Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-01-27, n. 201500376

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2015-01-27, n. 201500376
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201500376
Data del deposito : 27 gennaio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 08766/2013 REG.RIC.

N. 00376/2015REG.PROV.COLL.

N. 08766/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8766 del 2013, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. S M, con domicilio eletto presso S M in Roma, Via Flaminia, 259;

contro

Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. del PIEMONTE –Sede di TORINO- SEZIONE I n. 01149/2013, resa tra le parti, concernente concernente destituzione dal servizio - ris. danni


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1 e 2 ;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 novembre 2014 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli Avvocati Elisabetta Nardone su delega dell'avvocato S M e l'Avvocato dello Stato Palatiello;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte – sede di Torino - ha respinto il ricorso di primo grado proposto dall’ odierna parte appellante -OMISSIS- volto ad ottenere l’annullamento, del decreto di sanzione disciplinare n. 51031/6234-2013.DS10, emesso dal Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria in data 6.8.2013, notificato in data 16.8.2013, con il quale gli è stata irrogata la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio e degli atti connessi.

La parte odierna appellante aveva prospettato numerose censure di violazione di legge ( tra cui gli artt. 6, 16 e 11 co. 3 del d.Lgs. n. 449/92 e l’art. 653 cpp) ed eccesso di potere analiticamente vagliate dal T che, ripercorsa anche sotto il profilo cronologico la vicenda procedimentale, ha dichiarato infondato il mezzo definendo la causa con sentenza breve alla camera di consiglio del 24.10.2013.

Il T, ha in proposito rammentato che con primo provvedimento in data 28.11.2012, impugnato, l’appellante era stato destituito dal servizio con riferimento a condotte di rilevanza penale dal medesimo tenute nell’ambito del servizio.

Con ordinanza n.166 in data 19.4.2013 il T aveva sospeso il provvedimento evidenziando, in particolare, che la posizione del predetto doveva essere valutata in modo più approfondito, tenuto conto del fatto che i procedimenti penali in cui era stato coinvolto lo avevano visto assolto per incapacità di intendere e volere al momento dei fatti.

Nelle more di questa prima vertenza, con contestazione disciplinare in data 15.1.2013, l’amministrazione aveva dato inizio ad altro procedimento disciplinare, poi conclusosi con il provvedimento oggetto di impugnativa in primo grado e che, parimenti, ne aveva sancito la destituzione.

Esso traeva origine da parallele vicende penali che lo avevano coinvolto.

In particolare, ha rilevato il primo giudice, il fatto presupposto del provvedimento destituivo per cui è causa consisteva in un addebito di violenza sessuale in danno della moglie di un detenuto nell’esercizio delle funzioni, e come tale aggravata. Nell’ambito del relativo procedimento penale, il ricorrente è stato assolto per mancanza di imputabilità in quanto incapace di intendere e di volere per infermità al momento del fatto, ma l’ampia e argomentata decisione di assoluzione aveva ricostruito i fatti e ritenuto attendibile la persona offesa quanto alle circostanze denunciate, concludendo espressamente che l’imputato non poteva essere assolto per insussistenza o non commissione dei fatti.

Il T ha disatteso il primo motivo di ricorso con cui era stato contestato che le proprie giustificazioni non erano state tenute in debito conto.

Rilevata, comunque, la estrema genericità della censura, il T ha rammentato che le giustificazioni addotte erano unicamente due: una, di carattere formale (secondo cui avendo già ricevuto un provvedimento di destituzione, egli non poteva più essere assoggettato a sanzione disciplinare) e l’altra che poneva in evidenza lo stato di infermità riconosciuto nei confronti del -OMISSIS- con riferimento al momento dei fatti.

Quanto alla prima argomentazione, però il -OMISSIS-, avendo impugnato la prima destituzione e avendo ottenuto la sospensiva (oltre che la successiva revoca), si era ricollocato in una posizione di rapporto di servizio, che aveva riattivato il procedimento disciplinare.

Quanto all’imputabilità, il provvedimento gravato aveva –ad avviso del T- considerato il particolare tipo di ragione dell’assoluzione del -OMISSIS- e l’aveva ritenuta irrilevante;
sul punto la motivazione non poteva dirsi carente.

Peraltro il provvedimento era preceduto da ampio e motivato verbale del consiglio centrale di disciplina: non sussisteva il lamentato vizio motivazionale.

Il primo giudice ha poi disatteso la seconda censura (incentrata sulla supposta violazione del diritto di difesa a cagione della circostanza che il proprio difensore aveva allegato di non poter presenziare alla trattazione orale della vertenza disciplinare fissata per il giorno 10.7.2013, chiedendo un rinvio che non era stato accordato) in quanto nessuna norma imponeva l’assistenza obbligatoria del difensore in sede disciplinare.

