civile di Napoli, mentre il mancato effettivo pagamento del relativo importo non può evidentemente costituire oggetto del presente giudizio”.

Tale specifico articolato –oltre che immune da mende – non è stato oggetto di alcuna censura ed integra giudicato.

2.3. La specifica censura di cui al primo motivo di appello, invece, attiene alla reiezione della domanda risarcitoria articolata in seno al mezzo n. 157/2012.

3. Osserva il Collegio quanto segue.

3.1. Come si è cercato sinora di chiarire, nella congerie di domande proposte da parte appellante il T ha reso alcune statuizioni che costituiscono altrettanti punti fermi della odierna causa.

Segnatamente il T ha stabilito che:

a)quanto al valore venale del suolo, esso dovesse essere valutato qual suolo agricolo, in quanto l’attitudine edificatoria dello stesso era già stata indennizzata dalla Corte di Appello, che aveva però, appunto, scorporato il valore del suolo;
per altro verso, non potevano essere oggetto di indennizzo i fabbricati preesistenti sul suolo, e demoliti;

b)il compendio risarcitorio per la occupazione sine titulo, non poteva che essere rapportato a tale valore di partenza (id est: valore agricolo del suolo).

3.2. Parte appellante, ha proposto in primo grado una serie di domande, tutte fondate (vedasi gli specchietti riepilogativi di cui alle pagg. 7, 8 e 9 dell’appello) su una precedente CTU, che tuttavia forniva dei dati rapportati a parametri diversi (id est: valutazione del fondo riferita alla potenzialità edificatoria).

Il T ha chiarito la ragione per cui il valore del suolo (dato, questo, fondamentale dal quale si doveva partire, ancorchè allo stato, in carenza di alcun provvedimento ex art. 42 bis del TUEspropriazione la questione della erogazione del controvalore a parte appellante non sia attuale) di cui alla stima contenuta nella “perizia P” non fosse attendibile (ed anche sotto tale specifico aspetto non sono state articolate dirette censure).

Tale stima non lo era, non già in se e per se considerata, ma perché occorreva depurare il compendio risarcitorio da quanto già ricevuto da parte appellante in relazione alla già computata e risarcita attitudine edificatoria del suolo.

3.2.1. Alla stregua di quanto rilevato, è evidente che il T non avrebbe potuto ( né dovuto) intraprendere un’opera di (inammissibile, per quanto di seguito si dirà) “supplenza” probatoria, disponendo consulenza tecnica ex novo, al fine di accertare il valore dei terreni cui ragguagliare la richiesta indennità.

3.2.2. Non giova, a parte appellante l’insistito richiamo al “principio dispositivo con metodo acquisitivo” (cui avrebbe dovuto, a suo dire, rifarsi il T).

Non si tratta, nel caso di specie, di avversare una statuizione del T che si sarebbe “discostata” dai valori di una perizia in atti, che comunque costituiva “principio di prova” (come risulterebbe dall’insistito richiamo di parte appellante al disposto dell’art. 64 del cpa, ed al “principio dispositivo con metodo acquisitivo” in ultimo richiamato a pag. 12 della memoria di discussione).

Come è noto, tale deroga al disposto di cui all’art. 2697 CC, che si “giustifica” nel c.d. “criterio di maggiore vicinanza alla prova”, non trova applicazione in materia di diritti soggettivi, e men che mai in relazione al petitum risarcitorio.

Tale principio costituisce jus receptum ed è sempre stato predicato dalla giurisprudenza anche di merito (ancora di recente: T.A.R. Parma, -Emilia-Romagna-, sez. I, 27/02/2015, n. 63 “l'azione risarcitoria innanzi al giudice amministrativo non è retta dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, tipica del processo impugnatorio, bensì dal generale principio dell'onere della prova ex artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., per cui sui ricorrenti grava l'onere di dimostrare la sussistenza di tutti i presupposti della domanda al fine di ottenere il riconoscimento di una responsabilità dell'Amministrazione per danni derivanti dall'illegittimo od omesso svolgimento dell'attività amministrativa di stampo autoritativo, da ricondurre al modello della responsabilità per fatto illecito delineata dall'art. 2043 cod. civ., donde la necessità di verificare, con onere della prova a carico del (presunto) danneggiato, gli elementi costitutivi della fattispecie aquiliana, così individuabili: a) il fatto illecito;
b) l'evento dannoso ingiusto ed il danno patrimoniale conseguente;
c) il nesso di causalità tra il fatto illecito ed il danno subito;
d) la "colpa" dell'apparato amministrativo, dovendosi individuare, anche in tema di responsabilità della p.a. da attività amministrativa illegittima, l'elemento soggettivo (colpa oppure dolo) richiesto dall'art. 2043 c.c.”).

Anche il giudice d’appello ha affermato tali principi (ex aliis Consiglio di Stato sez. V 10 febbraio 2015 n. 675 e Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 28/01/2015, n. 73 “ai fini della liquidazione dei danni assertivamente provocati dall'illegittimo esercizio del potere amministrativo l'interessato è tenuto a fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, trovando piena applicazione in materia il principio dell'onere della prova e non invece l'onere del principio di prova di cui al metodo acquisitivo che ordinariamente nelle controversie su interessi legittimi tempera il criterio dispositivo ex art. 2697 c.c.”, pienamente condivisi, come si è visto, dalla giurisprudenza di merito ).

3.2.3. Ciò sarebbe già sufficiente a respingere il mezzo, incentrato unicamente su tale prospettazione.

3.2.4. Nel caso di specie, va inoltre rilevato che neppure le critiche appellato rie si attagliano alla fattispecie concreta: nella odierna causa, infatti, si tratta di prendere atto di una situazione tutt’affatto diversa.

Parte appellante non soltanto non ha fornito la piena prova del danno subito, ma, per le già chiarite ragioni, si è richiamato a dati che neppure potevano costituire “principio di prova” in quanto non utilizzabili dal T.

A fronte dell’assoluta carenza di prova, quindi, e della inutilizzabilità a tal fine delle pregresse perizie, la statuizione del T non avrebbe potuto essere diversa e, per analoghe ragioni, non è possibile disporre diversamente neppure nell’odierno grado di giudizio.

Le richieste avanzate in primo grado, muovevano proprio dalla prospettiva (diversa da quella fatta propria dal T, non specificamente gravata in appello, e comunque condivisa dal Collegio) della restaurabilità del valore edificatorio del suolo.

Smentito detto presupposto non avrebbe potuto il T – se non violando il principio dispositivo ex art. 112 cpc e, insieme, svolgendo una inammissibile attività di “supplenza giudiziaria”- prendere la iniziativa di “formare” ex novo la prova: ciò, per soprammercato, avuto riguardo ad una confusa richiesta (“indennità di occupazione legittima ed illegittima” ) in parte esuberante rispetto alla giurisdizione di questo Plesso.

E’ appena il caso di osservare, che ciò non pregiudica parte appellante, che sulla tematica del valore del suolo potrà confrontarsi con l’ Amministrazione, ex art..42 bis del TU Espropriazione, e che potrebbe riproporre comunque il petitum in sede giurisdizionale (come già osservato in primo grado).,

3.3. Conclusivamente, l’appello va disatteso nei termini di cui alla motivazione che precede.

Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.

4.Alla soccombenza consegue la condanna di parte appellante, in solido, al pagamento delle spese processuali del grado in favore di parte appellata, nella misura che, avuto riguardo alla natura della controversia, e tenuto conto della circostanza che numerose domande di parte odierna appellante sono state accolte in primo grado, può essere contenuta in complessivi euro duemila (€ 2000//00), oltre oneri accessori, se dovuti.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi