Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2018-02-06, n. 201800767

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 2018-02-06, n. 201800767
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201800767
Data del deposito : 6 febbraio 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 06/02/2018

N. 00767/2018REG.PROV.COLL.

N. 02793/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2793 del 2017, proposto da:
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

contro

T C, rappresentata e difesa dall'avvocato A B, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. E B in Roma, viale dell'Università n. 11;

per la riforma

della sentenza breve del T.A.R. per la Liguria, sede di Genova, sezione I, n. 942/2016, resa tra le parti, concernente l’ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio e il mancato accoglimento della richiesta di autorizzazione al rientro in alcuni giorni per lo svolgimento di attività lavorativa.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di T C;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2018 il Cons. E F e udito l’Avvocato dello Stato Attilio Barbieri;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, l’odierna appellata, C T, chiedeva al T.A.R. Liguria l’annullamento del provvedimento del Questore di Imperia Cat. X/2016, notificato in data 31.5.2016, con il quale le era stato intimato l’ordine di allontanamento dai Comuni di Ventimiglia, Vallecrosia, Bordighera, Taggia, Imperia e Diano Marina, nonché del provvedimento della medesima Autorità Cat. II/16/Antic., notificato in data 17.6.2016, con il quale era stata rigettata la sua istanza di autorizzazione al rientro in Ventimiglia in giorni e orari prestabiliti, per lo svolgimento di attività lavorativa.

In particolare, con il provvedimento di allontanamento (“foglio di via obbligatorio”), il Questore di Imperia, rilevato che C T, residente a Macerata, era stata identificata in Ventimiglia alla via Verdi, alle ore 11.15, da personale della locale Stazione dei Carabinieri mentre, a bordo di una automobile ed in compagnia di altre persone, si accingeva a raggiungere la manifestazione non autorizzata composta da migranti che stava svolgendosi in quella strada, evidenziato altresì che tutte le persone identificate avevano dichiarato di far parte del movimento “no borders” e che avevano interesse a sostenere i manifestanti, premesso ancora che la suddetta risultava denunciata in data 25.9.2015 in ordine al reato di cui all’art. 18 T.U.L.P.S. ed in data 30.9.2015 per il reato di cui all’art. 633 c.p., evidenziato infine che ella non risultava svolgere nella Provincia di Imperia alcuna attività lavorativa né vi aveva dimora, la riconosceva pericolosa per l’ordine e la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c) d.lvo n. 159/2011, e ne disponeva conseguentemente, ai fini preventivi, l’allontanamento dai Comuni suindicati.

Con il successivo provvedimento di rigetto dell’istanza di autorizzazione a fare rientro, nella vigenza del provvedimento suindicato, nel Comune di Ventimiglia in giorni determinati per ragioni di lavoro, il Questore di Imperia essenzialmente evidenziava che, alla data del 31.5.2016, in cui era stato irrogato e notificato il provvedimento di foglio di via obbligatorio, la richiedente non svolgeva alcuna attività lavorativa nella Provincia di Imperia e che, solo successivamente all’allontanamento, la medesima si era attivata per “reperire una qualsiasi occupazione in loco con l’unico fine di procacciarsi un pretesto che le dia un qualche titolo formale per rimanere in quel di Ventimiglia”.

Il T.A.R., con l’appellata sentenza in forma semplificata, ha accolto la domanda di annullamento proposta dalla destinataria dei citati provvedimenti, ravvisando, con riferimento al primo, la fondatezza del motivo inteso a denunciare le carenze motivazionali che lo inficiavano, non contenendo esso elementi idonei a suffragare il giudizio di pericolosità formulato nei confronti della ricorrente né a dimostrare che la stessa potesse essere ragionevolmente ricondotta alla categoria di cui alla lettera c) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159/2011 (concernente, nella versione vigente ratione temporis , “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”).

