Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 2013-10-11, n. 201304980
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N. 04980/2013REG.PROV.COLL.
N. 05065/2002 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5065 del 2002, proposto da:
D'Onofrio Francesco, rappresentato e difeso dall'avv. N C, con domicilio eletto presso Vincenzo Colacino in Roma, via Nicola Ricciotti, 9;
contro
Comune di Rotondi;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – SEDE DI NAPOLI, SEZIONE IV, n. 05185/2001, resa tra le parti, concernente concessione edilizia per costruzione fabbricato
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 aprile 2013 il Cons. Fabio Franconiero, nessuno essendo comparso per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Oggetto del presente giudizio è il diniego di concessione edilizia opposto dal Comune di Rotondi con nota di prot. 4285 del 5 luglio 1996 all’istanza presentata in data 23 dicembre 1991 da Francesco D’Onofrio per la costruzione di un fabbricato alla via Appia (S.S. 7).
Il diniego veniva motivato sul contrasto del progetto di cui all’istanza con il sopravvenuto P.R.G., che aveva assegnato alla zona su cui l’intervento edilizio avrebbe dovuto essere realizzato la incompatibile destinazione ad attività terziarie.
2. Contro questa determinazione D’Onofrio insorgeva davanti al TAR Campania – sede di Napoli, sostenendo, per quanto qui ancora di interesse, che il titolo concessorio si sarebbe formato in virtù del parere favorevole della Commissione edilizia, espresso il 9 gennaio 1992, che il successivo diniego, qualificabile come ritiro in autotutela, è carente di motivazione ed adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento ex art. 2 l. n. 241/1990.
3. Nel respingere l’impugnativa, il TAR adito osservava che:
- il parere favorevole della commissione edilizia non poteva essere equiparato al titolo concessorio, difettando dei necessari elementi strutturali, quali l’indicazione dei termini di inizio e conclusione dei lavori e la quantificazione del contributo di costruzione;
- l’atto impugnato non si sostanziava in un ritiro in autotutela di una precedente determinazione favorevole, costituendo invece una “sospensione soprassessoria di ogni decisione in merito all’istanza” alla luce del sopravvenuto strumento urbanistico e della conseguente operatività delle misure di salvaguardia;
- il superamento dei termini di conclusione del procedimento non si traduce nell’illegittimità dell’atto amministrativo.
4. Nel presente appello D’Onofrio, pur dichiarandosi consapevole che il parere della commissione edilizia non equivale a concessione ad edificare, evidenzia innanzitutto che l’abnorme lasso temporale intercorso tra la presentazione dell’istanza ed il provvedimento impugnato avrebbe dovuto condurre il TAR a ritenere quest’ultimo illegittimo, in quanto sintomatico di una preordinazione dell’amministrazione resistente diretta a negare il titolo abilitativo richiesto.
In secondo luogo, deduce che il diniego si fonda su un falso presupposto, visto che il P.R.G. adottato nel 1995 non è mai stato approvato, cosicché la situazione di pendenza determinata dalle misure di salvaguardia, della durata di 5 anni, ormai scaduti all’epoca della decisione di primo grado, deve ritenersi superata, cosicché il giudice di primo grado avrebbe potuto accertare “il diritto del ricorrente all’ottenimento della richiesta concessione” .
5. Così sintetizzata la prospettazione alla base del presente appello, il Collegio ritiene che la stessa non possa condurre ad una pronuncia di accoglimento.
5.1 Premesso che l’azione da cui trae origine il presente giudizio è di tipo impugnatorio, avverso il suddetto diniego di concessione, deve innanzitutto essere disattesa la prima censura, nella quale si sostiene che la stessa sarebbe inficiata da “un comportamento illegittimo” dell’amministrazione resistente, consistito nell’abnorme durata del procedimento, ed in particolare dell’atteggiamento inerte tenuto da quest’ultima successivamente al rilascio del parere favorevole da parte della Commissione edilizia. Per costante orientamento di questo Consiglio di Stato, infatti, il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo ( ex plurimis : Sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264;10 giugno 2010 n. 3695;Sez. VI, 1 dicembre 2010, n. 8371;14 gennaio 2009, n. 140;25 giugno 2008 n. 3215).
