Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-03-18, n. 202001933

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-03-18, n. 202001933
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202001933
Data del deposito : 18 marzo 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 18/03/2020

N. 01933/2020REG.PROV.COLL.

N. 07278/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7278 del 2017, proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

contro

il Comune di Siculiana, rappresentato e difeso dagli avvocati M D P e A B, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, via di San Basilio, n. 61;
la Regione Siciliana, non costituitasi in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, n. 3406 del 2017.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Siculiana;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2020 il consigliere Silvia Martino e uditi per le parti l’avvocato M D P e l’avvocato dello Stato Eugenio De Bonis;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, Ispettorato Generale per i Rapporti Finanziari con l’Unione Europea, del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con l’impugnato atto del 1° aprile 2016, notificava al Comune di Siculiana la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, emessa in data 2 dicembre 2014, in esito alla causa C – 193/13, con la quale la Repubblica Italiana è stata condannata al pagamento di una somma forfettaria iniziale di 40 milioni di euro ed a penalità finanziarie semestrali fino al completo superamento della situazione di non conformità alla normativa europea delle discariche “abusive” situate nel territorio italiano.

Per dare esecuzione a tale sentenza, il Ministero dell’Economia e delle Finanze aveva provveduto, nel corso dell’anno 2015, a pagare l’importo della sanzione iniziale di 40 milioni di euro, oltre ad 85.589,04 a titolo di interessi di mora, e della prima penalità semestrale pari a 39,8 milioni di euro, a titolo di anticipazione ai sensi dell’art. 43, comma 9 bis , della legge n. 234 del 2012, salvo rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni censurate dalla Corte di Giustizia Europea.

Ai fini della procedura di rivalsa, l’amministrazione aveva effettuato l’imputazione delle penalità già pagate tra le discariche interessate sulla base degli elementi desumibili dalla sentenza della Corte di Giustizia che attribuisce una penalità di 400.000 euro per le discariche contenenti rifiuti pericolosi e 200.000 euro per quelle con rifiuti non pericolosi.

In esito a tali analisi, alle discariche situate nel territorio della Regione Sicilia sanzionate dalla Corte di Giustizia UE era stato imputato l’importo complessivo di euro 5.046.476,60, rispetto alle penalità complessivamente anticipate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, importo che avrebbe dovuto essere reintegrato ai sensi del citato art. 43, comma 9 bis , della legge n. 234 del 2012.

Pertanto, ai fini del raggiungimento dell’intesa sulle procedure di recupero degli importi anticipati dallo Stato, come previsto dall’art. 43, comma 7, della legge n. 234 del 2012, l’amministrazione statale aveva invitato la Regione Sicilia, quale responsabile in solido con i Comuni di San Filippo del Mela, Cammarata, Racalmuto, Siculiana, Leonforte, Augusta, Paternò, Monreale, Mistretta, Cerda e Priolo Gargallo, ai sensi dell’art. 250 del d.lgs. n. 152 del 2006, a voler concordare con gli enti locali le modalità attraverso le quali provvedere al suddetto reintegro che, in base alla normativa vigente, può avvenire anche mediante compensazione, fino a concorrenza dei relativi importi, con altri trasferimenti dovuti dallo Stato.

Il Ministero aveva concluso che, decorso il termine di 90 giorni senza alcuna indicazione in merito alle modalità di reintegro, avrebbe proceduto al recupero delle risorse in questione a carico dei singoli Enti interessati ai sensi della normativa vigente.

2. In primo grado, il Comune di Siculiana articolava i seguenti motivi di impugnativa:

1) Violazione dell’art. 43 della legge n. 234 del 2012. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di presupposti. Violazione dei principi di leale collaborazione, sussidiarietà, buon andamento, proporzionalità, giusto procedimento e diritto di difesa: violazione degli artt. 24, 97, 118 e 119 Cost. Violazione del principio di proporzionalità. Vizio di istruttoria. Violazione del principio di partecipazione procedimentale .

L’art. 43 della legge n. 234 del 2012 disciplina il potere di rivalsa dello Stato nei confronti degli enti pubblici che si siano resi responsabili dell’inadempimento alle direttive comunitarie, la cui violazione abbia comportato una condanna in esito ad una procedura di infrazione.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze aveva avviato il procedimento di rivalsa ed aveva imputato in via esclusiva alle amministrazioni locali la responsabilità per le violazioni censurate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

L’imputazione delle penalità sarebbe avvenuta in modo non procedimentalizzato, in quanto lo Stato avrebbe dovuto accertare la sussistenza della responsabilità dei Comuni coinvolti e delle Regioni caso per caso e con apposita istruttoria, in contraddittorio con gli stessi, e, accertato l’ an debeatur , avrebbe dovuto procedere, sempre in contraddittorio, alla ripartizione delle responsabilità fra i livelli coinvolti.

In definitiva, doveva ritenersi illegittima la previsione in automatico e deprocedimentalizzata della misura dell’imputazione della responsabilità in via esclusiva in capo agli enti locali, mentre lo Stato non aveva effettuato alcun procedimento volto ad accertare e gradare l’effettiva responsabilità degli enti locali in violazione dei principi e delle norme in materia di giusto procedimento;

2) Violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Eccesso di potere sotto altro profilo: vizio di istruttoria e sviamento .

Non vi sarebbe stata traccia né di un accertamento né della comunicazione di avvio del relativo procedimento;

3) Violazione e falsa applicazione: dell’art. 260 TFUE;
dell’art. 6, comma 1, dell’OPCM n. 2983 del 1999;
della OPCM n. 3852 del 2010;
dell’art. 17 del d.lgs. n. 22 del 1997;
degli artt. 14 e 17 d.m. n. 471 del 1999;
degli artt. 242 e ss. e dell’art. 250 d.lgs. n. 152 del 2006. Eccesso di potere. Violazione dei principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa. Violazione dell’art. 8 della legge n. 131 del 2003
.

Se fosse consentito allo Stato scaricare la responsabilità delle violazioni del diritto comunitario verso i livelli di governo “inferiori”, pur in presenza di specifiche competenze amministrative, ivi comprese quelle di tipo sostitutivo, si svuoterebbe di forza deterrente lo stesso strumento della sanzione per l’infrazione comunitaria.

La sentenza della CGUE aveva espressamente censurato l’inadeguatezza del sistema normativo italiano e già questo avrebbe evidenziato la responsabilità dello Stato centrale.

L’esercizio del potere sostitutivo sarebbe peraltro obbligatorio;
tuttavia il Commissario delegato per l’emergenza rifiuti nella Regione siciliana e, successivamente alla cessazione dello stato di emergenza, la stessa Regione non avevano esercitato le proprie competenze istituzionali in materia;

4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 118, comma 1, 119, 120, comma 2, 97, comma 1, Cost. Violazione e falsa applicazione dell’art. 8 l. n. 131 del 2003 .

All’omesso intervento sostitutivo dapprima del Commissario delegato per l’emergenza rifiuti nella Regione siciliana e, dopo la cessazione dello stato di emergenza, della stessa Regione, avrebbe dovuto corrispondere il doveroso intervento sostitutivo tanto del Ministero dell’Ambiente quanto soprattutto del Governo italiano;

5) Violazione del principio di proporzionalità. Violazione dell’art. 97 Cost. Eccesso di potere sotto altro profilo .

La sanzione, siccome imputata nella sua totalità in capo ai Comuni, era manifestamente sproporzionata;

6) Eccesso di potere: contraddittorietà;
ingiustizia manifesta;
irragionevolezza. Violazione dell’art. 43 della legge n. 234 del 2012 sotto altro profilo
.

L’atto del 1° aprile 2016 aveva di fatto imputato la responsabilità per le violazioni delle direttive comunitarie in materia di bonifiche ambientali, mentre la responsabilità solidale della Regione sarebbe stata solo dichiarata, trattandosi, a ben vedere, di una solidarietà per garanzia;

7) In via subordinata: istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’UE .

L’art. 43 della legge n. 234 del 2012 sarebbe incompatibile con l’art. 260 TFUE.

8) In via ulteriormente subordinata: illegittimità costituzionale dell’art. 43 della legge n. 234 del 2012 per violazione degli artt. 24, 111, comma 1, e 118, comma 1, Cost .;

9) In estremo subordine, la disposizione non consentirebbe alcuno spazio di difesa procedimentale per gli enti territoriali coinvolti .

3. Nel costituirsi in giudizio l’Avvocatura Generale dello Stato rappresentava che, nella seduta del 26 maggio 2016, la Conferenza Unificata aveva adottato una delibera di presa d’atto “ della volontà del Governo di accogliere la richiesta delle Autonomie regionali e locali di sospendere la decorrenza del termine di 90 giorni fissato nella nota di avvio della procedura di rivalsa da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze di cui alla nota n. 47484 del 26 maggio 2016 ”.

Di talché, essendo in corso il termine di 4 mesi di cui all’art. 43, comma 7, della legge n. 234 del 2012 per ricercare l’intesa, le amministrazioni statali sostenevano che in nessun caso l’atto impugnato sarebbe stato suscettibile di incidere direttamente sulla sfera giuridica degli enti destinatari, con conseguente inammissibilità del ricorso indirizzato nei confronti di un atto endoprocedimentale.

4. L’adito TAR:

- dichiarava parzialmente inammissibile la costituzione in giudizio della Regione Sicilia, poiché, in qualità di amministrazione cointeressata sarebbe stata legittimata a proporre il ricorso giurisdizionale in via autonoma e ne affermava l’ammissibilità limitatamente alla contestazione relativa alla responsabilità solidale della stessa Regione, poiché per tale aspetto essa assumeva la veste di controinteressata;

- respingeva l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse;

- accoglieva il ricorso nel merito e annullava gli atti impugnati.

5. La sentenza è stata impugnata dalla Presidenza del Consiglio, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dal Ministero dell’Ambiente, rimasti soccombenti, i quali hanno dedotto:

I. Violazione degli artt. 100 cod. proc. civ. e 39 c.p.a.. Omessa declaratoria dell’inammissibilità del ricorso, per carenza di interesse, in quanto diretto contro atto non provvedimentale .

Le Amministrazioni appellanti hanno ricordato, in primo luogo, che relativamente al caso della rivalsa conseguente alle sentenze di condanna della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con l’art. 4- bis del decreto-legge 5 gennaio 2015, n. 1, introdotto dalla legge di conversione 4 marzo 2015, n. 20, era stato inserito un nuovo comma, il 9- bis , nel detto art. 43, il quale non stabiliva più che l’emissione dei provvedimenti di recupero dovesse avvenire previa intesa con gli enti interessati, così come originariamente previsto dal (mai abrogato) comma 7 del medesimo art. 43.

Successivamente però, con due interventi normativi in rapida successione, questo comma è stato modificato due volte.

L’art. 43, comma 9- bis , è stato, infatti, dapprima modificato dall’art. 9, comma 8, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, convertito con l. 6 agosto 2015, n. 125 e, poi, integralmente sostituito dall’art. 1, comma 813, dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), per effetto del quale la disposizione impugnata ha assunto il seguente tenore: « Ai fini della tempestiva esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’articolo 260, paragrafi 2 e 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al pagamento degli oneri finanziari derivanti dalle predette sentenze si provvede a carico del fondo di cui all’articolo 41-bis, comma 1, della presente legge, nel limite massimo di 50 milioni di euro per l’anno 2016 e di 100 milioni di euro annui per il periodo 2017-2020. A fronte dei pagamenti effettuati, il Ministero dell’economia e delle finanze attiva il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuare da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse ».

Con sentenza n. 147 del 2016, la Corte costituzionale ha chiarito che il nuovo comma 9- bis deve essere « letto unitamente al comma 7 dello stesso art. 43, il quale prevede che i decreti ministeriali emanati al fine di stabilire la misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, “qualora l’obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati ».

In sintesi, risulta confermato che l’emissione del provvedimento di recupero postula la ricerca della previa intesa con l’ente competente, da perfezionarsi entro quattro mesi e che, ai sensi del successivo comma 8 del medesimo art. 43, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, all’adozione del provvedimento esecutivo di recupero debba provvedere il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ciò posto, emergerebbe dagli atti che – nonostante una certa ambiguità derivante dall’intimazione con cui si chiudeva l’atto impugnato (« decorso il termine di 90 giorni » etc.) – il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Governo nel suo complesso avrebbero costantemente ritenuto essenziale la ricerca della previa intesa con gli enti interessati, ai sensi del comma 7 dell’art. 43.

Questa essendo la pacifica interpretazione data agli atti dal loro autore, sarebbe evidente come – anche in conseguenza della sospensione del termine accordata il 26 maggio 2016 – al momento in cui il TAR si è pronunciato era ancora in corso il termine di quattro mesi che il citato comma 7 assegna alle parti per la ricerca dell’intesa.

Spirato tale termine, nel caso in cui fosse stata raggiunta l’intesa, sarebbe stato emesso il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, adottato con il concerto degli enti interessati, mentre, nel caso in cui l’intesa fosse mancata, la Presidenza del Consiglio dei Ministri avrebbe dovuto valutare l’adozione dell’atto previsto dal comma 8 del medesimo art. 43.

In questo contesto, una lesione per gli enti interessati sarebbe potuta, alternativamente, derivare solo:

- dalla emissione, da parte del Ministero dei decreti previsti dai commi 6 e 7 del citato art. 43, in assenza delle previa intesa o con contenuti che si discostassero dalla raggiunta intesa, ovvero

- dall’adozione, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, del provvedimento previsto dal successivo comma 8, con il quale esso avrebbe unilateralmente determinato – salva, appunto, la facoltà di contestazione giudiziale da parte degli interessati – la misura della rivalsa. In nessun caso l’atto impugnato sarebbe stato suscettibile di incidere direttamente nella sfera giuridica degli enti destinatari.

Nessuna lesione per l’ente ricorrente si sarebbe, dunque, prodotta per effetto del decorso del termine di novanta giorni che – forse inopportunamente, come evidenziano le stesse Amministrazioni appellanti – era stato indicato nell’atto del Dipartimento della Ragioneria Generale.

Prova ne sia il fatto che nessun effetto si è prodotto nella sfera di quegli enti territoriali che non hanno impugnato l’atto e che si sono limitati a contestare stragiudizialmente la propria responsabilità;
questi enti, esattamente come l’odierno appellato, dovranno infatti partecipare al procedimento di ricerca dell’intesa di cui all’art. 43, comma 7, e saranno, infine, attinti dal decreto (“concertato”) previsto dal comma 6, da quello (“unilaterale”) previsto dal comma 8 ovvero da nessun provvedimento, se tale sarà la valutazione discrezionale della Presidenza del Consiglio dei ministri all’esito della detta istruttoria.

L’esito di tale fase, allo stato, non è predeterminabile, soprattutto per quelli situazioni – come ad esempio le aree che costituiscono i siti di interesse nazionale (c.d. «S.I.N.») – per le quali può, sia pure in astratto, ipotizzarsi un coinvolgimento di responsabilità di organi statali.

Il ricorso avrebbe quindi dovuto essere dichiarato inammissibile perché indirizzato nei confronti di un atto endoprocedimentale o comunque perché avrebbe sostanzialmente introdotto un’azione di accertamento negativo della responsabilità dell’ente territoriale (in assenza di giurisdizione esclusiva del g.a., in materia);

II. Violazione dell’art. 43 della legge n. 234 del 2012 .

La sentenza sarebbe criticabile anche nel merito. Data la natura endoprocedimentale dell’atto, ad esso non potrebbe imputarsi una carenza di istruttoria e il mancato previo accertamento delle responsabilità degli enti coinvolti (in ipotesi, delle responsabilità anche statali, e non solo degli enti territoriali): quell’accertamento avrebbe dovuto essere, per l’appunto, il risultato dell’istruttoria che, con la iniziale contestazione della Ragioneria, prendeva avvio, e non un prius logico dell’atto medesimo di avvio.

Poiché la legge indica prioritariamente l’intesa – come modalità di determinazione delle responsabilità – il Ministero non era tenuto ad effettuare il previo “ accertamento delle responsabilità attribuite ”;
peraltro, ai sensi del cit. art 43, non ne avrebbe avuto neanche il potere.

Al detto Ministero compete infatti esclusivamente la fase della ricerca dell’intesa, nel coinvolgimento di tutti gli enti interessati, mentre la valutazione delle singole responsabilità è posta dalla legge in capo al Presidente del Consiglio dei ministri, “a valle” dell’eventuale fallimento del procedimento di intesa.

Quanto alla questione della sussistenza, o meno, di un diritto di rivalsa dello Stato, l’equivoco di fondo in cui sarebbe in corso il TAR consisterebbe nell’avere identificato nello Stato e non nella Repubblica italiana il destinatario delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea.

L’imputazione della responsabilità ai Comuni nel cui territorio sono situate le discariche controverse, si fonda sull’art. 250 del decreto legislativo n. 152 del 2006, ai sensi del quale qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano ovvero non siano individuabili e non provvedono né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi “ sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla Regione ”.

Da questa norma si evince con chiarezza che una responsabilità solidale delle Regioni e dei Comuni interessati può discendere dal mancato o inefficace esercizio di competenze amministrative proprie, in forza delle quali il Comune è tenuto a realizzare d’ufficio gli interventi di bonifica della discarica e la Regione è tenuta a surrogarsi nell’obbligo dei Comuni di realizzare d’ufficio tali interventi sulle aree interessate.

La sentenza della Corte di Giustizia del dicembre 2014, della cui esecuzione si tratta, è stata resa su ricorso proposto dalla Commissione europea ai sensi dell’art. 260 TFUE, in quanto le autorità italiane avevano omesso di dare esecuzione a una precedente sentenza della Corte di giustizia UE, resa il 26 aprile 2007, nella causa C-135/05, Commissione/Repubblica italiana.

Con tale sentenza era stato accertato l’inadempimento della Repubblica italiana in relazione a un elevato numero di discariche per le quali, tra l’altro, “le autorità competenti” nazionali avevano omesso di adottare “ una decisione definitiva sull’eventuale proseguimento delle operazioni, facendo chiudere al più presto le discariche che non ottengano l’autorizzazione a continuare a funzionare, o autorizzando i necessari lavori e stabilendo un periodo di transizione per l’attuazione del piano ”.

Le discariche oggetto della più recente sentenza sono, dunque, parte di un più ampio numero di siti per i quali, sin dal 26 aprile 2007, era stata giudizialmente accertata l’inerzia dei soggetti originariamente competenti a eseguire gli interventi.

Si erano quindi da anni realizzate le condizioni di fatto che avrebbero imposto ai Comuni di intervenire e alle Regioni interessate di esercitare il proprio potere “sostitutivo”.

Secondo le amministrazioni appellanti, a differenza del generale potere sostitutivo dello Stato nei confronti degli enti territoriali previsto dalla legge n. 131 del 2003 o da altre leggi speciali (ad es. la stessa legge 234 del 2012), il cui esercizio costituirebbe mera facoltà dello Stato, il subentro delle Regioni nelle competenze spettanti, in materia, ai Comuni costituisce oggetto di uno specifico e puntuale obbligo di legge. Si tratterebbe peraltro di una responsabilità “da risultato”, che non potrebbe essere esclusa sulla base di aspetti soggettivi.

In altre parole, la finalità dell’art. 43 della legge 234 del 2012 – il cui scopo principale è certamente quello di stabilire una deterrenza rispetto a condotte che espongono a sanzione la Repubblica italiana – non sarebbe quello di sanzionare i soggetti pubblici per una condotta colpevole, quanto di stabilire, sul piano interno, un corretto riparto dell’onere economico delle sanzioni UE, attraverso la costituzione di una sorta di “posizione di garanzia” presso l’ente pubblico che, per legge, è chiamato a esercitare le attività dovute.

In ogni caso, non potrebbe ipotizzarsi una mera inversione dell’onere della prova a carico dello Stato – ritenere, cioè, che lo Stato debba rispondere se non prova la responsabilità di altro ente pubblico – proprio perché la sentenza della Corte di giustizia che applica la sanzione non reca alcun accertamento della responsabilità dello “Stato” (che, se così fosse, sarebbe in effetti tenuto a rivalersi secondo le regole poste dall’art. 2055 cod. civ., che, peraltro, quanto meno introduce una presunzione di pari responsabilità), ma solo della responsabilità della Repubblica,

Inoltre, anche a volere ritenere, quod non , che il diritto di rivalsa postuli la responsabilità soggettiva dell’ente, dovrà trovare applicazione l’art. 1218 c.c. nei confronti dell’ente pubblico titolare dei doveri rimasti ineseguiti

6. Si è costituito, in resistenza, il Comune di Siculiana.

In primo luogo, il Comune ha evidenziato che, a differenza di quanto assunto dall’Avvocatura dello Stato, il provvedimento impugnato in primo grado:

1) ha postulato, dandola per accertata, l’imputazione della responsabilità della violazione delle norme comunitarie in capo agli enti locali in indirizzo;

2) ha determinato l’ammontare delle somme dovute da ogni singolo Comune, provvedendo anche al calcolo degli interessi di mora;

Il Comune ha poi evidenziato che nessun ritardo potrebbe essergli imputato nell’attuazione degli interventi di bonifica della discarica.

Infatti, i Comuni siciliani non hanno avuto alcuna competenza in materia di bonifiche tra il 1999 e il 2012 (per via della cosiddetta “emergenza rifiuti in Sicilia”, inaugurata con O.P.C.D.M. n. 2983/1999 e prorogata con O.P.C.D.M. n. 3852/2010);
anche successivamente, in continuità con le misure imposte durante il regime emergenziale, i procedimenti di bonifica sono stati scadenzati e diretti dalla Regione, che avrebbe dovuto finanziarli.

Nel 2015 le amministrazioni statali, ritenendo inidonea la procedura sino a quel momento imposta ai Comuni, hanno imposto l’avvio della procedura di caratterizzazione della discarica, preordinata all’eventuale messa in sicurezza permanente ovvero alla bonifica.

La messa in sicurezza d’emergenza, infatti, non poteva considerarsi sufficiente ad ottemperare alle sentenze d’infrazione della CGUE;
in ogni caso, all’epoca, i Comuni non avrebbero avuto alcun potere sulla bonifica dei siti.

L’effetto pregiudizievole del provvedimento impugnato risulta poi confermato, e non smentito, dalla “sospensiva” del successivo 26 maggio 2016 a firma del Ragioniere generale dello Stato.

L’atto di rivalsa ha in sostanza esaurito tutta la sua potenzialità lesiva prima dell’eventuale intesa, e sarebbe divenuto inoppugnabile se non censurato nei termini di legge.

Ciò senza considerare che lo stesso provvedimento ha poi rimesso alla Regione siciliana e ai Comuni l’intesa sulle modalità di recupero delle somme, violando, anche sotto questo profilo, proprio l’art 43, comma 7, cit., il quale coinvolge anche lo Stato.

Il Comune appellato ha poi confutato la tesi secondo cui l’omissione dell’esercizio del potere sostitutivo dello Stato non implichi la sua responsabilità.

Se infatti lo Stato non avesse avocato in via emergenziale tutte le competenze, sottraendole ai Comuni e alla Regione Sicilia, avrebbe comunque dovuto esercitare il potere sostitutivo di cui all’art. 8, comma 3, della l. 131/2003, già all’indomani della prima delle due sentenze della CGCE (la sentenza 2007/250, in causa C-135/05).

L’omissione dell’esercizio dovuto del potere sostitutivo si porrebbe, anzi, come antecedente eziologico autonomo rispetto alla condanna dell’Italia nella sentenza di cui alla causa C-196/2013, nella quale sono state evidenziate, peraltro, anche le carenze strutturali dello Stato italiano in materia di disciplina per la bonifica delle aree inquinate (si veda ad es. il punto 40 della sentenza;
ma anche il punto 90, sul “ mancato rispetto, generale e persistente, degli obblighi ”).

Il Comune ha infine riproposto le domande e le eccezioni già articolate in primo grado, non esaminate dal TAR.

7. L’appello è infine passato in decisione alla pubblica udienza del 13 febbraio 2020.

8. L’appello è infondato e deve essere respinto.

Al riguardo, si osserva quanto segue.

9. Il provvedimento impugnato in primo grado è l’atto del 1° aprile 2016 con cui il MEF ha notificato la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, emessa in data 2 dicembre 2014, in esito alla causa C – 193/13, con la quale la Repubblica Italiana è stata condannata al pagamento di una somma forfettaria iniziale di 40 milioni di euro ed a penalità finanziarie semestrali fino al completo superamento della situazione di non conformità alla normativa europea delle discariche abusive situate nel territorio italiano.

Ai fini della procedura di rivalsa, l’amministrazione ha operato l’imputazione delle penalità già pagate tra le discariche interessate “ sulla base degli elementi desumibili dalla sentenza della Corte di Giustizia ” che attribuisce una penalità di 400.000 euro per le discariche contenenti rifiuti pericolosi e 200.000 euro per quelle con rifiuti non pericolosi.

Il Comune odierno appellato ha articolato in primo grado plurimi motivi tra cui quello, poi accolto dal TAR, secondo cui “ L’imputazione delle penalità sarebbe tuttavia avvenuta in modo non procedimentalizzato in quanto lo Stato avrebbe dovuto accertare la sussistenza della responsabilità dei comuni coinvolti e delle regioni caso per caso e con apposita istruttoria, in contraddittorio con gli stessi, e, accertato l’an debeatur, avrebbe dovuto procedere, sempre in contraddittorio, alla ripartizione delle responsabilità fra i livelli coinvolti ”.

10. Nello specifico il TAR (in disparte le questioni sull’ammissibilità della costituzione in giudizio della Regione, non riproposte in questo grado dall’interessata), ha respinto l’eccezione di inammissibilità per carenza di interesse che l’amministrazione aveva dedotto in primo grado in virtù della sospensione poi disposta dallo stesso MEF del termine per adempiere.

Nel merito, il primo giudice ha sostanzialmente affermato che l’art. 43, comma 4, della l. n. 234 del 2012, richiede espressamente che lo Stato individui i responsabili della violazione al fine di procedere legittimamente all’azione di rivalsa. Il corpus normativo in materia prevede infatti lo svolgimento di una fase propedeutica a quella dell’esercizio dell’azione di rivalsa, “ vale a dire l’individuazione delle relative responsabilità, che postulano il mancato esercizio del potere di provvedere ”.

Tali responsabilità possono astrattamente sussistere – come peraltro riconosciuto anche in appello dall’Avvocatura dello Stato - sia in capo allo Stato che alle Regioni e agli enti locali.

Tuttavia, nella fattispecie, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha automaticamente escluso la responsabilità statale e individuato i Comuni intimati e la Regione Sicilia “ come responsabili della violazione, in assenza di qualsiasi istruttoria volta all’accertamento delle responsabilità ”.

11. Ciò posto, giova riportare il testo dell’art. 43, della l. n. 234 del 2012, nella parti di interesse per la presente controversia.

“1. Al fine di prevenire l'instaurazione delle procedure d'infrazione di cui agli articoli 258 e seguenti del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea o per porre termine alle stesse, le regioni, le province autonome, gli enti territoriali, gli altri enti pubblici e i soggetti equiparati adottano ogni misura necessaria a porre tempestivamente rimedio alle violazioni, loro imputabili, degli obblighi degli Stati nazionali derivanti dalla normativa dell'Unione europea. Essi sono in ogni caso tenuti a dare pronta esecuzione agli obblighi derivanti dalle sentenze rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, ai sensi dell'articolo 260, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

2. Lo Stato esercita nei confronti dei soggetti di cui al comma 1, che si rendano responsabili della violazione degli obblighi derivanti dalla normativa dell'Unione europea o che non diano tempestiva esecuzione alle sentenze della Corte di giustizia dell'Unione europea, i poteri sostitutivi necessari, secondo i principi e le procedure stabiliti dall'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, e dall'articolo 41 della presente legge. [...].

4. Lo Stato ha diritto di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni degli obblighi di cui al comma 1 degli oneri finanziari derivanti dalle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 260, paragrafi 2 e 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

5. Lo Stato esercita il diritto di rivalsa di cui ai commi 3, 4 e 10:

a) nei modi indicati al comma 7, qualora l'obbligato sia un ente territoriale;

b) mediante prelevamento diretto sulle contabilità speciali obbligatorie istituite presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato, ai sensi della legge 29 ottobre 1984, n. 720, per tutti gli enti e gli organismi pubblici, diversi da quelli indicati nella lettera a), assoggettati al sistema di tesoreria unica;

c) nelle vie ordinarie, qualora l'obbligato sia un soggetto equiparato e in ogni altro caso non rientrante nelle previsioni di cui alle lettere a) e b).

6. La misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, comunque non superiore complessivamente agli oneri finanziari di cui ai commi 3 e 4, è stabilita con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze da adottare entro tre mesi dalla notifica, nei confronti degli obbligati, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica italiana. Il decreto del Ministro dell'economia e delle finanze costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati e reca la determinazione dell'entità del credito dello Stato nonché l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più decreti del Ministro dell'economia e delle finanze in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato.

7. I decreti ministeriali di cui al comma 6, qualora l'obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati. Il termine per il perfezionamento dell'intesa è di quattro mesi decorrenti dalla data della notifica, nei confronti dell'ente territoriale obbligato, della sentenza esecutiva di condanna della Repubblica italiana. L'intesa ha ad oggetto la determinazione dell'entità del credito dello Stato e l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato. Il contenuto dell'intesa è recepito, entro un mese dal perfezionamento, con provvedimento del Ministero dell'economia e delle finanze, che costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più provvedimenti del Ministero dell'economia e delle finanze in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato, seguendo il procedimento disciplinato nel presente comma.

8. In caso di mancato raggiungimento dell'intesa, all'adozione del provvedimento esecutivo indicato nel comma 7 provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, nei successivi quattro mesi, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni. In caso di oneri finanziari a carattere pluriennale o non ancora liquidi, possono essere adottati più provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri in ragione del progressivo maturare del credito dello Stato, seguendo il procedimento disciplinato nel presente comma. [...]

9-bis. Ai fini della tempestiva esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 260, paragrafi 2 e 3, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, al pagamento degli oneri finanziari derivanti dalle predette sentenze si provvede a carico del fondo di cui all'articolo 41-bis, comma 1, della presente legge, nel limite massimo di 50 milioni di euro per l'anno 2016 e di 100 milioni di euro annui per il periodo 2017-2020. A fronte dei pagamenti effettuati, il Ministero dell'economia e delle finanze attiva il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuare da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse ”.

12. Il primo motivo di appello è incentrato sull’asserita natura endoprocedimentale dell’atto impugnato, il quale rappresenterebbe il mero avvio del procedimento di rivalsa, sia pure formulato nei termini di una invito a provvedere (pena l’avvio delle procedure di recupero).

Le Amministrazioni appellanti ammettono infatti che la disciplina recata dall’art. 43 testé menzionato, nel caso degli enti territoriali, richiede “ la ricerca della previa intesa con l’ente competente, da perfezionarsi entro quattro mesi, e che, ai sensi del successivo comma 8 del medesimo art. 43, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, all’adozione del provvedimento di recupero debba provvedere il Presidente del Consiglio dei Ministri ”.

E’ agevole rilevare che ciò è quanto sostanzialmente affermato dallo stesso TAR, laddove ha stigmatizzato l’assenza di una fase propedeutica all’esercizio dell’azione di rivalsa, così come procedimentalizzata dalla fonte primaria, deputata all’accertamento dell’ an e del quantum debeatur .

L’intesa prevista dall’art. 43, comma 7, della l. n. 234 del 2012 è infatti finalizzata non solo all’individuazione delle modalità di recupero ma anche alla determinazione della somma dovuta (cfr. il secondo periodo, secondo cui “ L'intesa ha ad oggetto la determinazione dell'entità del credito dello Stato e l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, anche rateizzato ”).

12.1. Per quanto concerne la natura dell’atto impugnato, vanno distinti gli atti che consistono nel formale avvertimento — indirizzato ad un soggetto (pubblico o privato), tenuto all’osservanza di un obbligo in base ad un preesistente titolo (legge, sentenza, atto amministrativo, contratto) — di ottemperare all’obbligo stesso, da quelli che hanno, invece, un’autonoma valenza provvedimentale.

I primi non hanno carattere novativo dei suddetti obblighi e usualmente il loro effetto consiste nel far decorrere un termine dilatorio per l’adozione di provvedimenti sfavorevoli nei confronti dei soggetti destinatari i quali, nonostante l’intimazione, siano rimasti inadempienti.

Le diffide e/o gli inviti in senso stretto, proprio per il loro carattere ricognitivo di obblighi che l’amministrazione assume come preesistenti e per il fatto di non vincolare la successiva azione amministrativa, non sono atti immediatamente lesivi della sfera giuridica del destinatario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 62 del 5 gennaio 2018).

Nel caso di specie l’atto impugnato non è una semplice diffida né un invito, poiché ha proceduto autonomamente a determinare l’ammontare delle somme dovute dai Comuni intimati, sull’assunto dell’imputabilità della violazione delle norme comunitarie e della sussistenza della responsabilità in via solidale della Regione.

Inoltre, escludendo qualsivoglia responsabilità dello Stato, ha effettuato anche una graduazione delle relative responsabilità.

Si tratta dunque di un atto complesso che, in violazione dei presupposti e della sequenza procedimentale configurata dall’art. 43 della l. n. 234 del 2014, ha aprioristicamente individuato l’ an e il quantum delle rispettive responsabilità, determinando il “credito” vantato dallo Stato.

A tale riguardo, la Corte Costituzionale (cfr., in particolare, la sentenza n. 147 del 2016) ha chiarito che se è vero, secondo quanto prevede il comma 9 – bis del cit. art. 43, che ai fronte dei pagamenti effettuati dallo Stato “il Ministero dell’Economia e delle Finanze attiva il procedimento di rivalsa a carico delle amministrazioni responsabili delle violazioni che hanno determinato le sentenze di condanna, anche con compensazione con i trasferimenti da effettuare da parte dello Stato in favore delle amministrazioni stesse ”, tuttavia tale disposizione (nel testo derivante dall’art. 1, comma 813, della l. n. 208 del 2015) deve essere letta unitamente al comma 7 dello stesso art. 43, il quale prevede che i decreti ministeriali emanati al fine di stabilire la misura degli importi dovuti allo Stato a titolo di rivalsa, qualora l’obbligato sia un ente territoriale, sono emanati previa intesa sulle modalità di recupero con gli enti obbligati.

L’atto impugnato, nel caso di specie, non risponde quindi né allo schema della diffida in senso stretto né ad una mera comunicazione di avvio del procedimento, poiché accerta e ripartisce responsabilità imponendo altresì un termine per provvedere.

Va poi soggiunto che, a differenza di quanto sostenuto dall’amministrazione, è irrilevante il fatto che, al momento in cui il TAR si è pronunciato, fosse ancora in corso il termine di quattro mesi per il raggiungimento dell’intesa, in ragione della “sospensione” accordata dal MEF del termine di 90 giorni indicato nell’atto impugnato.

Come evidenziato dal primo giudice, questa sospensione riguardava appunto solo il termine concesso per adempiere ma non comportava la rimozione dell’atto impugnato.

Restava quindi impregiudicato il presupposto dell’atto, ossia la responsabilità dei Comuni e della Regione.

13. Relativamente al secondo mezzo di gravame, va precisato che in primo grado il Comune odierno appellato non ha svolto una domanda di accertamento (dell’insussistenza della propria responsabilità), bensì soltanto di annullamento e che il TAR, al riguardo, si è limitato a constatare l’inosservanza del procedimento previsto per l’individuazione e ripartizione delle responsabilità.

Ad ogni buon conto, la tesi dell’Avvocatura dello Stato relativa all’esistenza di una sorta di responsabilità oggettiva degli enti locali e della Regione, derivante da una posizione di “garanzia” connessa alle rispettive attribuzioni istituzionali, contrasta con la formulazione letterale delle disposizioni in esame, ed in particolare con il quarto comma dell’art. 43, secondo cui “ Lo Stato ha diritto di rivalersi sui soggetti responsabili delle violazioni [...]”.

La fonte primaria non reca infatti alcuna deroga ai principi generali vigenti in materia.

In tal senso, anche la Corte Costituzionale (sentenza n. 219 del 2016) - relativamente all’analoga disposizione di cui all’art. 16, comma 5 – bis - della legge 4 febbraio 2005, n. 11, che prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della CEDU- ha escluso l’esistenza di un automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa e, conseguentemente, di una deroga al principio dell’imputabilità.

Compete pertanto “ sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in sede di adozione del decreto costituente titolo esecutivo, sia al giudice adìto, in sede di contestazione giudiziale dello stesso, la valutazione dell'incidenza causale dell'azione delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato ”.

Nell’ambito di tale valutazione “ assumono rilievo pregnante [...] le ragioni della violazione della CEDU ricavabili dall’accertamento compiuto nella sentenza di condanna del giudice europeo;
se sia possibile disapplicare la normativa interna ritenuta in contrasto con il diritto europeo;
se sia illegittimo l’operato dell’ente territoriale con riferimento alla disciplina dell'ordinamento interno;
se l’ente stesso sia titolare di potestà normativa primaria. Il requisito dell'imputabilità risulta, infatti, immanente al concetto stesso di responsabilità ed è coerente con la ratio dell'intera normativa sull'esercizio della rivalsa per violazioni del diritto europeo, con riferimento sia alle condanne della Corte di giustizia, sia a quelle della Corte EDU, in quanto volta alla prevenzione di tali violazioni attraverso la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo coinvolti nell'attuazione del diritto europeo
”.

In sostanza, la sentenza della Corte di Giustizia è solo il presupposto per l’esercizio dell’azione di rivalsa. Quest’ultima deve quindi fondarsi su autonome valutazioni di responsabilità da esporsi e rappresentarsi nel decreto di rivalsa al termine di un procedimento amministrativo partecipato, secondo la scansione disciplinata dall’art. 43 della l. n. 234 del 2012.

Il tutto è soggetto -nel caso di contestazione- al controllo del giudice della questione che è alla base della pretesa di rivalsa.

In tal senso, nel caso di specie, a differenza di quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, deve pertanto ritenersi la sussistenza non solo di posizioni di interesse legittimo, ma anche della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto trattasi di controversia che attiene alla “ complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti ” (art. 133, comma 1, lett. p. del c.p.a.;
cfr. anche, Cass. civ., Sez. Un., 28 giugno 2013, n. 16304) ovvero all’uso del territorio (art. 133, comma 1, lett. f;
cfr. anche Cass.civ., Sez. Un, 7 settembre 2016, n. 17674).

14. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

La novità delle questioni giustifica peraltro l’integrale compensazione delle spese del grado tra le parti.

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