Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-10-27, n. 201604508

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2016-10-27, n. 201604508
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201604508
Data del deposito : 27 ottobre 2016
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/10/2016

N. 04508/2016REG.PROV.COLL.

N. 09249/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello nr. 9249 del 2006, proposto dal signor A D R, rappresentato e difeso dagli avvocati V B e F V, con domicilio eletto presso lo studio legale Recchia &
Associati in Roma, corso Trieste, 88,

contro

il COMUNE DI NAPOLI, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati G T, E B, F M F, A A e B Atis Chalons d’Oranges, con domicilio eletto presso l’avv. Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18,

per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Campania, sez. IV, n. 10623/2005, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, all’udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2016, il Consigliere Giuseppe Castiglia;

Uditi gli avvocati F V per la parte appellante e Gabriele Pafundi, su delega dell’avv. Barbara Accatatis Chalons d’Oranges, per l’Amministrazione comunale appellata;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il signor Antonio D R è proprietario a Napoli di un compendio immobiliare, composto da diversi manufatti (un corpo di fabbrica e due tettoie in lamiera, che ne costituiscono pertinenza), sui quali ha compiuto dei lavori.

2. Con disposizione dirigenziale n. 2232 del 17 dicembre 2003, il Comune ha ordinato la demolizione delle opere eseguite, ai sensi dell’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (c.d. testo unico dell’edilizia;
d’ora in poi: t.u.).

3. Il signor D R ha impugnato il provvedimento e, con istanza presentata il 26 maggio 2004, ha chiesto al Comune - a norma dell’art. 36 t.u. - l’accertamento di conformità dei lavori, che non avrebbero comportato alcun aumento complessivo del volume preesistente, e la concessione in sanatoria.

4. Con sentenza 16 luglio 2004, n. 10352, il T.A.R. per la Campania, sez. IV, ha dichiarato il ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo l’atto impugnato destinato a essere sostituito dalla nuova determinazione conseguente a tale istanza.

5. Con disposizione dirigenziale n. 568 del 24 luglio 2004, il Comune - sul parere contrario della Commissione edilizia e sul presupposto dell’avvenuta realizzazione di un aumento volumetrico, in contrasto con l’art. 17 della variante di salvaguardia approvata con d.P.G.R. Campania n. 9297 del 6 agosto 1998 - ha respinto l’istanza di sanatoria e rinnovato l’ordine di demolizione.

6. Il signor D R ha impugnato anche il nuovo provvedimento, proponendo un ricorso che il medesimo T.A.R. ha respinto con sentenza 4 agosto 2005, n. 10623.

7. Contro la sentenza il ricorrente ha interposto appello, affidato a numerosi motivi di gravame, rivolti in parte contro il diniego di accertamento di conformità, in parte avverso il rinnovo dell’ordine di demolizione.

8. Il Comune di Napoli si è costituito in giudizio per resistere all’appello con una succinta memoria.

9. All’udienza pubblica del 20 ottobre 2016, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

10. In via preliminare, il Collegio osserva che la ricostruzione in fatto, sopra riportata e ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non è stata contestata dalle parti costituite ed è comunque acclarata dalla documentazione versata in atti. Di conseguenza, vigendo la preclusione posta dall’art. 64, comma 2, c.p.a., devono darsi per assodati i fatti oggetto di giudizio.

11. L’appello è infondato, salve le precisazioni di cui si dirà subito appresso in relazione al primo motivo del gravame.

11.1. Quanto al diniego di accertamento in conformità, il T.A.R. ha ritenuto di non potere esaminare nel merito il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, perché l’intervento sulle tettoie (che, in quanto aperte, non sarebbero suscettibili di produrre aumento di volumetria) non potrebbe ricomprendersi, nemmeno implicitamente, nel provvedimento impugnato. Condividendo questa premessa, l’appellante sostiene che il Comune avrebbe dovuto adottare un provvedimento positivo sull’istanza di accertamento di conformità nella parte relativa alle tettoie e che il silenzio-rifiuto, invece serbato, sarebbe illegittimo.