5.1.1 All’indirizzo ora richiamato deve essere data continuità, perché esso si fonda sull’applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell’une o delle altre, nel senso che solo in quest’ultimo caso la sanzione ricade sull’atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o l’annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio (cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725). Ora, se è vero che per effetto della legislazione di origine europea questa fondamentale distinzione tende ad affievolirsi in alcuni settori dell’ordinamento giuridico, in particolare in quello dei contratti caratterizzati da uno squilibrio economico delle parti, la stessa rimane tuttora valida nel diritto amministrativo, nel quale l’atto amministrativo è annullabile se carente dei requisiti di legittimità per esso previsti. Questi ultimi, a loro volta, sia che derivino dalla violazione di precetti normativi (violazione di legge ed incompetenza), sia che concernano il perseguimento del fine pubblico costituente la causa del potere autoritativo (eccesso di potere), attengono al concreto svolgimento della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale. Il cattivo esercizio del potere che si compendia nei tre tradizionali vizi di legittimità ora ricordati (art. 3, comma 1, l. 1034/1971, vigente all’epoca dei fatti e ora art. 21- octies , comma 1, l. n. 241/1990) è in altri termini una qualificazione normativa scaturente dal rapporto tra il precetto normativo astratto e l’atto provvedimentale, il cui riscontro implica un accertamento che non può prescindere da una verifica intrinseca a quest’ultimo.
Lo stesso è del resto a dirsi per l’eccezionale categoria della nullità dell’atto amministrativo (art. 21- septies l. n. 241/1990 e 46, comma 1- bis , d.lgs. n. 163/2006) e dei contratti di diritto comune. Per questi ultimi, in particolare, la nullità costituisce la sanzione apprestata per i casi di contrasto con norme inderogabili dall’autonomia privata o che comunque la prevedano (nullità virtuale e testuale di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 3 dell’art. 1418 cod. civ.), o ancora per carenza di un elemento strutturale del contratto stesso (nullità strutturale di cui all’art. 1418, comma 2).
Le fattispecie passate in rassegna esibiscono quindi un minimo comune denominatore, rappresentato dal fatto che i precetti normativi che presiedono alla manifestazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici ne costituiscono elementi costitutivi necessari, la cui mancanza ne rende inconfigurabile la fattispecie (nel caso della nullità) o ne determina la successiva invalidazione (nel caso dell’annullabilità).
5.1.2 Il rispetto del termine per la conclusione del procedimento si pone al di fuori di questo schema.
Benché con la legge generale sul procedimento amministrativo si sia assistito alla generalizzazione del dovere di rispettare il suddetto termine (art. 2, l. n. 241/1990), nessuna disposizione di legge lo ha elevato a requisito di validità dell’atto amministrativo, rimanendo dunque lo stesso confinato sul piano dei comportamenti dell’amministrazione, il quale ha dato luogo all’elaborazione da parte di questo Consesso dell’istituto del silenzio (sin dalla pronuncia della IV Sezione 22 agosto 1922, n. 429). Detto in altri termini, non si è assistito in questo campo a quel fenomeno di trascinamento di obblighi di comportamento sul terreno del giudizio di validità dell’atto, registratosi invece in alcuni settori del diritto civile (come ad esempio per gli obblighi di informativa precontrattuale per i contratti in materia di servizi finanziari conclusi a distanza: art. 67- septies decies , comma 4, cod. consumo).
E’ ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l’esercizio della funzione pubblica è connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva l’amministrazione del dovere di curare l’interesse pubblico, né rende l’atto sopravvenuto di per sé invalido.
A conferma di quanto ora osservato si può richiamare la successiva evoluzione normativa, segnata fondamentalmente dall’introduzione di un rito accelerato contro il silenzio (art. 2 l. n. 205/2000, aggiuntivo dell’art. 21- bis l. n. 241/1990;ora art. 117 cod. proc. amm.) e della regola della risarcibilità del danno da ritardo (mediante l’art. 2- bis l. n. 241/1990, introdotto con l. n. 69/2009: ora ), fino alla previsione per esso di una tutela di carattere indennitario (art. 2, comma 1- bis , aggiunto dal d.l. n. 69/2013, conv. dalla l. n. 98/2013). Il costante indirizzo di politica legislativa che si ricava dai citati interventi normativi è in sostanza quello di mantenere l’obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento sul piano dei comportamenti, fonte di responsabilità patrimoniale in caso di violazione, ma giammai requisito di validità degli atti.
5.1.3 Le stesse osservazioni possono essere fatte in chiave retrospettiva. Se infatti le ricordate innovazioni normative sono intervenute in epoca ampiamente successiva ai fatti oggetto del presente giudizio, non può nondimeno sottacersi come grazie all’opera pretoria di questo Consesso, il privato non risultasse anche allora sfornito di mezzi di tutela contro l’inerzia dell’amministrazione. Sin dal 1978, infatti, in epoca dunque antecedente alla generalizzazione dell’obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento, l’Adunanza plenaria (decisione del 10 marzo 1978, n. 10) aveva affermato in generale l’applicabilità dello strumento della diffida e messa in mora prevista dall’art. 25 del testo unico degli impiegati civili dello Stato (l. n. 3/1957), e dunque uno strumento valevole per proporre l’azione civile di risarcimento danni contro il funzionario inerte, al fine di fare constare il rifiuto dell’amministrazione di provvedere ed il conseguente silenzio-inadempimento, mediante la relativa azione davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, con specifico riguardo ai procedimenti di rilascio della concessione edilizia, l’art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 opera(va) un rinvio all’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942, in particolare per riguardo concerne la “procedura” . La norma richiamata, a sua volta, impone(va) all’amministrazione di provvedere entro 60 giorni dal ricevimento della domanda (comma 6), consentendo al privato istante di “ricorrere contro il silenzio rifiuto” (comma 7).
5.1.4 Pertanto, l’odierno ben avrebbe potuto avvalersi di quest’ultimo rimedio, per giunta senza dovere provvedere alla notifica di alcuna diffida.
Non può lo stesso, invece, dolersi dell’illegittimità del diniego sopravvenuto alla scadenza del suddetto termine. La verifica di conformità a legge di tale atto, in cui si sostanzia il giudizio di validità, come detto sopra, risulta infatti positiva, visto che il citato art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 prescrive(va) che la concessione edilizia sia rilasciata “in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici” . Il che è proprio quanto avvenuto nel caso di specie, essendo il diniego motivato sulla base dell’incompatibile destinazione impressa dal sopravvenuto strumento urbanistico alla zona su cui l’intervento oggetto di domanda avrebbe dovuto essere realizzato.
5.1.4.1 Tanto meno l’appellante può dolersi del fatto che la regolamentazione urbanistica dell’area in senso impeditivo dell’intervento edilizio progettato sia stata possibile proprio a causa dell’abnorme durata del procedimento e inferire da ciò una dolosa preordinazione dell’amministrazione di negare in ogni caso il necessario titolo concessorio.
Infatti, come sopra detto, la legittimità di un atto amministrativo è data dalla sua oggettiva rispondenza alle norme di legge ed ai principi generali che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa, mentre non rilevano a tal fine atteggiamenti meramente soggettivi dei funzionari inseriti nell’organizzazione dell’ente pubblico. Tramontate le ricostruzioni pan-civilistiche, la teoria generale dell’atto amministrativo si è ormai affrancata dagli elementi costitutivi di più diretta matrice contrattualistica ed in particolare dall’elemento della volontà e dalle relative connotazioni soggettivistiche. Più precisamente, nel campo dell’amministrazione la volontà rileva unicamente nella misura in cui si è estrinsecata nella determinazione autoritativa e non già quale espressione di uno stato psicologico dell’organo autore dell’atto.
6. Non può essere accolto nemmeno il secondo motivo d’appello.
6.1 Non si può fondatamente addebitare al TAR di non avere tenuto conto della scadenza dell’effetto di salvaguardia derivante dalla mancata approvazione del P.R.G. adottato nelle more del procedimento di rilascio della concessione edilizia e dal conseguente venir meno di tale situazione di pendenza.
Un simile accertamento esula dal giudizio di legittimità dell’atto amministrativo proprio dell’azione impugnatoria, quale invece esperita dall’odierno appellante. Oggetto di quest’ultima è – giova ancora ripeterlo – la verifica della corrispondenza dell’atto amministrativo rispetto alle norme di legge o ai principi generali che regolano l’esercizio della funzione amministrativa e non già l’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale coinvolta nel rapporto tra pubblico potere e privato che ha dato luogo all’emanazione dell’atto impugnato.
Per contro, sin dalla ricordata pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 10/1978 si è ritenuta ammissibile, sia pure entro certi limiti, la verifica al fondo della pretesa in questione nell’ambito del giudizio sul silenzio-rifiuto, che l’appellante avrebbe potuto esperire.
Inoltre, la regola sopra enunciata a proposito dell’azione di impugnazione va tanto più riaffermata nel caso di specie, nel quale la determinazione amministrativa sfavorevole sia legittimamente fondata su ragioni di diritto effettivamente sussistenti al momento della sua emanazione, ma venuti meno in epoca successiva.
6.2 Nel caso di specie, peraltro, il TAR ha debitamente dato conto del fatto che il diniego costituisce in realtà una sospensione soprassessoria sulla domanda di concessione edilizia, in attesa della conclusione del procedimento di approvazione dello strumento urbanistico generale.
Di ciò D’Onofrio risulta avere preso atto, sottolineando tuttavia che la perdita di efficacia della misura di salvaguardia derivante dall’adozione del P.R.G., a causa dello spirare del termine di legge per la sua conclusione, dovrebbe condurre al rilascio della concessione: “se la misura soprassessoria perde efficacia […] la concessione deve essere rilasciata” . Ma evidentemente questa richiesta deve essere indirizzata all’amministrazione e non già al giudice amministrativo, che non può sostituirsi alla prima, quand’anche non residuino margini di apprezzamento discrezionale.
L’appello deve dunque essere respinto.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese in assenza di costituzione dell’amministrazione resistente.