In concreto, peraltro, l’appellante aveva potuto indicare un difensore ed aveva beneficiato di un rinvio oltre ad aver presentato, tramite il difensore, le difese scritte ritenute più opportune e vagliate dall’amministrazione.

Peraltro al difensore per altro era ben data la possibilità di farsi sostituire, ferma l’esigenza di evitare che condotte dilatorie incidessero sul rispetto dei tempi della procedura.

Analoga sorte è stata riservata alla terza censura (incentrata sull’asserita violazione del termine a difesa di cui all’art. 16 co. 2 del d.lgs. n. 449/92) in quanto era stato documentato senza repliche sul punto, che la convocazione per il giorno 17 luglio era stata ricevuta in data 24.6.2013, quindi nel rispetto del termine contestato.

Il T ha poi preso in esame la censura centrale di merito, (quarto motivo) con la quale si era contestato che, al momento della destituzione, la misura di sicurezza era già stata revocata e che, con riferimento ad altri reati commessi nello stesso arco di tempo e per i quali era stato ugualmente assolto per incapacità, l’amministrazione aveva ritenuto di archiviare la posizione disciplinare.

Ad avviso dell’appellante in tal modo si sarebbe creata una ingiustificata disparità di trattamento per episodi analoghi: in ogni caso, la riconosciuta incapacità al momento dei fatti non giustificava la sanzione disciplinare.

In contrario senso, il T ha osservato che irrilevante appariva specifico momento della revoca della misura di sicurezza, fermo restando che una misura di sicurezza, che presuppone la riconosciuta pericolosità sociale dell’interessato, era stata pacificamente applicata con riferimento ad episodi occorsi in servizio.

E del pari irrilevante appariva anche la scelta dell’amministrazione (se mai sintomatica di una articolata e scrupolosa valutazione dei fatti) di archiviare paralleli procedimenti disciplinari correlati a fatti di reato (esercizio abusivo della professione legale, calunnia) valutati diversamente nelle loro caratteristiche di intrinseca gravità ed attentato alla persona, rispetto a quanto contestato con riferimento al provvedimento oggi impugnato.

Quanto all’assoluzione per non imputabilità al momento del fatto, posto che la normativa tipizzava l’applicazione di una misura di sicurezza (che presupponeva il vizio di mente) quale possibile presupposto normativo per la destituzione dovevano collocarsi su diversi piani l’imputabilità e la connessa responsabilità penale rispetto alla rilevanza disciplinare di condotte di particolare gravità che, come tali, possono oggettivamente ledere il rapporto fiduciario tra dipendente ed amministrazione o rendere il primo incompatibile con lo svolgimento del servizio. Il tipo di condotta addebitato al inserito in un quadro di plurime condotte di rilevanza penale tutte scaturite, e in un certo senso favorite, dal contesto lavorativo, risultava in palese contrasto con le delicate esigenze, anche di tutela dell’incolumità individuale altrui, intrinseche all’operatività nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria. L’amministrazione risultava aver attentamente rilevato che la riscontrata non imputabilità si collocava su piano diverso da quello disciplinare e che, per contro, da una integrale lettura della sentenza che aveva applicato la misura di sicurezza, si evinceva che le condotte in quanto tali erano state ritenute provate (il che escludeva la fondatezza del quinto mezzo): dalla decisione penale si evinceva che l’imputato ha commesso il fatto e che il medesimo “sussiste”.

Il ragionevole diverso rilievo dato dall’ordinamento al vizio temporaneo di mente con riferimento alla responsabilità penale e a quella disciplinare nel cui ambito ugualmente meritevoli di tutela apparivano le ragioni del buon andamento del servizio e gli intrinseci rischi che l’inadeguatezza allo stesso sia causa di danni a terzi legittimavano un giudizio di correttezza dell’operato dell’Amministrazione e la integrale reiezione del mezzo.

Conclusivamente, il ricorso è stato integralmente disatteso.

La odierna parte appellante, già ricorrente rimasta soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso il contenzioso intercorso ed ha sostenuto che il T non aveva colto una serie di importanti evidenze: la sentenza, viziata ex art. 112 cpc, doveva essere annullata, ed all’uopo l’appellante ha proposto sei articolati motivi di censura

All’adunanza camerale del 9 gennaio 2014 la Sezione con ordinanza n. 00052/2014 ha respinto l’istanza di sospensione della esecutività della impugnata decisione alla stregua della considerazione per cui “Rilevato che, quanto al periculum in mora ed al bilanciamento degli interessi è senz’altro prevalente l’esigenza pubblica sottesa al provvedimento gravato;

rilevato altresì che, seppur nella sommarietà della delibazione cautelare, in relazione al fumus , l’appello non appare fornito di decisiva consistenza, in relazione alla circostanza che l’avvenuto proscioglimento per infermità non impedisce l’intrapresa delle azioni disciplinari e, a monte, non esclude che si tratti della commissione di un fatto di reato seppur commesso da soggetto non imputabile, come peraltro si evince dagli artt. 222, 224, 203 del codice penale (rappresentativi della circostanza che anche il fatto commesso dal non imputabile possa essere ascritto ai canoni del dolo o della colpa)”;

Alla odierna pubblica udienza del 4 novembre 2014 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

DIRITTO

1.L’appello è infondato e deve essere respinto, nei termini di cui alla motivazione che segue.

1.1.Va premesso che la sentenza non pare affatto viziata ex art. 112 cpc: la Sezione condivide la tradizionale impostazione secondo cui l'omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112, c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo. ( ex aliis Consiglio Stato, sez. IV, 16 gennaio 2006, n. 98).

Va altresì rammentato che per costante giurisprudenza

"il vizio di omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile. (tra le tante Consiglio Stato , sez. VI, 06 maggio 2008, n. 2009).

I primi giudici, pertanto, hanno condiviso l'impianto sostanziale del provvedimento impugnato: sia pure non fornendo analitica e partita risposta sulle questioni dedotte nei sopracitati motivi del ricorso di primo grado, essi si sono implicitamente pronunciati sulle medesime, respingendole, avendo riscontrato la legittimità degli atti impugnati in primo grado sotto profili assorbenti rispetto alla portata delle censure medesime.

Ritiene la Sezione di potere condividere detto modus procedendi , e che nel caso di specie non sia ravvisabile alcuna lesione del principio di cui all'art. 112 cpc: in ogni caso, si deve rilevare che L'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa ( tra le tante Consiglio Stato , sez. IV, 19 giugno 2007, n. 3289 oggi, si veda l’art. 105 del cpa) ed a ciò si procederà nel prosieguo della presente esposizione.


2.Ritiene il Collegio di esaminare per prime ( e congiuntamente stante la loro intima connessione), le radicali censure mosse da parte appellante investenti l’ an dell’adozione da parte dell’Amministrazione della iniziativa disciplinare in pregiudizio dell’appellante medesimo.

2.1. Nessuna di esse appare persuasiva. Va rammentato che costituisce jus receptum il principio per cui per cui neppure l’intervenuta archiviazione del procedimento penale precluda l’esercizio del potere disciplinare di guisa che può senz’altro affermarsi che, anche successivamente alla emissione di una sentenza ex art. 425 del codice di rito penale l’amministrazione può intraprendere l’iniziativa disciplinare ( “l'archiviazione delle indagini penali per remissione di querela non impedisce l'attivazione del procedimento disciplinare per fatti rilevanti nel rapporto di impiego, anche se coincidenti in tutto o in parte con quelli oggetto di indagini penali -art. 9 comma 6, d.P.R. 25 ottobre 1981 n. 737-T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 05 giugno 2007, n. 5175;

“in tema di procedimento disciplinare è legittimo dare rilevanza a fatti che siano stati oggetto di precedenti procedimenti penali, in seguito archiviati, dal momento che il decreto di archiviazione racchiude valutazioni che afferiscono specificatamente al profilo penale il che non può precludere un loro apprezzamento in sede disciplinare.” Consiglio Stato, sez. VI, 05 dicembre 2005, n. 6944).

L’esito del processo penale costituisce certamente elemento che necessariamente l’Amministrazione deve accuratamente ponderare chiarendo siano gli eventuali elementi che la inducano a discostarsi dalla valutazione giudiziale.

Ma certamente, quanto alla incidenza e refluenza della valutazione del giudice penale sul procedimento disciplinare, il Collegio – che lo condivide e fa proprio – riafferma in questa sede la esattezza del principio affermato da pacifica giurisprudenza secondo il quale “la p.a. pur essendo vincolata all'accertamento dei fatti emersi nel giudizio penale, ben può discostarsi, con apprezzamenti di carattere autonomo, dalle valutazioni svolte dal giudice in ordine a tali fatti, sia perché queste non sono di per sè vincolanti, sia perché un fatto ritenuto di una certa gravità ai fini dell'applicazione della sanzione penale, può assumere un diverso rilievo se valutato, in sede disciplinare, nel contesto del rapporto di pubblico impiego (Corte Cost. n. 741 del 14.10.1988;
Cons. St. Sez. V, n. 883 del 7.8.1996).

Per la pacifica giurisprudenza amministrativa, infatti, “l'illiceità penale e quella disciplinare operano su piani differenti, ben potendo un determinato comportamento del dipendente rilevare sotto il profilo disciplinare, anche se lo stesso non è punito dalla legge penale;
pertanto, il riconoscimento di attenuanti o l'applicazione della prescrizione in sede penale non impediscono la sanzionabilità del fatto sotto l'aspetto disciplinare, che può trovare preclusione soltanto nell'identità materiale tra fatto penale e fatto disciplinare sanzionato, quando il proscioglimento è pieno perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso.”(Consiglio Stato , sez. IV, 15 settembre 2010 , n. 6868).

2.2. Sol che si consideri che la formula di proscioglimento resa nei confronti dell’appellante è quella del difetto di imputabilità/fatto non costituente reato e che non si è assolutamente in presenza di un accertamento preclusivo alla intrapresa di azioni disciplinari (ed anzi, seppur incidentalmente, è certo che l’appellante commise materialmente i fatti ascrittigli) appare evidente l’assenza assoluta di asseriti elementi che avrebbero precluso in radice l’esercizio dell’azione disciplinare.

2.3. Deve pertanto affermarsi che: la sanzione disciplinare è inassimilabile a quella di natura amministrativa (ciò priva di fondatezza la seconda censura);
l’intervenuto proscioglimento non privava l’amministrazione di valutare autonomamente i fatti, stante la causa dell’assoluzione predetta, il che consente di disattendere la sesta censura, nella sua prima parte.

2.4. Per altro verso, il procedimento disciplinare sanziona condotte inquadrate in un rapporto biunivoco (amministrazione-dipendente) e tutela valori ben diversi ed ulteriori da quello del mero pericolo di reiterazione: la circostanza che la misura di sicurezza fosse stata revocata incide sulla prognosi di pericolosità sociale, ma non certo sul giudizio relativo alla possibile permanenza dell’appellante nei ruoli dell’amministrazione. Il quinto motivo è del tutto infondato: e ciò anche nella parte in cui richiama l’avvenuta archiviazione di altri due procedimenti relativi a reati commessi dal -OMISSIS- nello stesso arco di tempo.

Ciò può - al più- ex adverso testimoniare una certa tolleranza dell’amministrazione, e prova per tabulas l’assenza di alcun accanimento o prevenzione in capo a quest’ultima: non integra certo alcun diritto quesito ad una permanente “franchigia” dell’appellante sul piano disciplinare.

3. L’appellante contesta poi, con affermazioni apodittiche ed infondate (prima doglianza, quarta doglianza, ed ultima parte della sesta doglianza) la assenza di motivazione ed il difetto di proporzionalità: senonchè di tali vizi, apoditticamente ipotizzati, non v’è traccia alcuna.

Gli atti gravati sono esaurientemente motivati con il richiamo ai fatti storici commessi ed accertati – almeno tale dato, nella sua materialità storica, non è contestato - : detti fatti di reato sono gravissimi,integrando insieme abuso e strumentalizzazione dell’Ufficio ricoperto ed aggressione alla libertà sessuale di terzi: la ponderazione affidata alla lata discrezionalità amministrativa non è stata né abnorme né illogica.

Dette doglianze vanno disattese, unitamente a quelle proposte nell’ultima parte del quarto motivo secondo cui non sarebbero stati considerati i precedenti di servizio dell’appellante (lo si ripete: egli commise più gravi reati in un ristretto torno di tempo) .

3.1. Anche il terzo motivo di censura è del tutto infondato se non anche inammissibile per genericità: l’Amministrazione ha rispettato i termini procedimentali, e neppure l’appellante chiarisce in cosa si sia sostanziato l’asserito malgoverno (a tacere del fatto che il precetto invocato non attiene al termine finale perentorio di conclusione del procedimento).

3.2. Quanto alla quarta censura, premesso che i termini accordati erano del tutto congrui per articolare difese, comunque, e a tutto concedere, laddove l’appellante avesse avuto eccezionali e comprovate difficoltà ad articolare le proprie difese avrebbe dovuto farlo presente all’Amministrazione: senonchè giammai fu chiesto alcun rinvio della seduta del Consiglio di disciplina, il che priva di fondamento anche questa doglianza.

4. Conclusivamente, l’appello è del tutto destituito di fondamento e deve essere respinto, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.


5.Le spese processuali del grado seguono la soccombenza, e pertanto l’appellante deve essere condannato a corrisponderle in favore dell’Amministrazione nella misura che appare equo quantificare in Euro seimila (€ 6000//00) oltre oneri accessori, se dovuti.

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