Relativamente, invece, al provvedimento di rigetto dell’istanza di autorizzazione a fare rientro nel Comune di Ventimiglia, il T.A.R. ha evidenziato che la ricorrente aveva provato di avere già svolto attività di lavoro “a voucher” presso il ristorante “Costa Azzurra” di Ventimiglia nei giorni 13, 20 e 27 maggio 2016 e che la mancata considerazione della documentazione prodotta a comprova di tali circostanze (ossia i “voucher” o “buoni lavoro”), presentata anche alla Questura di Imperia in allegato all’istanza di autorizzazione, denotava il vizio di difetto di istruttoria del provvedimento di diniego.

Il T.A.R. ha altresì ritenuto fondata la censura intesa a lamentare la irragionevole estensione territoriale della misura di prevenzione, rilevando che il contestato ordine di allontanamento non produceva effetti circoscritti al territorio del Comune di Ventimiglia, nel quale si erano svolti i fatti riferiti dall’Amministrazione, ma impediva alla ricorrente di fare ritorno anche nei Comuni di Vallecrosia, Bordighera, Taggia, Imperia e Diano Marina, senza che fossero esternate le ragioni per le quali la presenza della ricorrente nelle località suddette – alcune distanti molti chilometri da Ventimiglia e mai teatro delle attività del “movimento no borders” – avrebbe potuto costituire una fonte di pericolo per la sicurezza o per la tranquillità pubblica, determinando in tal modo una sproporzionata incisione del diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, inerente alla libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio nazionale.

Infine, il T.A.R. ha ravvisato la fondatezza della censura concernente l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento prevista dall’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, essendosi omesso di indicare nel provvedimento impugnato le esigenze di celerità che, in ipotesi, avrebbero giustificato l’omissione dell’adempimento partecipativo.

Mediante i motivi di appello proposti dall’Amministrazione dell’Interno avverso la predetta sentenza, viene dedotto, in sintesi, che il giudice di primo grado ha trascurato di considerare alcune decisive circostanze, attinenti al ruolo di “leader” svolto da C T nell’ambito del movimento “no borders”, ovvero delle manifestazioni non autorizzate organizzate a partire dal mese di giugno del 2015, a ridosso del confine italo-francese, a sostegno della causa dei migranti in occasione dei respingimenti effettuati dalle Autorità francesi, con modalità che hanno assunto profili di rilevanza penale (attraverso condotte anche violente di occupazione e riunione non autorizzata) e comunque rivelatesi pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Si è costituita in giudizio l’appellata, per opporsi all’accoglimento dell’appello.

Con ordinanza n. 4777 del 28 settembre 2017, la Sezione ha disposto incombenti istruttori, di cui è stata incaricata l’Amministrazione appellante.

L’appello quindi, all’esito dell’udienza di discussione, è stato trattenuto dal collegio per la decisione di merito.

DIRITTO

L’appellata, C T, era destinataria di un provvedimento di allontanamento (cd. foglio di via obbligatorio) dai Comuni di Ventimiglia, Vallecrosia, Bordighera, Taggia, Imperia e Diano Marina, adottato dal Questore di Imperia ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c) d.lvo n. 159/2011, annullato dal T.A.R. Liguria con la sentenza appellata dal Ministero dell’Interno.

Il provvedimento impugnato, va subito rilevato, nella sua componente “retrospettiva”, poneva in evidenza che la destinataria della misura di prevenzione era stata denunciata in data 25.9.2015 per il reato di cui all’art. 18 T.U.L.P.S. (il quale punisce i promotori di una riunione pubblica non autorizzata) ed in data 30.9.2015 per il reato di cui all’art. 633 c.p. (il quale sanziona chiunque attui una invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati , al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto), mentre, nella sua componente “prospettiva”, sottolineava che la suddetta era stata controllata, il giorno stesso della sua adozione, mentre si accingeva ad unirsi, insieme ad altre persone, ai manifestanti “no borders”, ciò che, ad avviso dell’Amministrazione procedente, rendeva necessario intervenire a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Va altresì rilevato, al fine di comprendere il contesto storico-fattuale entro cui, come dedotto dall’Amministrazione appellante, è maturata l’esigenza di adottare il provvedimento impugnato, che il movimento cd. “no borders” è sorto nel 2015 al fine di sostenere la causa dei migranti che, sbarcati sulle coste italiane e dopo aver risalito la penisola, tentavano di attraversare il confine con la Francia e venivano qui respinti dalla Polizia francese.

Tanto sinteticamente premesso, deve in primo luogo osservarsi che il presupposto legittimante, ai sensi della disposizione citata, l’adozione del provvedimento “de quo” - in relazione al quale, evidentemente, deve essere parametrato l’onere motivazionale dell’Amministrazione - è che il destinatario “per il suo comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto” (…) “dedito alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”.

In particolare, assumono rilievo centrale, sul piano istruttorio e motivazionale, il profilo soggettivo, relativo alla “dedizione” del soggetto alla commissione di reati, e quello oggettivo, inerente alla attitudine offensiva dei medesimi reati nei confronti dei beni nominativamente individuati dal legislatore (ovvero, per quanto di interesse, quelli della “sicurezza” e della “tranquillità pubblica”).

A questo riguardo, è opportuno sottolineare che la misura preventiva in discorso si presenta, sul piano della sua tipizzazione normativa, fortemente caratterizzata in termini penalistici, nel senso che entrambi gli evidenziati profili costitutivi della fattispecie – quello soggettivo e quello oggettivo – devono essere ricostruiti, da un lato, attingendo al vissuto criminale del soggetto interessato (nei suoi risvolti pregressi ed in quelli prognostici), dall’altro lato, analizzando il potenziale offensivo insito nelle condotte criminose alle quali il medesimo risulti essere dedito (il quale, come si è detto, deve essere connotato da una precisa direzionalità lesiva, quanto ai beni esposti a pregiudizio).

In ordine a nessuno dei due menzionati profili, tuttavia, il provvedimento impugnato si rivela sufficientemente corroborato, da un punto di vista istruttorio e motivazionale.

Quanto al primo, infatti, la mera menzione delle due denunce che hanno riguardato l’appellata non è sufficiente a denotare la sua consolidata propensione alla commissione di reati, quale deve ritenersi insita nel concetto di “dedizione”: né, del resto, la stessa indole dei reati oggetto di denuncia appare indicativa di una spiccata inclinazione a delinquere, la quale consenta di formulare una valutazione prognostica negativa in ordine alla loro reiterazione.

Deve peraltro osservarsi che le due denunce sono menzionate nel provvedimento impugnato in primo grado come del tutto avulse dal contesto generale (quello relativo al movimento ed alle proteste “no borders”) e dalle modalità, anche allarmanti sul piano della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica (come evidenziato in sede difensiva dall’Amministrazione), che lo hanno caratterizzato: sì che la stessa connessione logico-argomentativa tra la parte “storica” del provvedimento (intesa a descrivere le precedenti vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’interessata) e quella “preventiva” (incentrata sull’esigenza di impedire alla suddetta l’ulteriore partecipazione alle manifestazioni organizzate dal movimento) si presenta del tutto inespressa e, quindi, sostanzialmente evanescente.

Sarebbe stato quindi onere dell’Amministrazione enucleare ulteriori “elementi di fatto”, secondo il chiaro disposto normativo, anche attinenti alle modalità di consumazione delle condotte criminose oggetto di denuncia ovvero al contesto in cui sono maturate, atte a sostenere, sul piano motivazionale, la qualificazione della appellata come “dedita” alla commissione di (determinate tipologie di) reati.

Venendo adesso al secondo profilo, deve osservarsi che dal provvedimento impugnato non si evince pressoché alcuna valutazione prognostica di pericolosità per i beni della sicurezza e della tranquillità pubblica, eventualmente insita nel comportamento pregresso dell’interessata, la quale possa essere disinnescata (solo) impedendole di accedere ai luoghi in cui essa si sia in precedenza manifestata.

Invero, la stessa affermata adesione della appellata al movimento dei cd. “no borders”, ad una delle cui manifestazioni ella si accingeva a prendere parte anche allorché, in data 31.5.2016, è stata controllata dai Carabinieri, non può considerarsi di per sé sintomatica di alcuno specifico e concreto pericolo per la sicurezza pubblica, in mancanza di ulteriori “elementi di fatto” (dei quali, naturalmente, deve essere dato conto nel contesto motivazionale del provvedimento limitativo) atti a dimostrare le concrete implicazioni, in termini di pericolosità, insite in quella condotta partecipativa.

In tale contesto, le allegazioni difensive dell’Amministrazione, intese ad esplicitare e lumeggiare quel pericolo, si atteggiano ad (inammissibile) forma di integrazione della motivazione del provvedimento impugnato: ciò perché esse, lungi dal chiarire ed esplicitare i fatti giustificativi del provvedimento, quali almeno “in nuce” dovrebbero già evincersi da esso, si propongono di corredarlo “a posteriori” di una motivazione che, per gli aspetti più strettamente attinenti alla fattispecie tipica del potere esercitato, si presenta sotto più profili carente.

Ciò vale, in particolare, per le precisazioni contenute nell’atto di appello (ma già emergenti dalla memoria difensiva prodotta dall’Amministrazione agli atti del giudizio di primo grado) in ordine alle modalità con le quali si sono svolte le manifestazioni alle quali l’appellata avrebbe preso parte e dalle quali sono scaturite le denunce menzionate nel provvedimento impugnato (si pensi alle descritte condotte di minaccia, di lancio di oggetti e pietre anche di grosse dimensioni in direzione delle forze dell’ordine, all’attività di resistenza all’azione di controllo da queste posta in essere, ai blocchi della circolazione stradale, alla violazione sistematica dell'ordinanza sindacale di divieto di somministrazioni di alimenti ai migranti, emessa per motivi d’igiene e sanità pubblica).

Ad analoga conclusione deve pervenirsi in ordine alla posizione ed al ruolo specificamente ascritti alla appellata dall’Amministrazione appellante, la quale la definisce - solo, si ripete, in sede giudiziale, e salva ogni verifica in ordine alla avvenuta dimostrazione dei fatti allegati - come “leader carismatica” del movimento “no borders”.

A maggior ragione i rilievi svolti si attagliano alle allegazioni difensive intese a rappresentare le circostanze sopravvenute all’adozione del provvedimento impugnato, la cui rilevanza – proprio perché estranee al materiale istruttorio e valutativo utilizzato dall’Amministrazione attiva – potrebbe essere apprezzata, nel giudizio di legittimità, solo sul piano strettamente probatorio, ovvero quali indici dimostrativi ulteriori della fondatezza della valutazione di pericolosità, a condizione tuttavia (non verificatasi nel caso di specie, per quanto detto) che essa sia esaurientemente contenuta nel provvedimento restrittivo.

In ordine alle medesime circostanze, del reato, lo stesso giudice di primo grado discorre correttamente di “elementi suppletivi di valutazione”, idonei a concorrere a dimostrare la ragionevolezza delle valutazioni operate dall’Amministrazione, le quali devono pur sempre trovare nel provvedimento limitativo la loro principale sede espressiva, ma non a sopperire completamente alla loro mancata esplicitazione.

In conclusione, i vizi rilevati a carico del provvedimento impugnato, e posti correttamente dal T.A.R. a fondamento della appellata sentenza di annullamento, impongono la reiezione dell’appello, il quale deve essere invece dichiarato improcedibile relativamente al capo della sentenza impugnata che ha statuito l’annullamento, per vizi propri, del successivo provvedimento di rigetto dell’istanza presentata da C T al fine di fare rientro nel Comune di Ventimiglia per svolgervi attività lavorativa: è infatti evidente che, in forza del nesso di presupposizione necessaria tra essi sussistente, l’annullamento del provvedimento di allontanamento non potrebbe che ridondare automaticamente, in senso caducante, a carico del provvedimento di diniego.

Resta salvo, per finire, il potere dell’Amministrazione di rinnovare l’esercizio del potere di cui è titolare, previa valutazione di tutte le circostanze rilevanti, esternandone gli esiti nella motivazione del provvedimento conclusivo.

La peculiarità dell’oggetto della controversia giustifica la compensazione delle spese di giudizio sostenute dalle parti.

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