Per la verità, secondo quella che parrebbe una piana lettura del testo, il provvedimento impugnato in questa sede, nel rinnovare l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, sembrerebbe avere fatto proprio per relationem l’intero contenuto dispositivo del precedente provvedimento n. 2232/2003, estendendosi anche alle tettoie e non limitandosi al corpo di fabbrica.

Il primo giudice ha invece ritenuto che l’intervento sulle tettoie non sarebbe oggetto del provvedimento impugnato e non potrebbe ricomprendersi in questo, neppure implicitamente.

Nella sua memoria, il Comune contesta la legittimità dell’intervento eseguito sulle tettoie, ma non impugna con appello incidentale il relativo capo della sentenza di primo grado, sul quale si è dunque formato il giudicato.

Il Collegio ne dà atto.

La conseguenza non è però in una parziale illegittimità dell’atto impugnato per la mancata adozione di un provvedimento di accoglimento, ma in ciò, che sul punto specifico della sanabilità delle tettoie deve intendersi che il Comune non abbia risposto.

Poiché però lo stesso appellante sostiene di avere chiesto l’accertamento di conformità per (tutte) le opere eseguite, valuterà l’Amministrazione se e quali possibili iniziative possa o debba adottare al riguardo.

11.2. Ancora quanto al diniego di accertamento in conformità, il signor D R sostiene che, per la parte relativa al corpo di fabbrica, non vi sarebbe stato alcun aumento di volumetria, perché la realizzazione del locale soppalco adibito a servizi igienici e impianti tecnologici non avrebbe alterato il volume complessivo del manufatto e sarebbe rispettoso della volumetria legittima nella sua consistenza precedente (secondo la prescrizione dell’art. 17 della variante di salvaguardia al P.R.G.), in quanto le opere sarebbero state necessarie per l’adeguamento alle sopravvenute normative antisismiche nonché in materia di sicurezza e di igiene degli edifici. La stessa realizzazione di un solaio intermedio sarebbe espressamente prevista dal comma 11 bis del citato art. 17 della variante di salvaguardia.

L’appellante dichiara che, fermo il volume complessivo, avrebbe ricavato un soppalco destinato a servizi igienici e impianti tecnologici e che il primo giudice avrebbe accolto una interpretazione della norma di piano eccessivamente restrittiva e preclusiva di interventi necessari alla preservazione dell’esistente.

Il motivo è infondato.

Del tutto a ragione il T.A.R. fa leva sull’art. 17 della variante di salvaguardia al P.R.G. comunale (che, nella zona B – risanamento conservativo centro storico, consente solo interventi conservativi dei volumi legittimi preesistenti), e - in conformità della evidente ratio di tutela, propria della disposizione - ne trae la logica conseguenza del necessario rigoroso rispetto dello status quo ante sotto il profilo quantitativo e qualitativo. Poiché nella specie tale rispetto mancava, vista la tipologia dei lavori svolti, legittimamente il Comune ha ritenuto l’intervento precluso dalla norma di piano e ha rigettato l’istanza.

L’argomento dell’appellante, fondato su una limitata previsione della possibilità di realizzare soppalchi a determinate condizioni ( ex art 17, comma 11 bis ), non solo è nuovo e dunque inammissibile in questo grado di appello, ma sarebbe comunque infondato nel merito, posto che l’operatività della disposizione richiamata è evidentemente subordinata al rispetto della regola base del mantenimento (sostanziale e non solo formale) dei volumi preesistenti.

11.3. Quanto al rinnovo dell’ordine di demolizione, l’infondatezza della censura di illegittimità derivata dalla illegittimità del diniego di accertamento di conformità discende direttamente dalla reiezione del motivo che precede.

11.4. Il quarto motivo dell’appello censura il difetto di motivazione e di istruttoria: il Comune non avrebbe tenuto conto dei rilievi provenienti dall’appellante, in particolare di quelli contenuti nelle memorie relative al primo giudizio instaurato, che erroneamente il T.A.R. avrebbe ritenuto estranee all’ambito di applicazione dell’art. 10 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Il motivo è infondato, in quanto gli elementi che l’Amministrazione deve avere presenti ai fini del decidere sono quelli introdotti nell’ambito del procedimento amministrativo e non gli atti di parte concernenti un separato procedimento giurisdizionale, che il privato ha piena facoltà (e onere) di sottoporre autonomamente all’Amministrazione procedente.

11.5. Il T.A.R. avrebbe omesso di pronunziarsi sulla censura di illegittimità del provvedimento impugnato per essersi il Comune limitato a rinnovare l’ordine di ripristino dello stato dei luoghi senza adottare un nuovo provvedimento sanzionatorio (come invece stabilito dal T.A.R. con la sentenza n. 10352/2004) e senza procedere a una rinnovata istruttoria. Da ciò dunque anche la lamentata violazione dell’art. 112 c.p.c.

Poiché, diversamente da quanto sostiene l’appellante, il Comune ha rinnovato l’istruttoria, acquisendo il parere della Commissione edilizia espresso nella seduta del 15 luglio 2004, anche il presente motivo è infondato.

11.6. Con un ulteriore motivo, l’appellante sostiene che, per la sua conformazione (mera sostituzione di elementi costitutivi nel rispetto di altezze, volumi e destinazioni d’uso preesistenti, con la sola aggiunta di volumi tecnici e servizi igienici), l’intervento rientrerebbe nella manutenzione o nel risanamento conservativo o al più nella c.d. “ristrutturazione leggera”, per le quali – ai sensi degli artt. 6 e 22 t.u. e dell’art. 2 della legge regionale n. 19/2001 – sarebbe sufficiente la semplice d.i.a., senza necessità di permesso di costruire. Il Comune non avrebbe dunque mai potuto ordinare la demolizione, ma al massimo irrogare la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 37 t.u.

La tesi è infondata per più di una ragione.

Lo stesso appellante ammette di avere realizzato un’operazione di demolizione (parte della muratura di perimetro e del solaio) e ricostruzione.

Secondo l’art. 3, comma 1, lett. d ), t.u., nel testo all’epoca vigente, interventi di tal genere possono rientrare nella tipologia della ristrutturazione edilizia, purché mantengano volumetria e sagoma dell’edificio preesistente. Un eventuale scarto rispetto a tali parametri non escluderebbe tuttavia la ristrutturazione, ove le innovazioni fossero determinate dalla necessità di adeguarsi alla normativa antisismica.

Nel caso di specie, è indiscussa la variazione della sagoma (per effetto della sostituzione di una copertura inclinata con una piana, peraltro con asserita compensazione ed equivalenza finale dei volumi complessivi). L’argomento svolto dall’appellato in sua difesa [nel procedere ai lavori contestati, egli sarebbe stato mosso dall’intento di adeguarsi alla normativa antisismica, come pure alle prescrizioni dettate per la sicurezza e l’igiene degli edifici, sicché varrebbe l’ultimo inciso della lett. d )] è inammissibile in questa sede perché nuovo rispetto al grado precedente e appare comunque debole e poco credibile: non si vede davvero come si possa giustificare con finalità antisismiche (le sole previste dalla disposizione generale in funzione derogatoria) l’installazione di un servizio igienico, che non può che servire a rendere l’edificio abitabile o meglio utilizzabile.

Resta definitivamente confermato che i lavori eseguiti non costituivano ristrutturazione.

A detta dell’appellante, a norma degli artt. 6 e 10 t.u. tale intervento potrebbe realizzarsi mediante semplice d.i.a.

Senonché, proprio l’art. 6, comma 1, fa salve le più restrittive prescrizioni (della disciplina regionale e) degli strumenti urbanistici. E allora, come prima si è visto, alle conclusioni dell’appellante fa da insuperabile ostacolo l’art. 17 della variante di salvaguardia, nella corretta lettura che ne ha dato il T.A.R. e che il Collegio ha dichiarato di voler condividere.

11.7. Non sussiste la pretesa violazione degli artt. 31 e 33 t.u.: la necessaria applicazione dell’art. 33 (per trattarsi di intervento sul patrimonio edilizio e non di una nuova costruzione) avrebbe imposto al Comune di verificare la possibilità di rispristinare lo stato dei luoghi senza recare pregiudizio alla parte della costruzione regolarmente edificata, con possibile sostituzione della sanzione demolitoria con una pecuniaria. Il T.A.R. avrebbe fatto propria una nozione eccessivamente restrittiva e normativamente superata della “ ristrutturazione edilizia ”, non essendo più necessario il rispetto del criterio della “ fedele ricostruzione ”.

Poiché l’ambito di applicabilità dell’art. 33 t.u. è limitato agli interventi di ristrutturazione edilizia, che nella vicenda sono esclusi, era inevitabile per l’Amministrazione il ricorso all’art. 31 t.u., essendo l’applicabilità dell’art. 33 strettamente connessa a quella tipologia di intervento che nel caso non sussiste.

11.8. Con altro motivo l’appellante si duole di ciò, che il provvedimento si fonderebbe su presupposti di fatto erronei (perché non corrispondenti alle risultanze degli atti di parte) o malamente indicati.

Posto che non è contestata la natura delle opere compiute, il vizio di errore sui presupposti di fatto appare dedotto solo genericamente ed è perciò infondato.

11.9. L’appellante critica poi la mancata indicazione dell’area di sedime (in asserita violazione dell’art. 31, comma 2, t.u.), di cui il provvedimento impugnato dispone l’acquisizione, con difetto di istruttoria che sarebbe evidente.

Neppure questa censura è fondata.

Infatti, l’area di sedime oggetto di acquisizione è indicata per relationem con sufficiente chiarezza, fermo restando che, per le ragioni che si sono prima esposte al § 11.1, non può comprendere le aree corrispondenti alle tettoie, ma limitarsi a quella del corpo di fabbrica.

Non solo. Secondo l’indirizzo di questo Consiglio di Stato, “ l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene. L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l’atto di accertamento dell’inottemperanza nel quale va indicata con precisione l’area da acquisire al patrimonio comunale ” (da ultimo sez. VI, 5 gennaio 2015, n. 13, sulla scia di sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5593).

11.10. Con l’ultimo motivo, il signor D R censura l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, che sarebbe necessaria anche in caso di attività vincolata: la partecipazione costituirebbe un valore in sé, consentendo all’interessato di intervenire e fornire elementi utili all’Amministrazione.

Come i precedenti, neppure questo motivo ha pregio perché, secondo la giurisprudenza consolidata di questo Consiglio di Stato, le garanzie partecipative hanno una funzione sostanziale e non formale, anche per non costituire un inutile aggravamento procedimentale (da ultimo sez. V, 24 luglio 2014, n. 3928;
sez. III, 23 febbraio 2015, n. 896;
sez. VI, 18 maggio 2015, n. 2509).

L’obbligo di dare avviso dell’avvio del procedimento, previsto dall’art. 7 della legge n. 241/1990, viene appunto meno quando:

a ) lo scopo della partecipazione del privato è stato comunque raggiunto;

b ) manca l’utilità della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo perché il provvedimento adottato non poteva avere altro contenuto, trattandosi di atto completamente vincolato;

c ) il soggetto inciso sfavorevolmente dal provvedimento non ha fornito alcuna prova che, ove fosse stato reso edotto dell’avvio del procedimento, l’esito sarebbe stato diverso;

d ) il procedimento sia avviato su istanza di parte.

Verificandosi nella fattispecie la maggior parte di tali ipotesi, il motivo non ha pregio.

12. Dalle considerazioni che precedono discende che, come già detto, l’appello è infondato e, salve le precisazioni esposte al § 11.1, va perciò respinto, con conferma della sentenza impugnata e del provvedimento gravato con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

13. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663).

14. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

15. Le spese del presente grado di giudizio seguono la regola della soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi